Letteratura senza senso

Humpty Dumpty sat on a wall / Humpty Dumpty fell on the floor / and all the king’s horses and all the king’s men / Couldn’t put Humpty Dumpty on the wall again.

Dove sta scritto che Humpty Dumpty è un uovo? Da nessuna parte: per questo la filastrocca di cui è protagonista può essere letta come un indovinello la cui soluzione è, appunto, un uovo.

L’indovinello è un gioco antico, presente già nei testi vedici, nel mito greco, nella Bibbia. Ha avuto funzioni magiche e sacrali, ha incarnato sfide sapienziali con rischio di morte, è poi diventato forma di intrattenimento profano (nell’antica Grecia già con Simonide, 556 ca.-467 ca. a.C.), popolare, talvolta sboccato. Quello di Humpty Dumpty è, più propriamente, un riddle, un “indovinello la cui soluzione è data da cosa o azione comune”. La lingua inglese lo distingue dal conundrum che è, invece, the riddle the answer to which involves a pun “indovinello la cui soluzione è data da un gioco di parole”. In altre culture l’indovinello è altro ancora: lo zen, disciplina profondamente antiermeneutica e diffidente nei confronti di ogni spiegazione o interpretazione (e nei confronti delle parole, soprattutto scritte), controbatte alla tradizione occidentale dell’indovinello che richiede una soluzione con il kōan, enigma paradossale e insolubile con i metodi della logica. Ad esempio: Una ragazza cammina per la strada. È la sorella maggiore o la minore? Mah! L’allievo deve tentare di risolvere il quesito postogli dal maestro zen ricorrendo al nonsenso, così che il kōan possa rivelare la natura ultima della realtà.

Dato che ci siamo messi a parlare di nonsenso, torniamo a quell’uovo da cui siamo partiti, quell’uovo tanto famoso che Alice incontra nel sesto capitolo di Attraverso lo specchio di Lewis Carroll  e con cui la bambina curiosa intrattiene un dialogo molto poco logico sul linguaggio e sul (non)senso delle parole. Insieme a The Book of Nonsense di Edward Lear (1846-1877), i libri di Alice (1865-1872) sono considerati i testi sacri del nonsense inglese come forma di umorismo paradossale e sono cari a semiologi e linguisti per i mille spunti che offrono, in particolare Humpty Dumpty è uno che con le parole ci sa fare: «Quando uso una parola», disse Humpty Dumpty in tono piuttosto sdegnoso, significa solo ciò che io voglio che significhi – né più né meno». «Il punto è», disse Alice, «se una parola possa avere tanti significati». «Il punto è», disse Humpty Dumpty, «chi è che comanda – punto e basta» (…) «Hanno un certo temperamento, alcune di loro – in particolare i verbi, loro sono orgogliosissimi – con gli aggettivi puoi farci quello che vuoi, ma coi verbi no. Comunque, io ci faccio quello che mi pare! Impenetrabilità! Ecco cos’è!».

Humpty Dumpty è il padrone delle parole: ma non trascura di pagar loro gli straordinari. È talmente bravo a maneggiarle, che Alice gli domanda di aiutarla a interpretare la misteriosa Jabberwocky, capolavoro della letteratura nonsensica che appare nel primo capitolo di Attraverso lo specchio. Il Jabberwocky è un poemetto in sette quartine a rime alternate, strutturalmente e metricamente impeccabile, che racconta di un giovanotto che sconfigge un orribile mostro. Ciò che mina la comprensibilità del Jabberwocky è che le parole dei suoi versi sono quasi tutte inventate: verba inaudita, segni che sembrano tali e che sono invece privi di senso. O forse un senso ce l’hanno? Così, nel Jabberwocky, «Brillig means four o’clock in the afternoon, the time when you begin broiling things for dinner» (nella traduzione italiana di Guido Almansi e Giuliana Pozzo “Twas brillig” diventa “Era la brilla” e «Brilla significa le nove del mattino, quando è stata appena fatta la pulizia e tutto è brillante»).

Altre sono parole-macedonia, che mettono insieme due parole per formarne una terza. È un procedimento linguistico comune: elicottero più aeroporto: eliporto. Carroll le chiama portmanteau words: “portmanteau” era un particolare tipo di baule che conteneva due parti staccate, di cui una entrava nell’altra. Nell’enigmistica, queste parole-valigia sono a volte chiamate “doppio scarto centrale” e stanno a metà tra la sciarada e lo scarto/aggiunta, l’esempio classico è topo/sazio/topazio.

Ma i libri di Alice sono, a guardarli bene, un unico continuo gioco linguistico; contengono calembours e à-peu-près (horse/hoarse, flower/flour, tale/tail, knot/not, eels/heels, porpoise/purpose), scarti e aggiunte (glass/lass, exactually/exactly), etimologie sbagliate (vengono messe in relazione parole che non hanno niente a che fare tra loro, come tortoise e taught us), omonimie eterogenee (parole che si scrivono e pronunciano allo stesso modo, ma hanno diverso etimo e diverso significato: miss signorina e imperativo di to miss) e ancora acrostici, calligrammi, tautogrammi… Non stupisce che Lewis Carroll si sia occupato anche, tra una fotografia e un trattato di logica, di giochi da prestigiatore, origami, scacchi, biliardo, backgammon e rompicapo logico-matematici (matematica è, tra l’altro, una delle chiavi di lettura del Jabberwocky).

Una nota a margine sulle problematiche che una scrittura ludica e intessuta di giochi di parole, come quella di Carroll, pone. Tradurre è sempre un po’ tradire, ma in casi come questi? Un traduttore che si accosti a un testo del genere sa di non poter ricorrere alla comoda formula gioco di parole intraducibile: allora, tanto varrebbe non iniziare neanche a giocare. Deve sottostare alle regole e giocare lo stesso gioco, nella sua lingua. I risultati variano a seconda della bravura e della sensibilità del traduttore, ma alle volte lo scontro è violento, come nella versione francese di Humpty Dumpty svolta da Artonin Artaud nel 1943. La scrisse tra un elettroshock e l’altro durante la degenza nell’ospedale psichiatrico di Rodez, su suggerimento del suo medico, il dottor Ferdière. Diceva del resto Tzvetan Todorov che «il gioco di parole confina con l’anormale: è la follia delle parole».

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta nel numero #00 di Lucha Libre Magazine, rivista di narrativa critica illustrata.

La piccola saudade

Uno degli aspetti che più mi affascina della lingua portoghese è l’uso dei suffissi, molto più marcato che nella lingua italiana. Ogni parola può cambiare di dimensione e significato grazie a qualche lettera che ne modifica la terminazione; i suffissi arricchiscono l’oggetto o concetto cui si riferiscono delle più varie sfumature.

Ma il grande tesoro della lingua portoghese è la parola saudade: una parola-mondo, che non esiste in nessuna altra lingua, che non ha sinonimi né corrispondenze. Tutta la cultura portoghese, a partire dal fado, è impregnata di questo sentimento, che Antonio Tabucchi ha cercato di spiegare così:

Un grande linguista ha detto che è impossibile spiegare il senso della parola formaggio a una persona che non ha mai assaggiato un formaggio. Per capire cos’è la saudade, dunque, niente di meglio che provarla direttamente. Il momento migliore è ovviamente il tramonto, che è l’ora canonica della saudade, ma si prestano bene anche certe sere di nebbia atlantica, quando sulla città scende un velo  e si accendono i lampioni. Li, da soli, guardando questo panorama davanti a voi, forse vi prenderà una sorta di struggimento. La vostra immaginazione, facendo uno sgambetto al tempo, vi farà pensare che una volta tornati a casa e alle vostre abitudini vi prenderà la nostalgia di un momento privilegiato della vostra vita in cui eravate in una bellissima e solitaria viuzza di Lisbona a guardare un panorama struggente. Ecco, il gioco è fatto: state avendo nostalgia del momento che state vivendo in questo momento. E’ una nostalgia al futuro. Avete sperimentato di persona la saudade.

[Antonio Tabucchi, Viaggi e altri viaggi, Feltrinelli coll. I Narratori pag. 168]

Ci sono usi più quotidiani, seppur poeticissimi, della saudade: ad esempio, se sentiamo la mancanza di un amico lontano, possiamo dirgli tenho saudades tuas. Mi manchi, ma in un senso profondo, contradditorio, ti penso e il tuo pensiero mi rallegra e allo stesso tempo mi intristisce, perché non so quando ci rivedremo, perché so che i momenti passati insieme non torneranno, perché quei momenti spensierati li rivivo ogni volta che ti penso. 

La saudade è un bel casino. È sfiancante, è immensa. È un sentimento che mi perseguita: saudade degli amici che ho incontrato, delle strade che ho percorso, delle canzoni che ho ascoltato. Questo spazio nasce principalmente per questo, per matar a saudade, per trovare un posto ai miei pensieri.

Nella sua accezione classica, la saudade è melanconica e struggente. Per questo ho scelto di usare un suffisso e trasformarla in una piccola saudadinha degli affetti e dei luoghi, per chi ne vorrà seguire le storie.

Felici Feste!

saudadinhas in liechtenstein

Faccendiere finnico farà felici fantolini, falcando firmamento, ficcando furtivamente fagotti fino fermare fuoriuscita fumo focolari. Favorisce frollini, fiancheggianlo folletti. Fuoco, fiamme, forchette! Faranno figurone faraone farcite, fegatini fragranti, formaggi filanti, frittelle flambé. Fuori fa freddo, fioccano fiocchi, fermiamoci, finiamo faide; famiglia, film, fisarmoniche filodiffuse, filastrocche fischiettate, fiabe favellate, flanella, falpalà. Finché festeggiamo finimondo: fuori ferrivecchi, facciamo fioretti (farò fitness, forse), flettiamo flûtes, fluiscano fiumi frizzanti! Favoleggiano foruncolosa fattucchiera funambola faccia felici frugoletti, falsificando fossili. Filantropa facoltosa, finge frugalità. Fanfaluche? Folclore? Figuriamoci!

Ferie finiranno, fatalmente; fugaci, fameliche, faticose. Fremeremo fino Ferragosto. Frattanto, felicito fantastiche festività, foriere favolosi festeggiamenti, fiduciosa futuro facondo!

A proposito del blue Monday

Alassio

Forse avrete sentito da qualche parte che oggi, terzo lunedì di gennaio, è il cosiddetto Blue Monday, il lunedì blu: ovvero il giorno più triste e deprimente dell’anno. C’è addirittura una serissima formula scientifica che lo dimostra, calcolando come diversi fattori (i cieli grigi e la pioggia, la fine delle feste, i sensi di colpa per aver speso e mangiato troppo durante le vacanze, la consapevolezza del precoce fallimento dei buoni propositi, la ripresa delle monotone giornate lavorative) si vadano perfidamente a combinare per metterci il magone. Ovviamente è una bufala, elaborata nel 2005 dall’ufficio marketing di un’agenzia di viaggi – che magnanimamente voleva salvare l’umanità dal Blue Monday offrendo voli scontati.

Ammetto che la mia giornata non è stata proprio scoppiettante 🙂 Però a me la faccenda interessa più che altro per introdurre un altro tema: perché questo lunedì è blu, e perché il blu viene associato alla tristezza? Nella lingua inglese, nelle giornate no si può dire che ci si sente blu, e the blues, come sostantivo, è sinonimo di sconforto, avvilimento, depressione. Pare che questi significati discendano dall’espressione “to have the blue devils”, avere i diavoli blu, per indicare uno stato di tristezza e malinconia (attestata fin dal diciassettesimo secolo). Da questo modo di dire deriva anche il nome del blues, il genere musicale che ha le sue radici nei canti sconsolati delle comunità afroamericane che lavoravano in condizioni di schiavismo nelle piantagioni agricole degli Stati Uniti meridionali intorno alla fine del diciannovesimo secolo.

Eppure questo blu è molto di più, infinito come il cielo e il mare della Marsiglia di Jean-Claude Izzo:

Dal cielo al mare, era un’infinita varietà di blu. Per il turista, quello che viene dal nord, dall’est o dall’ovest, il blu è sempre blu. Solo dopo, quando ci si sofferma a guardare il cielo e il mare, ad accarezzare con gli occhi il paesaggio, se ne scoprono altre tonalità: il blu grigio, il blu notte e il blu mare, il blu scuro, il blu lavanda. O il blu melanzana, nelle sere di temporale. Il blu verde. Il blu rame del tramonto, prima del mistral. O quel blu così pallido, quasi bianco. 

Il blu è da sempre il mio colore preferito, in tutte le sue tonalità. Quando preparo lo zaino prima di una partenza e metto tutto sul letto per decidere cosa portare con me e cosa lasciare a casa mi viene da sorridere, perché ho quasi solo vestiti blu. Ho dipinto la porta e la finestra della mia camera di blu, adoro i mirtilli probabilmente solo perché son blu. Amo la parola che lo indica: tre lettere che formano una sequenza infantile, glossolalica, con quella terminazione in u così rara nella lingua italiana. Come nelle Mille bolle blu di Mina, dove ogni ritornello è introdotto da un giocoso passaggio delle dita sulle labbra. Blu è il colore dei begli occhi in cui si svolge il sogno di Modugno, in quella bellissima canzone che è Volare; sempre più blu è il cielo dei disgraziati cantati da Rino Gaetano; blu è la Torpedo che dà a Gaber quel tono di gioventù…

Il blu è il colore primario più freddo. Si dice sia il colore dell’armonia, della tranquillità, dell’introspezione. Nell’antichità era malvisto perché era il colore degli occhi dei barbari, poi con l’avvento del Cristianesimo è stato associato alle vesti della Madonna e ha cominciato a evocare pace e serenità. In contrapposizione alle accezioni di tristezza e malinconia di cui parlavo prima, la connotazione positiva del blu è prevalente e trasversale alle varie epoche e culture, significando di volta in volta lealtà, nobiltà, sincerità, verità. E ancora l’ascolto, la pacatezza, la forza d’animo, gli alti ideali, la saggezza, la fiducia… Poi queste cose uno le può anche considerare fregnacce, ma quello che so per certo è che a me il blu rilassa e fa star bene. Potrei stare le ore a fissare il mare. Sulla linea del “è nato prima l’uovo o la gallina”, non so se amo il blu perché è il colore del mare o se amo il mare perché è blu (e se il mare fosse giallo?), però condivido quella frase di Matisse “un certain bleu pénètre votre âme”, un certo blu può penetrare l’anima.

La Conversation, Henri Matisse
La Conversation, Henri Matisse 1908-1912, Hermitage, S. Pietroburgo

La cosa buffa dei colori è che la questione dei loro nomi, e di quale colore corrisponda a quale nome, è da sempre molto incerta. Questo perché le persone vedono i colori in modo differente, e gli stessi pantaloni che a noi sembrano verdi sono senza ombra di dubbio marroni per la commessa del negozio. Senza parlare della diversa sensibilità maschile e femminile: dove un uomo vede blu, una donna vede almeno quattro tonalità diverse – il che porta spesso a lunghe discussioni su quale maglione comprare. Queste sono le tonalità di blu elencate da Wikipedia (in italiano):

Carta da zucchero, Blu alice, Acquamarina, Ciano, Blu polvere, Blu chiaro, Pervinca Celeste, Blu fiordaliso, Blu scuro, Lavanda, Blu Dodger, Azzurro, Blu acciaio, Ceruleo Blu, Savoia Denim, Blu ceruleo, Blu reale, Blu Cobalto, Blu di Persia, Blu pavone, Int. Klein Blue, Blu notte, Indaco, Blu di Prussia, Blu oltremare, Blu marino, Zaffiro, Denim chiaro, Blu Bondi, Acqua, Fiordaliso, Blu cadetto, Blu elettrico.

Non mi esprimo sulle altre lingue, perché la questione si complicherebbe ulteriormente. Solo restando nel campo delle lingue romanze, in spagnolo e in portoghese il blu si chiama azul… Altre lingue, come il giapponese e il thailandese, non distinguono il blu dal verde. La faccenda del relativismo linguistico applicato ai colori è molto interessante, a ulteriore conferma che l’esperienza che facciamo delle cose è dettata da molteplici fattori, tra cui quello culturale.

i blu di Marrakech

Nell’elenco che ho riportato sopra ci sono sia colori naturali che colori sintetici. Tra i primi l’indaco, che deriva dall’omonimo colorante di origine vegetale, estratto dalle foglie di Indigofera tinctoria, oppure i preziosi pigmenti di blu oltremare, che venivano ricavati dalla macinazione dei lapislazzuli estratti in Oriente. Il blu cobalto, invece, fu sintetizzato per la prima volta nel 1802 dal chimico Louis Jacques Thenard a partire dai sali di cobalto (l’etimologia del cobalto stesso è bellissima: pare che il nome evochi quello dei coboldi, i malefici folletti della mitografia germanica che, secondo i minatori tedeschi, facevano loro trovare questo minerale povero e velenoso al posto dell’agognato oro). Era molto apprezzato dai pittori, perché era molto stabile e facilitava l’asciugatura dei dipinti a olio. Il blu pervade la storia dell’arte moderna, dai cieli stellati degli impressionisti, al movimento Der Blaue Reuter – che per Kandinsky rappresentava la spiritualità e l’eternità – fino alla melanconia di Picasso nel suo periodo blu. Qualche decennio più avanti, attorno al colore blu si concentrò la ricerca artistica di Yves Klein, che ne studiò la potenza espressiva in una serie di quadri monocromatici e arrivò a dare il nome a una tonalità di blu oltremare molto profondo e brillante, l’International Klein Blue o IKB.

Ed ecco tracciata una piccola storia del blu, attraverso le sue sfumature e i suoi significati, quelli felici e quelli tristi. Eppure anche quella macchia blu da cui sono partita, se ho capito bene, è una tristezza vaga, una melancolia, che porta il pensiero a sciogliersi nel blu dell’infinito, che affascina e allo stesso tempo mette paura. Un sentimento che forse può ricordare quella saudade a cui questo blog deve il suo nome? Dissolvenza… in blu.

Ó mar salgado, quanto do teu sal / São lágrimas de Portugal . . .
Ó mar salgado, quanto do teu sal / São lágrimas de Portugal . . .



Più che un blog, una macedonia

green-vegetables

Come Giona che si ritrovò nel ventre della balena (e Astolfo, e il barone di Münchhausen, e il buon Pinocchio) mi ritrovo in un luogo sconosciuto, allo stesso tempo caotico e intrigante, in cui mi muovo a tentoni. Ma non si sta poi così male nelle viscere di questo mostro marino, una volta che ci si abitua alla penombra: mi accuccio in un angolo confortevole e comincio a raccontare.

La parola blog non mi piace, trovo che abbia un suono brutto. Anche senza considerare quella chiusura così aggressiva e tronca in -g- dura, quel -bl- iniziale mi fa pensare ai gorgogli di un uomo che sta per affogare, alle pernacchie, a una reazione un po’ schifata. La prima associazione è con la parola blob: che nel nostro lessico è innanzitutto un programma televisivo, ma che in inglese designa una massa informe, infida, implacabile.

E’ un fluido mortale in un horror fantascientifico del 1958 con Steve McQueen (The Blob, di Irvin Yeaworth), è l’orrida tapioca propinata a Calvin per pranzo che prende vita e lo smangiucchia sputacchiandone le ossa.

La parola blob è entrata nel vocabolario italiano nel 1989: Dall’omonima trasmissione televisiva di Rai 3, pasticcio, cosa strana o persona goffa e ridicola che suscitano ilarità e divertimento (dal Sabatini Coletti). Ecco, pasticcio invece è una parola che mi piace, che mi ispira cose tenere, dolci e ghiotte: pasticcio di piccione, pasticcino, pasticcione. Ho una particolare simpatia per le parole alterate, per i suffissi accrescitivi e diminutivi, e non per niente il nome di questo blob/blog è un diminutivo esso stesso, per i motivi che spiegherò da qualche altra parte. Ampliando ulteriormente il discorso ho una passione smisurata per le parole, il che è anche probabilmente la ragione per cui sto scrivendo queste righe. Mi piacciono le parole perché sono segni che stanno a significare le cose del mondo, concrete o astratte che siano, e attraverso esse lo raccontiamo.

Torniamo alla parola da cui siamo partiti, blog. Cacofonia del fonema -bl- a parte, nasconde altro dentro di sé: è una parola composta, costruita a partire da altre due parole che si sono contratte e fuse insieme per definire qualcosa di nuovo (una parola Frankenstein, insomma). Il suo cuore e la sua ragion d’essere stanno nelle ultime tre lettere, log: una parola antica e bella che significa diario di bordo, resoconto, registro. I naviganti vi annotavano gli avvenimenti della giornata, la forza del vento e delle onde, le miglia percorse, le avversità incontrate e superate, l’avvistamento di una balena (che magari nascondeva al suo interno Giona, o Astolfo, o il barone di Münchhausen, o il buon Pinocchio). Poi la parola log si è scontrata con la modernità del web e ne è nato un figlio illegittimo, orfano delle prime due lettere, che a sua volta ha dato vita ad altre parole (ancor più brutte) come blogger, bloggare, e così via. Web + log = blog. Non fosse altro che per l’assonanza, è la stessa identica storia della parola smog, che unisce in sé le parole smoke e fog, fumo e nebbia: venne creata negli anni della rivoluzione industriale per definire qualcosa che prima non esisteva, l’inquinamento atmosferico provocato dalle ciminiere delle fabbriche che bruciavano carbone, i cui fumi e miasmi si mescolavano alla proverbiale nebbiolina londinese creando una cappa puzzolente e molto poco salutare. In linguistica si chiamano neologismi sincratici o, con una definizione più poetica, parole portmanteau (che era una grande valigia da viaggio a due scompartimenti; il conio si deve a Lewis Carroll). L’italiano usa invece l’estivo concetto di parola macedonia, dovuto alla fantasia frutticola del grande Bruno Migliorini. Tra parentesi, ho conosciuto un ragazzo macedone qualche tempo fa. Era molto divertito dal fatto che ogni italiano che incontrava gli facesse notare che il nome del suo Paese designasse in Italia un’insalata di frutta. Non voglio immaginare il dramma di un inglese che si ritrova a festeggiare in Turchia il Giorno del Ringraziamento.

Per concludere, questo è sì, tecnicamente, un blog; ma data la mia antipatia filologica per questa parola, la userò il meno possibile. Non è neanche un diario (altra parola che spalanca un universo di immagini, dalla romanza adolescenziale ai mémoires). Non che le definizioni mi stiano strette, anzi, trovo che spesso aiutino a fare ordine e spesso ho sofferto confrontandomi con la loro inapplicabilità. Però nella metafora della macedonia mi ci ritrovo e la tengo per buona, per il momento.

P.s. L’etimologia non è una scienza esatta, ma offre spesso spiegazioni affascinanti e, spesso, storicamente attendibili: ovvero, c’è un motivo per cui nella lingua inglese il tacchino ha lo stesso nome della Turchia (turkey). La storia risale ai tempo in cui Istanbul si chiamava ancora Costantinopoli e la perla del Bosforo era il porto da cui i commercianti partivano per portare in Europa le esotiche mercanzie dell’Africa e dell’Estremo Oriente. Tra esse c’era una pollastra nordafricana, molto pregiata e prelibata: quella che noi che noi chiamiamo faraona e che in inglese sarebbe Guinea fowl, ma che prese il nome di Turkey cock appunto perché arrivava tramite i mercanti turchi. Quando i coloni del Nuovo Mondo scoprirono che quelle terre inesplorate brulicavano di volatili che assomigliavano molto a quelli con cui banchettavano in Inghilterra, presero a chiamare questi animali con lo stesso nome, Turkey cocks, poi abbreviato in turkey. La confusione aumentò quando i mercanti portoghesi nel Cinquecento cominciarono a importare in Europa spezie dall’India, faraone dall’Africa e tacchini dalle Americhe: l’equivoco geografico-linguistico si propagò in lungo e in largo e il tacchino giramondo diventò indiano per i turchi e i francesi (dove è chiamato rispettivamente hindi e dinde, ovvero d’India). Ah, e peruviano per i portoghesi (peru).

Per una spiegazione storicamente ineccepibile, potete leggere la versione completa della storia alla voce Turkey di The Language of Food.