Praga, rapsodia boema

Il Ponte Carlo

Buongiorno Praga, finalmente ci conosciamo! Sei tra le poche grandi e famose città che mi mancano, nella buona vecchia Europa. Mi accogli con un clima relativamente mite, per la fine di gennaio, e un cielo grigiazzurro. Mi piaci da subito, città di libri. Ho letto tanto di te, dei tuoi abitanti, del tuo passato tumultuoso. Viene immediato un paragone con la Praga immaginata: forse le onnipresenti folle di turisti hanno succhiato via un po’ della tua anima? Cuore barocco, Apollinaire ti descrisse come una “nave dorata che naviga maestosamente sulla Moldava”. Dolorosamente bella e malinconica, elegante, costante come le acque brune del fiume che ti attraversa, anche se oggi i trenta santi del Ponte Carlo sono tutti anneriti: forse hanno perso un po’ del loro fascino, hanno bisogno di un restauro o quantomeno di una lustratina. Risplendono solo le effigi di San Giovanni Nepomuceno, protettore delle persone in pericolo di annegamento, e del suo cane, accarezzate in continuazione dai passanti per buona sorte. Narra la leggenda che San Giovanni da Nepomuk non volle rivelare i segreti della regina Giovanna di Baviera, di cui era il confessore: per questo gli fu tagliata la lingua e, messo in un sacco, fu lanciato nella Moldava.

Orientarsi a Praga è molto semplice, perfino per me: la città è divisa in due dal fiume e divisa in distretti, ognuno caratterizzato da uno stile molto riconoscibile. Sulla sponda occidentale si trovano Hradčany con il suo castello, che appollaiato in alto come un nido d’aquila sorveglia silenzioso la città, e le pittoresche vie di Malá Strana, il Piccolo Quartiere. La Città Vecchia e quella Nuova (Staré Město e Nové Město) si estendono invece sulla riva destra della Moldava. La Città Vecchia è intrigante e labirintica come una pagina di Franz Kafka, che qui nacque, visse e scrisse. Il suo rapporto con Praga fu ambivalente – la definì come una matrigna dai cui artigli non si può sfuggire – e complicato dalla duplice condizione di isolamento ed estraneità determinata dal suo essere ebreo e, allo stesso tempo, appartenente alla borghesia di lingua tedesca.

Iniziamo il nostro cammino da Staroměstské náměstí, la piazza della Città Vecchia, che profuma di Pražská šunka, il prosciutto affumicato che arrostisce nei banchetti. È molto bella, anche se purtroppo la sua attrazione principale, l’orologio astronomico, è attualmente in restauro. Accanto si trova Palazzo Kinský, edificio in stile rococò dove Franz Kafka frequentò il ginnasio dal 1893 al 1901. Sulla piazza incombono le guglie nere di Santa Maria di Týn, roccaforte hussita; e proprio qui sorge il memoriale a Jan Hus, pensatore e riformatore religioso boemo condannato per eresia e bruciato sul rogo nel 1415, considerato il precursore della Riforma protestante, essendo vissuto circa un secolo prima di Lutero, Calvino e Zwingli. Viene raffigurato circondato dai suoi seguaci, che furono costretti all’esilio. Ho scoperto che a Jan Hus si deve anche la prima riforma ortografica della lingua ceca: fu lui a introdurre punti ed accenti in luogo delle z (ancora in uso nella scrittura polacca) e le doppie vocali.

Le fiamme ricorreranno funestamente nella storia della città a cinque secoli e mezzo di distanza: nel tardo pomeriggio del 16 gennaio 1969 “Jan Hus di nuovo sul rogo bruciava, all’orizzonte del cielo di Praga…”. Jan Palach era uno studente di filosofia, aveva vent’anni: si versò addosso una tanica di benzina e si diede fuoco sulla scalinata del Museo Nazionale in piazza San Venceslao, per protestare contro l’occupazione sovietica del suo Paese e i carri armati che qualche mese prima avevano represso i moti democratici della Primavera di Praga (di cui quest’anno ricorre il cinquantenario). Nel suo tascapane, che tenne a debita distanza dalle fiamme, furono ritrovati i suoi appunti e quello che suona come un testamento politico:  «Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa». Si firmò «la torcia n.1». Morì per le ustioni riportate, tre giorni dopo il rogo; disse ai medici d’aver preso a modello i monaci buddhisti del Vietnam e in particolare Thích Quảng Đức, che nel 1963 si era dato fuoco a Saigon per protesta contro le politiche di intolleranza religiosa nel Vietnam del Sud. Al funerale di Jan Palach, organizzato dall’associazione degli studenti di Boemia e di Moravia, accorsero oltre 600.000 persone da tutta la Cecoslovacchia. Da un articolo del 1999 di Bernardo Valli su Repubblica, ho appreso che sulla facciata di un teatro in città era stata scritta a grandi lettere una frase di Brecht: “Infelice quel popolo che non ha eroi. Ma infelice quel popolo che ha bisogno di eroi”. Nelle settimane successive almeno altri sette studenti, tra cui l’amico Jan Zajíc, si immolarono come torce umane, ma la censura di regime fece in modo che le loro morti passassero sotto silenzio.

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Piazza San Venceslao (Václavské náměstí), che più che una piazza è un ampio viale in pendenza, rappresenta il simbolo dell’identità ceca e praghese. Qui hanno avuto luogo gli eventi più importanti della storia di Praga: qui il 28 ottobre 1918 venne dichiarata l’indipendenza dall’Impero austro-ungarico, qui il 24 novembre 1989 Václav Havel e Alexander Dubček annunciarono la fine della dittatura comunista in Cecoslovacchia.

Il museo di Storia Nazionale al momento è chiuso, tutto ricoperto da teli e circondato da impalcature: lo stanno ristrutturando, credo che i lavori andranno avanti ancora qualche anno. Il monumento che commemora Jan Palach e Jan Zajíc è poco visibile e un po’ trascurato. Hanno trasferito parte delle collezioni e allestito un museo temporaneo nell’edificio accanto, sempre in piazza San Venceslao. Abbiamo fatto un giro: oltre alla collezione di scienze naturali era in esposizione una mostra su Tomáš Garrigue Masaryk, primo presidente della Cecoslovacchia.

“Corre il dolore bruciando ogni strada e lancia grida ogni muro di Praga…”

A proposito di muri, merita una visita il cosiddetto “muro di John Lennon”. Pare che durante il regime comunista John Lennon fosse un mito per i ragazzi cechi – all’epoca non si poteva ascoltare liberamente la musica occidentale. Qualcuno lo ritrasse su un muro di Malá Strana, accanto all’ambasciata francese, che divenne presto il ritrovo dei giovani dissidenti. La polizia segreta lo imbiancava di giorno, e di notte il muro veniva dipinto di nuovo con scritte a sfondo pacifista e disegni inneggianti alla libertà. Anche dopo la Rivoluzione di Velluto il muro ha continuato a essere un punto di ritrovo e oggi chiunque passa lascia la sua firma e il suo messaggio, non necessariamente profondo. Si è ridotto a un muro scarabocchiato – però ha il suo perché.

Meta favorita per gite di classe e addii al celibato, Praga ha una strana vocazione alla trasgressione: i negozi di souvenir sembrano vendere solo oggetti variamente legati alla cannabis (la Repubblica Ceca è tra gli stati europei che ne consuma di più e la legislazione sulle droghe leggere è abbastanza permissiva) e mignon di assenzio. Credo però che la situazione sia migliorata, rispetto a una decina di anni fa, e comitive troppo sconvolte noi non ne abbiamo incontrate; forse quel tipo di turismo da alcol & night club si è spostato in qualche altra capitale dell’Est Europa.

La cucina praghese è sostanziosa e senza fronzoli, nel migliore stile mitteleuropeo. Il nostro primo pranzo è a base di carne di maiale e gnocchi di patate, che pare siano la specialità nazionale (hanno una consistenza un po’ stopagoss, come si dice a casa mia). La combinazione  arrosto di maiale-gnocchi-crauti va per la maggiore, e viene familiarmente chiamata vepřo-knedlo-zelo. La cena è a base di ginocchio di maiale: come uno stinco, ma più grosso e più grasso. Tutti i pasti sono annaffiati da pilsner fresche e beverine, perché in Repubblica Ceca la birra è un affare importante: è uno dei Paesi che ne consuma di più in assoluto, e il dato non stupisce, dato che costa meno dell’acqua. La prima bionda del mondo è stata creata proprio dai mastri birrai boemi nel 1842: si tratta della Plzeňský Prazdroj, oggi conosciuta con il nome tedesco Pilsner Urquell.

Al ristorante del primo pranzo, al tavolo accanto al nostro, c’era un gruppo di persone tutte truccate e vestite in modo buffo con drappi maculati e piume – una specie di assemblea rumorosa di re e regine della giungla. Continuavano a brindare e bere, brindare e bere; sono usciti dal locale tutti barcollanti con le loro trombe e trombette. Pensavamo fossero musicanti o teatranti un po’ matti in turnè, e invece no: erano alcuni degli oltre 1300 partecipanti al Guggemusik Festival, una parata itinerante di bande di carnevale tipica dei paesi di lingua tedesca. Erano davvero tanti, divisi in gruppetti di 10-30 persone l’uno, dal trucco diverso eppure simile; e suonavano con gran passione tutti gli strumenti possibili, dal triangolo alla grancassa. In mezzo al casino mi è venuto in mente Michail Bachtin: il carnevale come festa del tempo e del divenire, sovversione della gerarchia, liberazione e trasgressione temporanea delle regole, dei tabù. Mentre mi sospingevano verso il Ponte Carlo, ho invidiato quei matti danzanti dalle facce dipinte.

Passato il corteo e scesa la calma, percorriamo il lungofiume verso Nové Mesto, la città nuova, alla ricerca di altri due ballerini: Ginger e Fred, come familiarmente vengono chiamati dai praghesi i due edifici che costituiscono la cosiddetta Casa Danzante (Tančící dům). Si tratta di un’audace architettura moderna, progettata dall’architetto croato Vlado Milunić in cooperazione con il canadese Frank Gehry. Il piano originale prevedeva di farne un centro culturale, ma non fu mai realizzato; ospita oggi un albergo, un ristorante all’ultimo piano da cui si gode una bella vista sulla città, e degli uffici. La costruzione iniziò nel 1994 e terminò nel 1996. Quando fu inaugurata, non a tutti piacque e ci furono delle controversie, ma oggi è uno dei simboli di Praga.

Giusto il tempo di una birra al bar della stazione, un panino di Subway in aeroporto, ed è arrivato il momento di partire. Insomma, ti ho vista un po’ troppo in fretta, Praga. Spero di rivederti presto – magari un fine settimana di fine estate, o magari proprio in primavera, la tua stagione più bella.

Barcellona in primavera

La mia prima volta a Barcellona è stata soleggiata e curiosa. Curiosa come me, alla scoperta di una città che non conoscevo, con qualche preconcetto e gli occhi come sempre spalancati. Tutti amano Barcellona, e tutti la odiano; ha tanti detrattori perché è sporca, è pericolosa, è piena di turisti… il che non mi è sembrato granché vero. I turisti c’erano ed erano anche tanti, ma ancora non era alta stagione, la primavera faceva appena capolino. Non è più sporca né più pericolosa di tante altre grandi città; ecco, magari tenete stretta la borsa sulla leggendaria Rambla, il viale più famoso di Spagna. Che poi è pure, secondo me, la zona meno bella di Barcellona.

Proseguite lungo la Rambla fino al monumento a Colombo, strategicamente posizionato dove inizia il mare. L’esploratore indica col dito l’orizzonte, verso una direzione non molto chiara: non l’America, non Palos, da cui salparono le caravelle, non Genova, la sua città natale. A quanto pare indica l’isola di Mallorca – ma non ho capito bene perché.

Avanti e avanti, lungo il mare, che in questa stagione è chiaro e tranquillo. Buttatevi sulla sinistra ed inoltratevi nella Ribera, un bel quartiere di viuzze e polperie. Spiluccate qualche tapas sorseggiando una birra ghiacciata, bevete un caffè, riprendete il cammino. Fate una passeggiata nel Parc de la Ciutadella: la domenica sembra essere fatta per questo. Un girotondo di bambini e adulti, bonghi e bolle di sapone. Una sosta davanti alla bellissima Cascada Monumental e una di fronte alla glorieta dove nel 1991 fu assassinata la transessuale Sonia Rescalvo Zafra. Dormiva al riparo di questo gazebo, ora dedicato a lei, quando una banda di neonazisti le fracassò il cranio a calci e pugni.

Architettonicamente parlando, Barcellona è caratterizzata da due grandi stili: uno è il gotico medievale, che troviamo nella parte antica della città e in particolare nel suo cuore, che si chiama giustappunto Barri Gòtic. Narra storie di chiese maestose, che a differenza di altre chiese gotiche europee si sviluppano in larghezza più che in altezza; pochi pinnacoli, molti grandi rosoni. Le più belle, oltre alla Cattedrale, sono Santa Maria del Mar e Santa Maria del Pi. L’altro è il modernismo, movimento internazionale che si sviluppò in tutta Europa (con nomi diversi: art nouveau, liberty, Jugendstil) tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, volto a proporre un nuovo linguaggio architettonico, anticlassico, trasgressivo, ornamentale, plastico. Se a Barcellona ebbe una personalità tale da parlare nello specifico di modernismo catalano, il merito fu principalmente di quel matto di Antoni Gaudí, che plasmò la sua visione del mondo in una serie di edifici che ora costituiscono dei veri e propri simboli di Barcellona.

Il modernismo fu strettamente legato al clima di prosperità che si respirava in quegli anni e all’ascesa della borghesia come classe sociale dominante; se oggi le strade di Barcellona sono disseminate di fregi liberty è perché le famiglie ricche ci tenevano a sfoggiare il loro benessere economico e ingaggiavano gli architetti e gli scultori più in voga affinché decorassero gli interni e gli esterni delle loro case. Nacquero così, su commissione, le esuberanti Casa Batlló (1904-1907) e Casa Milà, detta La Pedrera (1906-1912). Entrambe sono state dichiarate dall’Unesco Patrimoni dell’Umanità.

Ma il grande capolavoro di Gaudí è la Sagrada Família, probabilmente tra gli edifici religiosi più strambi al mondo. Il devotissimo Gaudí vi lavorò per oltre quarant’anni, di cui gli ultimi quindici a tempo pieno, finché nel 1926 non morì, investito da un tram. La cattedrale rimase incompiuta, e lo è tuttora; i lavori vanno avanti e non dovrebbero terminare prima di altri dieci anni almeno. Rassegnatevi a gru e ponteggi nelle vostre fotografie; del resto a me fanno simpatia, ricordano la perpetua fabbrica del Duomo. L’emozione che si prova vedendola è molto forte, già da lontano; man mano che ci si avvicina e i particolari acquistano nitidezza, ci si sente sempre più piccolini. È immensa, imponente, sacra: l’architetto di Dio volle fondervi una sublime tensione verso il cielo e una componente terragna e sanguigna, organica, che trasforma gli elementi strutturali in ossa, muscoli e nervi tesi.

Barcellona vive la stessa età di cambiamento di tante città europee che stanno cambiando faccia in questi anni. La famigerata gentrification colpisce anche qua. Si è rifatta il trucco e il porto non è più un luogo malfamato e pericoloso. Nel Barri Gòtic c’è una piazzetta dove ci siamo ritrovati per caso, intitolata allo scrittore George Orwell (Orwell combattè contro Franco durante la guerra civile spagnola e rimase in Spagna dal dicembre 1936 al giugno 1937; nel 1938, quando la guerra era ancora in corso, pubblicò Omaggio alla Catalogna, personale resoconto di quei mesi). La piazzetta è però popolarmente conosciuta dai barcelloneti come Plaza del Tripi: la denominazione mi è stata spiegata con la passata vocazione lisergica di questo angolo di città, anche se ho poi letto che “Tripi” sarebbe il nomignolo con cui è familiarmente chiamata la scultura surrealista che sorge in mezzo alla piazza. Questioni etimologiche a parte, la piazza era famosa in passato per essere un vero postaccio, ritrovo di spacciatori e ubriaconi. Qualche anno fa hanno tirato giù un muretto e messo al suo posto qualche aiuola e dei giochi per bambini: ai botellón si sono sostituiti passeggini e biberon.

Il primo giorno, a pranzo, Clod ci ha portati in una di quelle osterie che sembra stiano per scomparire dalla faccia della Terra. Quelle dove il tempo sembra sospeso; dove l’oste è burbero, ma sornione, come a farti capire che sei un ospite in casa sua e ti devi comportare bene. Dove si beve il vino da una strana brocca col beccuccio lungo lungo, ricordo dei tempi in cui non c’erano le lavastoviglie e invece che dotare ogni commensale di un bicchiere era più funzionale un solo recipiente, da cui tutti potessero bere a turno senza toccarlo con le labbra (anche se, a vederlo, mi sembra ci voglia una certa abilità per bere senza sbrodolarsi). Dove si ritrovano in pausa pranzo gli sciuri del quartiere e gli operai che lavorano al cantiere due strade più in là. Dove si assaggiano a un buon prezzo le specialità catalane del giorno: fave e botifarra, guance di maiale che si sciolgono in bocca, caragols (lumachine), mel i matò.

Di Barcellona mi ha affascinato la sua fierezza culturale e linguistica: il catalano ha quello zic che, filologicamente parlando, mi dà brividi di piacere all’ascolto e alla lettura. Il catalano era la lingua della corte d’Aragona: per questo motivo, nei territori d’Italia che hanno vissuto la dominazione aragonese, ha influenzato vari dialetti e lingue regionali (ed è stato a sua volta influenzato dall’italiano). Oggi è parlato da circa nove milioni di persone, in Spagna (non solo in Catalogna, ma anche nella zona di Valencia e nelle isole Baleari), in Francia (Rossiglione) e in Italia (nella provincia di Alghero, dove si parla un’antica variante orientale con forti influssi dall’italiano e dal sardo). È inoltre l’unica lingua ufficiale di Andorra. A Barcellona, il catalano è cultura e identità: quasi tutti gli abitanti della città sono bilingui e lo parlano correntemente, spesso preferendolo al castigliano; lo troverete nei menu, sui cartelli, sulle targhe di vie e piazze. La politica culturale di Franco fu molto rigida nei confronti delle lingue minoritarie di Spagna (non solo il catalano, ma anche il basco e il galiziano): durante gli anni del regime, quindi dalla fine della guerra civile nel 1939 fino alla morte del dittatore nel 1975, solo il castigliano era riconosciuto come lingua ufficiale e tutti i gli usi pubblici del catalano erano interdetti. Fortunatamente rimase come lingua degli affetti, tra le mura domestiche, e come lingua di resistenza. Una volta caduto il regime, la nuova costituzione del 1978 riconobbe la pluralità linguistica del Paese e stabilì che, in base agli statuti di autonomia, le lingue spagnole diverse dal castigliano potessero diventare lingue ufficiali. La Catalogna, di cui Barcellona è capoluogo, riconosce quindi il catalano come lingua ufficiale accanto al castigliano, e ne promuove lo studio nelle scuole e nelle università.

Di Barcellona mi sono piaciuti i mercati colorati della Bouqueria e di Sant Antoni, le piramidi di frutta e i prosciutti  appesi. I bouquet di salumi e formaggi, l’umanità varia, i patii alberati e fioriti, il rumore dell’acqua che sprizza dalle fontane, l’elegante cattedrale e tutta la Ciudat Vella, l’incantevole Plaça del Pi con l’omonima chiesa, i tavolini all’aperto, i mandaranci, le palme, i pini marittimi. L’urbanistica ariosa dell’Eixample, la collina del Montjuïc e la Fundació Joan Miró, la corsa in teleferica, il pesce fresco scelto a vista e grigliato sul momento. Le mattine che iniziano con caffè, spremuta e toast al tavolino di un bar, le hamburgueserías un po’ hipster del Poble Sec, i ragazzini che sfrecciano sui pattini, le vie strette del Raval che brulicano di vita, donne e uomini affaccendati e rumorosi, incontri, incroci, lingue e culture diverse. Mi piacciono le città grandi e incasinate, mi piacciono il mare e l’aria che sa di salsedine. Ho ascoltato il tuo canto e annusato il tuo profumo, Barcellona, mi hanno subito riempito d’amore per te.

Una gita a Neuschwanstein

Sull’ultima propaggine delle Alpi si innalza un castello bianco e turrito, che pare uscito da una favola. Si tratta del castello di Neuschwanstein, costruito tra il 1869 e il 1892 per volere del re Ludovico II di Baviera. Purtroppo per lui, vi visse solo per pochi mesi e non riuscì neanche a vederlo completato, dato che morì in circostanze misteriose nel 1886. L’impatto visivo con il castello è fortissimo, spicca come un cristallo luminoso contro l’ombra nera della montagna. L’abbiamo visto con il sole e la neve, in una di quelle giornate terse e gelide che ghiacciano il fiato. Stava lassù, abbarbicato su una punta rocciosa, elegante e indifferente. Distante eppure familiare, poiché fa parte del nostro immaginario da sempre, dall’epoca dei puzzle complicatissimi che non riuscivamo mai a completare e delle sigle di apertura dei film d’animazione Disney. Le sue forme sono infatti quelle che hanno ispirato i castelli di Biancaneve, Cenerentola, la bella addormentata nel bosco; piccole fortezze à la Neuschwanstein sorgono nelle Disneyland di tutto mondo. Questo è l’originale e tuttavia una riproduzione a sua volta: un cliché di Medioevo ricreato sul cucuzzolo di una montagna da un re matto, il rifugio di un uomo solitario e sognatore.

Ludovico II di Wittelsbach, figlio di Massimiliano II di Baviera e Maria Federica di Prussia, fu re di Baviera dal 1864 al 1886, anno in cui fu dichiarato pazzo e deposto. Aveva solo diciotto anni quando divenne re, e venti quando, con la disfatta austriaca e bavarese contro la Prussia nella guerra tedesca del 1866, vide definitivamente svanire il sogno della monarchia assoluta. Fu probabilmente in seguito a questo episodio che Ludovico iniziò la sua costruzione mentale di un mondo parallelo, fantastico, su cui poter regnare, re incontrastato delle vallate, degli alberi, delle cime innevate, dei laghi splendenti. L’idea di Neuschwanstein si sviluppa proprio in questi anni: il luogo prescelto per innalzare il suo castello fatato è Schwangau, sulle Alpi, a poca distanza dal castello paterno di Hohenschwangau, dove Ludovico aveva trascorso gran parte della sua giovinezza. Lo volle chiamare Neue Burg Hohenschwangau, Nuovo Castello di Hohenschwangau (la denominazione Neuschwanstein è postuma).

Il progetto di Neuschwanstein è maestoso ed eccentrico: prende ispirazione dalla fortezza di Wartburg in Turingia, e più in generale dalle illustrazioni libresche di castelli medievali. I bozzetti, che replicano nel dettaglio i desiderata del re, furono disegnati scenografo teatrale Christian Jank, mentre gli architetti incaricati di concretizzarli furono in successione Eduard Riedel, Georg Dollmann e Julius Hofmann. Il progetto architettonico fu modificato in corso d’opera: in parallelo alla crescente ritrosia del re per ogni contatto umano, vennero meno le stanze degli ospiti e gli spazi di rappresentanza, lo Scrittoio si trasformò in una piccola grotta artificiale con tanto di stalattiti e stalagmiti, che veniva illuminata con luci colorate. Sbirciando il piccolo giardino d’inverno, immagino il re in silenziosa contemplazione delle sue montagne, mentre nella sua testa rimbombano le potenti musiche wagneriane, che evocano storie di anime a lui affini.

Lo stile è eclettico e unisce ad elementi romanici e neogotici le più moderne tecnologie dell’epoca di Ludovico: acqua corrente in ogni piano, un complesso sistema di campanelli elettrici per la servitù, montacarichi per i pasti, apparecchi telefonici, riscaldamento ad aria calda.

Lungo il percorso che si snoda tra il terzo e il quarto piano del castello il visitatore ha modo di inoltrarsi nel mondo ideale a cui aspirava Ludovico: un universo popolato dai personaggi delle saghe cavalleresche medievali, dalle quali aveva attinto Richard Wagner per i suoi drammi musicali. Il re era uno sfrenato ammiratore di Wagner, che sostenne come mecenate per tutta la vita, e proprio a lui dedicò il castello di Neuschwanstein. I cicli pittorici che lo decorano sono infatti ispirati alle sue opere, che tematizzano storie di amore, colpa e redenzione. Spiccano le figure di Tannhäuser il trovatore, il cavaliere del cigno Lohengrin e suo padre Parsifal, il re del Santo Graal; in loro Ludovico si immedesimava e alla purezza dei loro animi tendeva. Il tema della purezza viene ripreso nella figura del cigno, già animale araldico dei conti di Schwangau, e simbolo cristiano. Lo ritroviamo nel castello in diverse forme: come stemma dipinto, intagliato, vaso in ceramica, rubinetto, elegantemente intessuto nei cuscini e nelle tappezzerie in seta blu, e nello stesso nome Neuschwanstein (Schwan significa cigno in tedesco).

Le prime pitture murali che si incontrano nel salone d’ingresso inferiore raffigurano scene della saga di Sigurd, tratta dal ciclo epico nordico Edda, il Sigfrido della Canzone dei Nibelunghi nella letteratura medio-alto tedesca. Si entra poi nella sontuosa Sala del Trono, che ricorda una chiesa bizantina. Le suggestioni sono molteplici: una cupola stellata, Cristo, San Giorgio che combatte col drago, i dodici apostoli e i sei re canonizzati. Un massiccio candelabro, ori, colonne di un blu intenso, un mosaico sul pavimento che raffigura la terra con le sue piante e i suoi animali. La sacralità di questo luogo illustra la concezione del potere secondo Ludovico, che si sentiva re per grazia divina, investito di una missione salvifica. Manca il trono, che alla morte del re non era ancora stato realizzato.

Passata la sala da pranzo si raggiunge la camera da letto, decorata dalle vicende di Tristano e Isotta. È cupa, vagamente lugubre; colpiscono l’elaborato baldacchino del letto, intagliato con perizia da quattordici maestri ebanisti, e gli arredi sontuosi. Soliti cigni qua e là: addirittura nel servizio da toilette in forma di brocca, contenitore per la spugna e portasapone. Qui fu sorpreso e arrestato Ludovico, la notte in cui subì l’interdizione.

Attraverso il guardaroba si giunge al salone, il cui ciclo pittorico rappresenta la saga di Lohengrin, il cavaliere del cigno. Ludovico conosceva già dall’infanzia la sua saga, grazie alle pitture murali presenti nel castello paterno di Hohenschwangau. Quando nel 1861 vide il Lohengrin di Wagner all’Opera di Corte di Monaco, ne rimase folgorato: in lui vedeva se stesso, principe romantico.

Superando l’insolita grotta e il giardino d’inverno si raggiunge lo studio, in cui è rappresentata la saga del trovatore Tannhäuser e la gara dei cantori della Wartburg. Si tratta di una leggendaria tenzone poetica avvenuta intorno al 1205 alla corte di Ermanno di Turingia, tematizzata poi nell’omonima opera di Wagner. L’ultima, grandiosa sala è proprio quella dei cantori, che combina due stanze storiche della fortezza di Wartburg: il salone delle feste e il salone dei cantori – dove, secondo la leggenda, si era esibito Tannhäuser. Qua a Neuschwanstein, però, il tema figurativo è un altro: si narra infatti la saga di Parsifal, che grazie alla purezza e alla fede diventa il re del Santo Graal. In questa grande sala, illuminata da più di seicento candele, non ebbero mai luogo feste o concerti finché il re fu in vita. Voleva essere altro: un monumento alle arti, alla musica, alla letteratura. All’amore cavalleresco medievale e ai suoi eroi tormentati e redenti.

Il sempre maggiore disinteresse per le vicende politiche e le spese pazze che Ludovico aveva sostenuto per costruire i suoi castelli portarono il governo a una decisione estrema: il 10 giugno del 1886 il re fu dichiarato pazzo e incapace di governare. La mattina del 12 andarono a prenderlo a Neuschwanstein e lo trasferirono con la forza al castello di Berg, nei pressi di Monaco. Il pomeriggio seguente il re chiese di poter fare una passeggiata con il dottor Bernhard von Gudden, lo psichiatra che aveva firmato la dichiarazione di follia, senza aver nemmeno visitato il re presunto matto. I due uomini non fecero mai ritorno: i loro corpi annegati furono ritrovati in serata nelle acque nere del lago di Starnberg. La morte prematura di Ludovico rimane a oggi un fatto misterioso, sul quale circolano varie teorie. Fu ufficialmente classificata come annegamento, ma il re era un buon nuotatore; altri parlano di un’aggressione, altri ancora di un malore. Alcune leggende raccontano che sia stato sbranato da un licantropo e che il dottor Gudden fosse in realtà il suo amante. Fantasie a parte, molti storici concordano sul fatto che il re non fosse davvero matto, ma semplicemente vittima di un intrigo politico.

Certo è che la figura enigmatica di re Ludovico sprigiona ancora una forza oscura e magnetica. Scrisse un giorno alla sua precettrice che voleva “rimanere un eterno mistero” per se stesso e per gli altri; Verlaine lo definì l’unico vero re del suo secolo. Fu generalmente benvoluto dai suoi sudditi, dato che per tutta la vita cercò di seguire una politica di riconciliazione tra gli stati tedeschi, evitando conflitti armati e garantendo alla Baviera un lungo periodo di pace, e per il suo mecenatismo. I bavaresi lo ricordano tuttora con grande affetto e il titolo “Unser Kini”, il nostro re.

La sua storia si intreccia anche con quella della Principessa Sissi, sua cugina, che diventò poi Imperatrice d’Austria. Erano entrambi amanti della natura e delle arti, e si scambiavano versi come questo “A te, aquila della montagna/Ospite delle nevi eterne/Un pensiero del gabbiano/Re delle onde frementi“. Lei gabbiano lui aquila, in volo sopra le meschinità e i giochi di corte. Fu anche fidanzato per un certo periodo con la Principessa Sofia, sorella minore di Sissi, ma dopo aver rimandato più volte il matrimonio Ludovico ruppe il fidanzamento; non si sposò mai e non lasciò eredi.

La sua eredità è d’altro tipo: lo strambo sovrano ha lasciato ai posteri luoghi magici, geografia e architettura di un mondo ideale, ispirato a quello romantico e cavalleresco delle saghe medievali. Non solo Neuschwanstein, ma anche il castello di Linderhof, la casa reale sullo Schachen, il castello nuovo Herrenchiemsee (che, nelle intenzioni del re, voleva essere una piccola Versailles bavarese), il convento dei canonici agostiniani Herrenchiemsee.

Il castello di Neuschwanstein fu aperto ai visitatori solo sette settimane dopo la sua morte: un oltraggio impensabile per re Ludovico, che lo aveva concepito come un luogo di solitudine e aveva ordinato al custode di impedire l’accesso ai curiosi nel caso avesse fatto una brutta fine. Ironicamente, questo e gli altri stravaganti e fiabeschi castelli da lui voluti, che gli attirarono critiche per i costi spropositati, costituiscono oggi alcuni tra i monumenti più visitati e redditizi di Baviera e della Germania intera.

Info utili

Neuschwanstein è una delle attrazioni turistiche più visitate di Germania e di tutta Europa, quindi conviene organizzare bene la visita. Il castello si trova nei pressi del paese di Schwangau e a sei chilometri dalla città di Füssen, comodamente raggiungibile in autobus. Punto di partenza per raggiungere il castello è la località di Hohenschwangau, dove si trovano anche dei parcheggi a pagamento.

I biglietti si acquistano presso il Ticket Center ai piedi del castello. A gennaio 2017 il biglietto costava 13 euro a castello (è possibile visitare anche l’altro castello, Schloss Hohenschwangau. Noi non l’abbiamo visitato per mancanza di tempo, quindi purtroppo non posso dare molte indicazioni a riguardo). L’albergo dove soggiornavamo dava la possibilità di acquistare i biglietti con un supplemento di 1.80 euro per la prenotazione: se anche il vostro  offre questo servizio approfittatene, perché le code al Ticket Center sono lunghissime fin dal primo mattino e avere già il biglietto in mano vi farà risparmiare un sacco di tempo. È anche possibile prenotare i biglietti online con sovrapprezzo fino a due giorni prima della visita, ma andranno poi in ogni caso ritirati al Ticket Center.

Il castello si raggiunge con una passeggiata in salita di circa trenta-quaranta minuti. In teoria c’è anche un bus navetta, ma quando siamo andati noi il servizio era soppresso a causa della neve, quindi non fateci troppo affidamento (in generale viene sospeso in caso di condizioni atmosferiche avverse, dato che la strada è sterrata e piuttosto ripida). Un’altra opzione per salire è in carrozza, trainata da bei cavalli neri e massicci; però la fila per accaparrarsene una è sempre lunga. Per chi non ha particolari problemi motori la passeggiata è sicuramente la soluzione migliore.

La gestione dei turisti a Neuschwanstein è un ingranaggio ben oliato: a ogni visitatore è assegnato un orario e un numero e bisogna presentarsi ai tornelli di ingresso all’orario stabilito. Si entra a scaglioni ogni cinque minuti di orologio: siate puntualissimi perché se perdete il turno di entrata il biglietto non sarà più valido! Si può scegliere la visita guidata in inglese o in tedesco, oppure con audioguida. Se optate per quest’ultima, non appena entrati vi sarà consegnata una audioguida nella lingua prescelta e una guida vi accompagnerà di sala in sala segnalandovi il momento in cui l’audioguida riprende il racconto. La visita dura circa 30 minuti e il ritmo è molto serrato: purtroppo è l’unico modo di visitare il maniero e gestire il flusso continuo dei turisti. Non è consentito fare foto o video all’interno del castello. Se volete acquistare dei souvenir, sappiate che ci sono due shop, il primo che si incontra è quello con il merchandising ufficiale ed è più caro.

Chi non vuole o non riesce ad acquistare i biglietti può comunque passeggiare liberamente nei boschi intorno al castello e fare delle belle foto dai vari punti panoramici. Il più famoso è il Marienbrücke (Ponte di Maria: Massimiliano II l’aveva costruito per la consorte Maria, amante delle escursioni in montagna), che però è preso d’assalto dai turisti. È un ponticello dall’aspetto abbastanza instabile situato sopra una gola, sconsigliato a chi soffre di vertigini 🙂 Quando siamo andati noi il sentiero per raggiungerlo (circa venti minuti a piedi dal castello) era sbarrato a causa della molta neve caduta la notte prima, ma tutti (TUTTI, e per una volta mi ha fatto piacere constatare che l’indisciplina non fosse solo italica…) scavalcavano ugualmente la barriera per raggiungere questo angolino, da cui effettivamente si gode di una vista pazzesca sul lato lungo del castello.

Una gita in Liechtenstein

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Il minuscolo Principato del Liechtenstein, incastonato tra Svizzera e Austria, vanta alcuni curiosi primati: ad esempio, è il più grande produttore mondiale di denti finti ed è uno dei due stati al mondo (l’altro è l’Uzbekistan) doppiamente senza sbocchi sul mare; ovvero, è privo di sbocchi sul mare e confina solo con nazioni che ne sono a loro volta prive. Nella classifica della piccolezza, con i suoi 160 chilometri quadrati, si piazza al sesto posto nel mondo e al quarto in Europa. Altri primati sono di natura finanziaria: nel Paese ci sono più società registrate che abitanti e il suo popolo gode di un reddito pro capite tra i più alti al mondo. Questa ricchezza ruota in gran parte intorno a un sistema bancario fondato su tassazioni favorevoli e rigida segretezza, anche se negli ultimi anni è stata introdotta una normativa improntata alla trasparenza in materia finanziaria e fiscale che ha parzialmente scardinato l’immagine del Principato come un luogo di loschi traffici e riciclaggio internazionale.

La formazione moderna del Fürstentum Liechtenstein (Principato di Liechtenstein) risale al 1719, quando Carlo VI d’Asburgo decretò l’unione tra Vaduz e Schellenberg come stato appartenente al Sacro Romano Impero. In realtà i suoi Principi risiedevano a Vienna, e non misero piede nelle loro terre per oltre 120 anni. Con la dissoluzione dell’Impero nel 1806 il Principato divenne parte della Confederazione del Reno: caduti gli obblighi nei confronti dell’Austria, si fa risalire a questo periodo la sovranità indipendente del Liechtenstein, anche se formalmente i Principi non erano altro che dei vassalli di Napoleone; caduto anche Napoleone il Liechtenstein aderì alla Confederazione Tedesca (1815-1866), presieduta dall’Imperatore d’Austria. Fu sempre molto legato all’Impero Austriaco prima e all’Impero Austro-Ungarico poi, fino alla fine della prima guerra mondiale, che lasciò il Principato in condizioni economiche disastrose.

Si legò quindi alla Svizzera, e il primo dopoguerra fu caratterizzato allo stesso tempo da un pesante indebitamento e da un’euforia finanziaria che pose le basi per il riaccumulo delle ricchezze perdute. Durante la seconda guerra mondiale il Liechtenstein si dichiarò neutrale e superò il periodo relativamente indenne, eccetto alcune perdite extraterritoriali: alla fine della guerra la Cecoslovacchia si impossessò di alcuni territori in Boemia, Moravia e Slesia che appartenevano alla famiglia reale del Liechtenstein; la questione non è mai stata veramente chiusa e le relazioni diplomatiche con la Repubblica Ceca e la Repubblica Slovacca sono state ricucite solamente nel 2009.

Il secondo dopoguerra fu segnato da abili mosse economiche e finanziarie, che aprirono il Liechtenstein agli investimenti e ai capitali esteri fino a renderlo negli anni uno dei Paesi più ricchi al mondo. Mantiene oggi strettissimi legami doganali e monetari con la vicina Svizzera, con cui condivide la moneta, il franco svizzero (ma anche l’euro è largamente accettato). La Svizzera rappresenta inoltre il Liechtenstein nei Paesi in cui esso non ha rappresentanza diplomatica e consolare.

Oggi il Liechtenstein è uno dei Paesi col più basso tasso di criminalità al mondo: le sue prigioni hanno pochissimi ospiti e i detenuti che devono scontare una pena superiore ai due anni vengono trasferiti in Austria. È anche uno dei pochi Paesi senza un esercito, il quale fu smantellato poco dopo la guerra austro-prussiana del 1866. In quella occasione il Principato inviò una truppa di 80 uomini, che però non fu coinvolta in nessun combattimento. Si racconta che tornarono in 81, la truppa al gran completo, tutti sani e salvi, insieme a un nuovo amico austriaco che avevano incontrato sulla via del ritorno! Un altro buffo aneddoto militaresco risale al 2007, quando 170 soldati svizzeri in addestramento sconfinarono per sbaglio di un chilometro e mezzo in territorio liechtensteiniano. L’accidentale invasione si concluse non appena il comandante si accorse dell’errore e fece marcia indietro; fu poi lo stesso esercito svizzero a informare il Liechtenstein dell’invasione e a porgere scuse ufficiali – quelli del Principato non si erano neanche accorti dell’accaduto…

Il Liechtenstein è una monarchia costituzionale guidata dal Principe Giovanni Adamo II, anche se la reggenza è affidata de facto dal 2004 al figlio, il Principe Luigi. I monarchi sono molto benvoluti dai sudditi, i quali secondo la costituzione potrebbero in qualsiasi momento, con un referendum, deporre i principi e instaurare la repubblica (le municipalità godono addirittura del diritto di secessione). Pare sia facile incontrare i reali per le stradine di Vaduz o sulle piste da sci, ed è consolidata usanza che, in occasione della festa nazionale, il 15 agosto, invitino i sudditi a bere una birra con loro al castello di Vaduz, dove risiedono.

A proposito di birra. Il Liechtenstein non ha un aeroporto, ma una birra propria sì, anzi due: una è l’acquosa Liechtensteiner, che si beve nei bar di Vaduz alla modica cifra di sette franchi svizzeri, l’altra è prodotta dal microbirrificio PrinzenBräu.

La capitale del Paese, con circa 5.400 abitanti, è Vaduz; mentre la città più popolosa è Schaan, che supera Vaduz di circa cinquecento anime. La popolazione totale ammonta a 37.623 abitanti (dato del dicembre 2015), composta per un terzo da stranieri. Moltissimi tra loro sono giuristi: il Liechtenstein vanta infatti il più alto tasso europeo di avvocati, 6 ogni mille abitanti (l’Italia si classifica al terzo posto dopo la Spagna). La lingua ufficiale è il tedesco, ma quella più parlata è un dialetto alemanno, vicino allo svizzero tedesco e ai dialetti del Voralberg austriaco. La meravigliosa parola per indicare il Paese in questo dialetto è Liachtaschta.

Va da sè che Vaduz stessa è minuscola, e sinceramente non offre grandi attrattive. Anche nei giorni di festa non c’è grande movimento in città e in orario serale, almeno durante la stagione invernale, sarà difficile persino avvistare dei liechtensteinesi a passeggio. L’impressione che ne abbiamo avuto è di una città un po’ tristanzuola, senza un centro storico particolarmente caratteristico (a eccezione della cupa cattedrale neogotica di San Florino). Forse siamo stati un po’ sfortunati, dato che praticamente tutti i musei, i bar e i ristoranti di Vaduz erano chiusi il giorno che l’abbiamo visitata; ma anche la signora con i capelli verdi all’ufficio turistico (che, tra l’altro, si trova nell’esatto centro geografico del Paese) ci ha confermato che due ore sarebbero state sufficienti per visitarla. A dire il vero ha fatto anche uno strano sbuffo, che abbiamo interpretato come un uff! due ore sono fin troppe! Se capitate in un giorno più vivace, pare siano degni di una visita il Kunstmuseum Liechtenstein, il museo di arte moderna e contemporanea, e il Museo Postale, che ripercorre la storia filatelica del Paese.

L’attrazione principale di Vaduz è il suo castello, che purtroppo non si può visitare in quanto residenza della famiglia reale. Dalle vicinanze di questo bel maniero abbarbicato sulla montagna a poca distanza dal centro città si gode però di una notevole vista su Vaduz e la sua valle, mentre alle sue spalle si estendono boschi per i quali è un piacere passeggiare. In effetti le attrattive maggiori del Principato sono quelle naturalistiche, accoccolato com’è in una conca alpina, verdissima d’estate e imbiancata dalla neve in inverno.

Che strano Paese. Piccolo, schivo, benestante, un po’ noioso: tuttavia sono felice di esserci passata, più per curiosità che per altro, e di aver visto un nuovo angolino di Europa e di mondo.

Le notti bianche d’Estonia

Saaremaa 2

Press close bare-bosom’d night—press close magnetic nourishing night!

Night of south winds—night of the large few stars!
Still nodding night—mad naked summer night.

Smile O voluptuous cool-breath’d earth!
Earth of the slumbering and liquid trees!
Earth of departed sunset—earth of the mountains misty-topt!
Earth of the vitreous pour of the full moon just tinged with blue!
Earth of shine and dark mottling the tide of the river!
Earth of the limpid gray of clouds brighter and clearer for my sake!
Far-swooping elbow’d earth—rich apple-blossom’d earth!
Smile, for your lover comes.

Prodigal, you have given me love—therefore I to you give love!
O unspeakable passionate love.

(Walt Whitman, Song of Myself – Part 21)

Questi sono forse i miei versi preferiti di tutte le Foglie d’erba di Walt Whitman. Raccontano quelle notti d’estate in cui sembra che la natura ci avvolga nel suo abbraccio più sensuale, quando il vento caldo ci riscalda le braccia e le gambe nude. Il poeta chiama queste notti magnetiche e nutrienti; la terra voluttuosa; gli alberi liquidi e sonnecchiosi. Notti che andrebbero passate nel mezzo di un bosco di conifere, alla luce delle stelle, celebrando l’amore appassionato e ineffabile.

Le notti d’estate al nord sono strane, corte e chiare. Ma questa che sta arrivando è la più speciale di tutti: è la notte di San Giovanni, che si festeggia tra il 23 e il 24 giugno. Che poi si chiama così – con le dovute varianti linguistiche – in quasi tutti i paesi, ma si celebra da molto prima dell’avvento del Cristianesimo. In moltissime culture la notte del solstizio d’estate è la più importante dell’anno, legata ai cicli dell’agricoltura e agli antichi riti pagani di fertilità.

L’Estonia è uno dei paesi in cui la tradizione della notte di mezza estate è più forte: il giorno di Giovanni, ovvero Jaanipäev, se la batte con Natale nella gara alla festività più amata. La mattina del 23 giugno la gente si dirige verso le campagne e una volta là comincia a raccogliere la legna per i falò, intreccia ghirlande di fiori da mettere nei capelli, prepara la griglia e mette in fresco le birre. La giornata sembra non finire mai, perché il tramonto tarda ad arrivare: diciannove interminabili e meravigliose ore di luce da celebrare minuto dopo minuto.

E quando il tramonto finalmente arriva si accendono enormi falò, sopra i quali i ragazzi saltano per garantire prosperità e allontanare gli spiriti maligni dalle proprie case. Si balla, si brinda, si canta. Gli amanti si imboscano per cogliere il fiore della felce, che sboccia solo questa notte, o forse qualcos’altro… La leggenda più bella del folklore estone è quella dei due amanti Koit (Alba) e Hämarik (Tramonto), che si incontrano solo una volta l’anno, per scambiarsi il più fugace dei baci nella più breve delle notti.

Il rapporto dei popoli del nord con il buio è intimo e inevitabile, costretti come sono a inverni lunghi mesi in cui il sole può non apparire per settimane. Mi ricordo come un’epifania il primo vero giorno di primavera in Estonia, la prima giornata tersa e mite; mi ricordo di aver quasi inciampato in una signora ferma in mezzo alla strada, tra le pozzanghere di neve sciolta, che con gli occhi chiusi e il volto rivolto al cielo si beava dei raggi del sole. Come se fosse il primo sole della sua vita, un sole primordiale e vivificatore.

Il contrappasso è un’estate breve, ma luminosissima, in cui la luce prende con arroganza la sua rivincita. Le notti bianche dell’Estonia ti mandano in palla perché quando tramonta alle undici di sera e albeggia alle quattro del mattino non capisci più se è ora di cenare, pranzare, dormire. Alzi gli occhi e non riesci più a distogliere lo sguardo da quel cielo rosso, dalle nuvole insanguinate che annunciano il nuovo giorno.

Jaanipäev nel mio ricordo è un pic-nic improvvisato e una notte passata intorno a una chitarra con un groppo in gola e la consapevolezza respinta in un angolino del cervello che qualcosa di bello e importante stava per finire senza scampo né riscatto – una maratona di lacrime, risate e gratitudine sotto il cielo illuminato dal sole di mezzanotte.

Ad Atene con Ilias

atene, vista sull'acropoli

Raccontami o Musa della culla del pensiero: quando ho detto a Ilias che a scuola avevo studiato il greco antico e i poemi omerici, le tragedie di Sofocle, Eschilo, Euripide, le commedie di Menandro, gli epigrammi di Callimaco, le liriche amorose di Saffo, la mitografia di Esiodo, la storiografia di Erodoto, decine di filosofi oltre ovviamente a Socrate, Platone, Aristotele… si è sorpreso non poco.

A ondate, ritorna il grande dibattito sull’inutilità dello studio delle cosiddette lingue morte nel licei classici italiani – e di conseguenza sull’inutilità del liceo classico stesso. Io sarò di parte, ma penso che lo studio matto e disperatissimo del greco e del latino abbia portato un grande valore aggiunto alla mia formazione. Ha ampliato il mio orizzonte linguistico e culturale, ha affinato il mio spirito critico e la mia coscienza politica, mi ha permesso di leggere cose antiche e bellissime nella stessa forma in cui furono concepite. Nel mio immaginario la Grecia era questo: una terra di poeti e filosofi, dee e dei che copulavano a destra e a manca indifferentemente con altre divinità o giovenche e animali vari, miti complessi e affascinanti, ninfe che si trasformavano in alberi e correnti marine, uomini che vivevano nelle botti, uomini che passeggiavano tra i colonnati disquisendo di etica e morale, politici idealisti e tiranni malvagi.

Ho conosciuto la Grecia come luogo letterario, finché non ho cominciato a leggerne le sventure sui quotidiani: il declassamento del debito pubblico, la crisi nera, i mercati in picchiata, la disoccupazione, l’austerità, la recessione e lo spettro del default. In piazza decine di migliaia di persone a protestare contro lo strapotere delle banche e le misure dei piani di salvataggio imposti dalla trojka formata da FMI, BCE e UE. Il popolo greco è volitivo, tende alla mobilitazione in un senso profondamente democratico e condiviso. Ilias ci racconta delle manifestazioni in Piazza Syntagma, dei collettivi che si riuniscono a Exarchia e nei pressi del Politecnico – il luogo della resistenza per eccellenza, da cui partì la rivolta che rovesciò la dittatura militare.

Nella notte del 17 novembre 1973, un carrarmato sfondò i cancelli del Politecnico, dove tre giorni prima gli studenti si erano asserragliati. Pare che, ai militari che intimavano loro la resa, gli studenti abbiano rivolto le stesse parole usate da Leonida re di Sparta contro i Persiani alle Termopili: “Μολὼν λαβέ”, venite a prenderle! Negli scontri che seguirono morirono 24 civili. 

Anche Alexandros Grigoropoulos era uno studente: è stato ucciso a sangue freddo da un poliziotto il 6 dicembre 2008.  La rabbia per questa morte insensata si è mischiata all’insofferenza diffusa nei confronti di uno stato autoritario e corrotto, insicuro, pervaso dall’ingiustizia sociale; l’omicidio è stato la scintilla che ha incendiato Atene intera – un fuoco che si è propagato in tutta la Grecia e fin oltre i suoi confini. La protesta violenta è andata avanti per settimane, mentre le scuole e le università venivano occupate. I disordini si ripetono puntuali ogni anno, nel giorno dell’anniversario della morte di Alexandros.

Alexandros Grigoropoulos
Il luogo dov’è stato ucciso Alexandros, a Exarchia

La mia impressione è che i greci non vadano molto d’accordo con l’autorità costituita. Eppure sono costretti ad averci a che fare, prima o poi: infatti in Grecia il servizio militare è ancora obbligatorio e l’obiezione di coscienza non è prevista (il servizio civile esiste come opzione, ma le condizioni sono tali da scoraggiare perfino il giovane più antimilitarista). Ilias è riuscito a rimandare per tutti gli anni dell’università, ma, adesso che ha finito gli studi, gli tocca partire. Non sa dove sarà spedito e a fare cosa… spera solo che non lo mettano a fare la guardia statuina davanti al Parlamento in piazza Syntagma, costretto a fissare nel vuoto per ore mentre i turisti ti fanno le foto. Meglio stare al fresco da qualche parte sul confine.

Chiacchierando con Ilias e i suoi amici ho imparato tante cose sulla Grecia, quella moderna e quella antica. Caterina cerca un impiego retribuito e non lo trova, ma lavora tutti i giorni come volontaria al Museo dei bambini. Mi racconta le storie che narra loro, come quella della competizione tra Atena e Poseidone per diventare la divinità protettrice di questa città che all’epoca era ancora senza nome. Ognuno avrebbe fatto un dono agli Ateniesi ed essi avrebbero scelto quale fosse il migliore. Il dio del mare fece sgorgare una sorgente, ma l’acqua era salmastra. Atena offrì invece un ulivo dalle foglie d’argento, imperlato di olive nere e succose. Gli Ateniesi scelsero l’ulivo e Atena divenne patrona della città.  Davanti a una birra, spiluccando quelle stesse olive nere e succose, le mie memorie scolastiche fanno capolino corpose e trasfigurate, mentre mito e realtà, passato e presente, si confondono l’uno dentro l’altro.

atene, l'acropoli

Oslo, o del benessere

Le ragazze di Oslo

Il primo segnale è l’assenza degli applausi caciaroni all’atterraggio: un senso di calma e pacatezza aleggia tra i passeggeri del volo Milano-Oslo Rygge, mentre scendono dall’aereo e respirano a pieni polmoni l’aria pulita e frizzante del cielo blu di Norvegia. Benvenuti nella terra dei fiordi e dei salmoni, nel grande Paese dello stato sociale e delle aurore boreali!

Oggi è la festa nazionale norvegese: si festeggia la Costituzione, firmata il 17 maggio 1814, che dichiarò la Norvegia nazione indipendente. In modo totalmente casuale, l’anno scorso ci siamo trovati a sfilare per le strade di Oslo in occasione del bicentenario.

Premetto che più persone mi avevano detto che Oslo era una città bruttina e troppo cara per godersela. Effettivamente i prezzi sono molto alti (una birra 8-10 euro), ma grazie a una serie di fortunati eventi siamo riusciti a contenere i costi.

(Primo fortunato evento: appena arrivati siamo incappati in un baracchino dell’Esercito della salvezza o qualcosa del genere che regalava hot dog e succhini in cambio della promessa di leggere il loro opuscolo: il primo pasto l’abbiamo risolto così… Secondo fortunato evento: il 18 maggio è l’International Museum Day e si entra gratis dappertutto! Ovviamente non lo sapevamo ed è stata una bella sorpresa).

Comunque, forse complici le due splendide giornate di sole che abbiamo trovato e l’aria di festa, ho trovato Oslo tutt’altro che bruttina, ma effervescente, purissima e azzurra.

La cosa pazzesca di questa città è l’aria di agio e benessere economico che si respira: grazie agli immensi giacimenti petroliferi scoperti alla fine degli anni Sessanta nel Mare del Nord, infatti, i norvegesi hanno di che stare tranquilli. I proventi delle estrazioni sono stati incanalati nel Fondo Pensione Governativo (ex Fondo Petrolifero Norvegese), inizialmente destinato all’istituzione del welfare state e all’estinzione del debito pubblico – obiettivo raggiunto nel 1995 – e, da quel momento in poi, a provvedere al sistema previdenziale e sanitario dei norvegesi di oggi e di domani. A settembre 2014, il suo valore si aggirava sugli 850 miliardi di dollari.

Il 17 maggio, a Oslo, si vedono miriadi di bandierine e si incontrano giovani, vecchi e bambini vestiti a festa. Molti indossano i costumi tradizionali, tutti sono allegroni, alcuni ragazzi sono terribilmente sbronzi: oggi infatti è anche il giorno in cui si conclude il russfeiring, la festa di primavera degli studenti che frequentano l’ultimo anno delle superiori. Si riconoscono dalle salopette rosse e blu e dall’elevato tasso alcolico 🙂

#cosavedereaOslo

Karl Johans Gate. La strada principale di Oslo corre attraverso la città. Lungo di essa si incontrano alcune tra le principali attrazioni turistiche come la cattedrale, il Parlamento e il Palazzo Reale – che noi abbiamo raggiunto al seguito di una parata musicale di bambini in divisa marinara 🙂

Aker Brygge. L’ex zona portuale di Oslo è stata riqualificata alla fine degli anni Ottanta e da allora è the place to be: qui ci sono i locali più fighetti e i ristoranti più costosi. Il giorno della festa è un tripudio di denti perfetti e vestiti eleganti. Sono tutti impeccabili mentre innalzano calici colmi di champagne sui pontili degli yacht attraccati.

Le opere di Edvard Munch. Munch è uno dei pittori più conosciuti e citati della storia dell’arte moderna: forse non tutti sanno che era norvegese e alcuni tra i suoi dipinti principali, tra cui l’Urlo, sono conservati alla Galleria Nazionale di Oslo. In città c’è anche un museo interamente dedicato a lui, che raccoglie circa 1100 dipinti e oltre 20000 disegni e opere grafiche.

La penisola di Bygdøy. La cosiddetta “penisola dei musei” si raggiunge col traghetto o con il bus numero 30. Qui si trovano alcuni tra i maggiori musei di Oslo: il più bello è il museo Kontiki, dove si narrano le gesta di Thor Heyerdahl, l’esploratore più fico dei tempi moderni. Ne ho parlato qui. L’altro museo molto bello è quello delle navi vichinghe, dove sono state ricostruite tre navi risalenti al IX secolo e ritrovate durante degli scavi nel fiordo di Oslo tra fine Ottocento e inizio Novecento. La più affascinante è la nave di Oseberg, una ricchissima nave-tomba che accompagnò nell’ultimo viaggio due misteriose donne di alto rango – forse due principesse, forse sacerdotesse di Odino. O forse una era la moglie di un capo clan e l’altra una serva che le fu sacrificata. Lo studio dei loro resti ha svelato alcune cose, ma molte altre domande rimangono insolute.

Grønland. La Norvegia, da decenni in testa alle classifiche per qualità della vita, ha una percentuale di immigrazione (tenendo in conto immigranti e figli di immigranti) che si aggira sul 15% (per dare un’idea, l’Italia si attesta sull’8% circa). Il volto multietnico di Oslo si rivela nel quartiere di Grønland: anche qui oggi si festeggia, ma i profumi che si alzano dalle bancarelle di cibo sono speziati e rotondi. Questo quartiere svela un lato meno conosciuto della città, variopinto e brioso. Qua si trovano tra l’altro tanti buoni ristorantini dove mangiare a un prezzo decente, come ad esempio il Punjab Tandoori.

E ancora la fortezza e il castello di Akershus, per fare un pisolino sul prato; il Centro Nobel per la pace, per scoprire la storia del premio più famoso al mondo; la bianchissima Opera House in marmo di Carrara che scivola nel mare, per godere di una bella vista della città.

La Queima das Fitas di Coimbra

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L’università di Coimbra è la più antica del Portogallo e una delle più antiche d’Europa. In questa città tutto gira intorno al mondo studentesco; il suo calendario è quello accademico.

Coimbra è bellissima: soprattutto di notte, vista dall’alto, quando le sue luci si specchiano nel fiume Mondego, o quando la sua cattedrale medievale al tramonto si infiamma. Coimbra è i suoi studenti: che vanno e vengono per le sue strade avvolti in mantelli neri e lunghi fino ai piedi. Studiare a Coimbra è un’investitura, una storia d’amore che dura tutta la vita: uma vez Coimbra, para sempre saudade

Il primo venerdì di maggio di ogni anno si apre una settimana di festeggiamenti in onore di chi sta per laurearsi. Si chiama Queima das Fitas, che vuoi dire rogo dei nastri e deriva dalla tradizione degli studenti di bruciare a conclusione del proprio ciclo di studi i nastri colorati che simboleggiano la propria facoltà. Continua a leggere “La Queima das Fitas di Coimbra”

Una Pasqua Portoghese

Il proverbio dice: Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi. Io questa Pasqua la passo in casa, con la mamma che tira col mattarello le sfoglie della torta pasqualina, l’agnello in forno, le uova di cioccolato fondente e, fuori, la pioggerellina di aprile (come da tradizione milanese).

Oggi racconto invece di una Pasqua passata in Portogallo, tra i luoghi e le usanze di un popolo ancora molto legato al senso originario dei giorni pasquali. Il cattolicesimo portoghese è forte e vigoroso e si esprime attraverso feste popolari, pellegrinaggi solenni e sontuose processioni. La capitale spirituale del Paese è Braga, nel Minho. Fu per secoli la sede arcivescovile più importante di tutta la penisola iberica e la sua straordinaria Sé (la cattedrale) è la più antica di tutto il Portogallo.“Braga reza, o Porto trabalha, Coimbra estuda e Lisboa diverte-se” (Braga prega, Porto lavora, Coimbra studia e Lisbona si diverte): questa battuta, che riassume un Paese intero in poche parole, rende bene la forte caratterizzazione e connotazione che ognuna delle grandi città portoghesi porta con sé. Braga, appunto, è la città che prega, la città delle chiese e delle campane che risuonano in continuazione, la città della Semana Santa più spettacolare e suggestiva di tutte.

Semana Santa, Braga
Semana Santa de Braga
Procissao do Enterro do Senhor, Semana Santa de Braga

La Semana Santa di Braga

Siamo arrivate a Braga la mattina del Venerdì Santo, accolte da un cielo grigio e carico di pioggia. E’ affollata di turisti, giunti da vicino e lontano per assistere alle celebrazioni della Settimana Santa. Gli altari delle innumerevoli chiese, decorati con fiori e candele, evocano ognuno un episodio della Passione di Cristo; drappi viola ornano le vie e le piazze. La settimana è scandita dalle processioni che attraversano la città, in cui centinaia di figuranti rappresentano con scenografie maestose gli ultimi giorni della vita di Gesù. La tensione religiosa accumulata durante la settimana culmina nei riti del Venerdì Santo, il giorno in cui i fedeli ricordano la morte di Gesù sulla croce. Dopo esserci trovate per caso nella Sé ad assistere alla Procissão Teofórica do Enterro do Senhor, che si svolge nel pomeriggio lungo le navate della cattedrale con canti in latino, ci siamo unite alla fiumana di gente che si raccoglieva lungo la via principale in attesa dell’ultimo grande e solenne corteo notturno, anch’esso intitolato all’Enterro do Senhor. La pioggia che era caduta leggera tutto il giorno si è improvvisamente interrotta alla comparsa dei farricocos, i penitenti incappucciati, che aprono la processione in lugubre silenzio trascinando i piedi nudi sul selciato bagnato. Seguono le confraternite, gli ordini capitolari, i Cavalieri di Malta e del Santo Sepolcro di Gerusalemme, figure allegoriche col volto coperto in segno di lutto, bambini e bambine dalle vesti colorate e preziose, autorità varie, la banda che fa risuonare i tamburi con rintocchi angosciosi e martellanti; al passaggio della cassa da morto le signore pie si fanno il segno della croce e quasi piangono. Il corteo si conclude e gli spettatori si riversano in strada per diventarne la coda, la pioggia riprende d’un tratto per andare avanti tutta la notte.

Il Bom Jesus do Monte

Bom Jesus do Monte

La mattina dopo il cielo s’è schiarito e noi andiamo in gita al santuario del Bom Jesus do Monte (da Braga ci si arriva in quindici minuti con l’autobus numero 2), una bella chiesa neoclassica che  sorge sulla sommità di una collina da cui si gode una vista pazzesca di tutta Braga con la sua valle. L’attrazione principale però non è la chiesa in sé, ma la straordinaria scalinata barocca (lo Escadório do Bom Jesus) che porta fino in cima lungo un percorso simbolico che ripercorre le stazioni della Via Crucis, attraversa le tentazioni dei cinque sensi (Escadório dos Cinco Sentidos) e si conclude – per la felicità del pellegrino – con l’Escadório das Três Virtudes e le cappelle delle tre Virtù (fede, speranza e carità). La camminata è faticosa, ma impreziosita da giardini segreti, fontane allegoriche, piccole grotte. I pellegrini più tenaci se la fanno tutta sulle ginocchia. Al ritorno si può scendere con la rapidissima e ripidissima funicolare che dal 1882 sale e scende su e giù dalla collina del Bom Jesus: è la più antica della penisola iberica e la più antica del mondo tra le sette funicolari esistenti che utilizzano questo sistema di contrappesi ad acqua. 


Bom Jesus do Monte 2
Bom Jesus do Monte 3

Le Aldeias do xisto

C’è un segreto ben custodito tra i boschi e le montagne del centro del Portogallo, nell’area che si estende suppergiù da Coimbra alla serra da Estrela: sono i villaggi di scisto,  luoghi magici dove il tempo scorre lento. A prima vista sembrano disabitati, ma dietro le porte delle case scolpite nella pietra fanno capolino la vita rurale, le tradizioni antiche, un’ospitalità calda. Attualmente sono 27 i villaggi che compongono la Rede das Aldeias do xisto, i cui obiettivi sono la preservazione e la promozione turistica del paesaggio culturale del territorio, la valorizzazione del patrimonio architettonico e lo sviluppo sostenibile del suo tessuto sociale ed economico. Passeggiando lungo queste strade acciottolate mi sono sentita sospesa nello spazio e nel tempo; nella nebbia ho respirato le storie di chi ha abbandonato questi posti, di chi non se n’è mai andato e di chi vi sta facendo ritorno per salvarli dall’oblio del mondo moderno.

Aldeias de xisto 2
Aldeias de xisto
Pitture rupestri…?

Una Pasqua a Casal Novo

E poi la domenica di Pasqua a Casal Novo, con Quico e la mia famiglia adottiva portoghese: accolte ancora una volta con tutto il calore possibile immaginabile da mamma Licinia e papà Jegundo al grande tavolo con nonni e nipoti, un pranzo di festa che si apre con un caldoverde insaporito da gran tocchi di chouriço e si chiude con un morbidissimo pão de ló. E io sono grata e felice per questi momenti, per questo sentirmi a casa lontano da casa, per gli affetti e le amicizie, per la Primavera che sta arrivando. Per l’imbarazzo divertito mio e di Ginevra quando bussa alla porta il prete con mezzo paese dietro per il rito del beijo da cruz, il bacio alla croce, cui fanno seguito auguri, abbracci e brindisi. Per il senso di comunità di questo piccolo accrocco di case che conta poco più di cento abitanti, ma che quel giorno è stato l’ombelico del mio mondo.

Dovunque voi siate, con chiunque voi siate: Feliz Páscoa!

Dolci pasquali
Buona Pasqua!

Storie di Londra

Per me Londra è una città mosaico, perché ogni volta che ci torno aggiungo un pezzettino, che a volte si sovrappone e a volte si incastra agli altri. Tutti questi pezzettini insieme vanno a formare una mappa dei ricordi complessa e contraddittoria, fatta di esperienze vissute a età diverse e con occhi ogni volta nuovi. Poi tanti amici e amiche hanno cominciato a trasferirsi a Londra, chi per studio chi per lavoro. Molti sono tornati, alcuni sono rimasti, alcuni sono andati, tornati e ripartiti. Io nel frattempo leggevo i romanzi di Zadie Smith e l’immaginario della sua Londra meticcia andava a intrecciarsi ai racconti dei miei amici.

La mia prima Londra è stata in gita di classe in quarta ginnasio, segnata da una sciagurata sistemazione in famiglia in un quartiere periferico e malfamato con automobili in fiamme ai bordi delle strade e babygang allo sbaraglio (Catford, dalle parti di Greenwich, tuttora immune alla gentrification della Greater London). E tuttavia, oltre ai lavandini con i rubinetti separati per l’acqua calda e l’acqua fredda e il packed lunch coi panini spalmati di burro, ricordo un grande senso di libertà ed esaltazione, eccitato dalle creste colorate dei punk che si radunavano la sera a Piccadilly – molto più fighi di quelli che ero abituata a vedere alla fiera di Senigallia il sabato pomeriggio a Milano.

La seconda Londra è stata veloce: una gita in giornata l’estate dello stesso anno, in occasione di una vacanza studio in Galles. La terza Londra è stata uno degli ultimi anni di liceo con la Cecilia – stavamo in un ostello tamarro a Russel Square che sembrava un incrocio tra una discoteca e un ospedale. Mi ricordo la coda lunghissima al Madame Tussaud e di aver fotografato praticamente ogni singola statua di cera. Mi ricordo la scultura di una donna incinta senza braccia al centro di Trafalgar Square (l’ho cercata su google: si chiamava Alison Lapper Pregnant di Marc Quinn, membro degli Young British Artists).

La mia quarta Londra è Everybody loves the Cha-Cha-Cha di Sam Cooke ballata sulla moquette della casa di Sean a Grove End Road, è Hyde Park in boccio, è fermare il traffico per mettersi in posa in Abbey Road, sono i pancakes alla frutta al Breakfast Club di Hoxton, sono le pinte bevute in riva al fiume e i cocktail bar spaziali dove mi ha portato la Berri: il Nightjar a Shoreditch, il Connaught a Mayfair, il Lab a Soho.

La mia quinta e ultima Londra, quella dello scorso weekend, è un viaggio con le mie amiche in modalità teenager. Siamo partite in cinque dalla Malpensa il giorno dell’eclisse, dell’equinozio di primavera e dello sciopero degli aeroportuali (tre ore di ritardo sulla partenza del volo). Il taxi che ci ha portato da Victoria a East London ci ha probabilmente fregato facendo un giro più lungo del necessario, ma almeno ho fatto un ripassino delle attrazioni turistiche della città. Sarà che Londra è immensa, sarà che spesso ho girato con la metropolitana (mi fa l’effetto teletrasporto e perdo coscienza delle distanze), sarà che il mio senso dell’orientamento è disastroso, ma a me questa città crea una confusione pazzesca e continuo a non riuscire a collocare i suoi luoghi al posto giusto. È buffo perché i cosiddetti punti di riferimento vecchi e nuovi come il Big Ben, il London Eye, il Gherkin e lo Shard – per gli amici “il cetriolo” e “la scheggia” – a me sembrano spuntare sempre in punti diversi…

È stato bello ritrovarsi e condividere per un paio di giorni la vita londinese delle nostre amiche felicemente emigrate, non avere la fretta della prima volta e potersi godere le piccole cose di questa città grande: le bolle di sapone, le bancarelle di libri usati, la musica gipsy che sale a sorpresa dalle sponde del Tamigi e i dj-set improvvisati sotto un ponte. Abbiamo fatto colazione con fagioli bacon uova e salsicce; ci siamo rifatte gli occhi e il naso al Borough market (uno dei mercati alimentari più antichi del mondo); abbiamo fatto scorta di ballerine primaverili da Primark, quelle che fanno puzzare i piedi ma costano solo tre sterline; ci siamo sdraiate sul pavimento della Turbine hall alla Tate Modern; abbiamo scelto i bulbi più belli al Flower Market di Columbia Road grazie ai consigli di una super giardiniera e comprato collanine a Brick Lane. Abbiamo fatto la Oyster senza prendere la tube neanche una volta, ma ci siamo fatte i selfie sulla 94. Abbiamo incontrato il sosia di Conchita Wurst (la cantante barbuta che ha vinto l’Eurovision) al Dalston Superstore, un locale gay molto divertente dove ho avuto l’ennesima conferma che il mondo è bello perché è vario e variopinto. Abbiamo mangiato Tom yam goong bevendo Beerlao da Busaba Eathai a Soho e abbiamo placato con litri di tap water le vampate provocate dai meravigliosi e piccantissimi piatti punjabi di Tayyab a Whitechapel. Abbiamo bevuto (un sacco di) birra al Waxy O’Connors a Piccadilly cantando a squarciagola cori da stadio e canzoni della nostra adolescenza (l’unico maschio al tavolo probabilmente ne è uscito sconvolto); abbiamo ballato fino a tardi in un locale trovato a caso e ci siamo svegliate col mal di testa la mattina dopo; la domenica abbiamo guardato El Clásico tifando per “il Bologna” al mitico Blind Beggar, il pub dove lavorava la Sibilla.

“Le sette sorelle” è una locuzione che indica varie cose: le Pleiadi, un gruppo di sette grattacieli del classicismo socialista a Mosca, il cartello delle compagnie petrolifere che controllarono il mercato dell’oro nero fino agli anni Settanta. Per me siamo io e le mie amiche, sette sorelle in giro per Londra, di nuovo tutte insieme per la prima volta dopo tanto tempo. Un brindisi dopo l’altro: al ritrovarsi, ai ricordi, ma anche al diventare grandi, ai progetti, all’incertezza, al futuro. Celebrando le strade diverse che ognuna di noi sta percorrendo, ognuna con i suoi ostacoli e dubbi, ma anche con tante piccole e grandi soddisfazioni e speranze. Londra è stata lo scenario perfetto per questo riunione perché la sua vitalità ci ha riempito e ci ha fatto ridere, cantare e ballare senza sosta. Londra è come le ragazze: colorata, casinista, rumorosa, meravigliosamente sfaccettata.