Geografie letterarie

Questo libro, oltre che un’insonnia, è un viaggio. L’insonnia appartiene a chi ha scritto il libro, il viaggio a chi lo fece. Tuttavia, dato che anche a me è capitato di percorrere gli stessi luoghi che il protagonista di questa vicenda ha percorso, mi è parso opportuno fornire di essi un breve indice. Non so bene se a ciò ha contribuito l’illusione che un repertorio topografico, con la forza che il reale possiede, potesse dare luce a questo Notturno in cui si cerca un’ombra; oppure l’irragionevole congettura che un qualche amante di percorsi incongrui potesse un giorno utilizzarlo come guida.

Antonio Tabucchi, Nota a Notturno indiano, prima edizione Sellerio 1984.

Il rapporto tra i luoghi e la loro rappresentazione letteraria mi ha sempre incuriosito molto. Ad esempio, nel Notturno indiano, il narratore viaggia pigramente tra luoghi topograficamente esatti e individuati, soggiorna in un lussuoso hotel di Bombay, fa tappa in un sudicio bordello, intrattiene conversazioni filosofiche su un treno diretto a Madras, cammina sulle spiagge di Goa. 

Eppure sono luoghi trasfigurati, mitici, traboccanti di significato. Più banalmente e senza scomodare la letteratura, ogni luogo, quando viene raccontato, diviene il racconto che di esso offriamo, attraverso il filtro del nostro vissuto o della nostra interpretazione. 

Viaggiare è una questione fortemente personale, che lascia molto poco spazio a giudizi oggettivi: ma anche il racconto più personale e il percorso più incongruo possono servire da traccia  ad altri viaggiatori in cerca di suggestioni.

Jakarta, the big durian

Sunda Kelapa old port

Tutti conoscono The Big Apple, la grande mela, ovvero il nomignolo col quale è soprannominata New York. Forse però non tutti sanno che in Oriente c’è un’altra città-frutto sicuramente meno famosa e bella, ma a suo modo interessante. Si tratta di Jakarta, amichevolmente chiamata The Big Durian, come il frutto asiatico più controverso di sempre. Controverso perché non ci si riesce a mettere d’accordo sul suo gusto, alcuni sostengono sia rivoltante, altri prelibato. Si dice che abbia l’odore dell’inferno (è vietato portarlo in aereo, sui mezzi pubblici e nelle camere d’albergo) e il sapore del paradiso… personalmente lo trovo piuttosto disgustoso, ma in Asia stravedono per lui. Un’altra teoria sostiene che Jakarta, come il durian, vada provata tre volte prima di apprezzarla. Fuor di metafora, Jakarta è allo stesso tempo respingente e seduttiva, è the place to be per ogni ragazzo indonesiano che vuole far fortuna – vengono qua da ogni parte del paese e la città cresce, si espande dissennatamente, in verticale con i grattacieli e in orizzontale con gli slums.

La povera Jakarta soffre del complesso della città brutta ed è finita, suo malgrado, in un circolo vizioso: i turisti non la visitano perché ha fama di essere brutta ed è effettivamente brutta perché, essendoci pochi visitatori, l’amministrazione non ritiene prioritario investire sulle strutture turistiche. Ci sono poi dei problemi che vanno al di là del turismo e che creano disagio in primo luogo a chi a Jakarta vive: ad esempio il fatto che non ci sia una rete metropolitana rende davvero complicati gli spostamenti, in una città da oltre 10 milioni di abitanti! Una delle questioni scottanti di Jakarta è per l’appunto il traffico, perennemente congestionato; le automobili rimangono imbottigliate mentre sciami di motorini ronzano loro attorno, i temerari pedoni soccombono tra i fumi dei gas di scarico. Nei giorni in cui l’abbiamo visitata noi probabilmente c’era addirittura più traffico del solito perché quest’anno la città ospitava la XVIII edizione degli Asian Games, le Olimpiadi d’Oriente. Sarebbe stato bello vedere qualche gara ma purtroppo non ci siamo organizzati per tempo. Spoiler: la Cina ha sbancato il medagliere.

Effettivamente la città non abbonda di luoghi convenzionalmente belli, e molti turisti si limitano a visitarne i centri commerciali. Fatto sta che a noi i posti con una pessima fama incuriosiscono e abbiamo deciso di passare un paio di giorni a Jakarta per darle un’occhiata. Come da tradizione abbiamo cercato un free walking tour e ci siamo imbattuti in Huans di Jakarta Good Guide, che ci ha portati in giro per la città vecchia, cioè quel che resta dell’antica Batavia, capitale delle Indie Orientali. Jakarta ha infatti un passato coloniale: Batavia è il nome che le avevano dato gli olandesi, che spadroneggiarono sull’Indonesia per tre secoli e mezzo prima attraverso la Compagnia Olandese delle Indie Orientali (VOC) e poi direttamente tramite il governo coloniale. Anche il nome “Indonesia” è di derivazione coloniale – il nome originario del Paese è Nusantara, ovvero “arcipelago” in antico giavanese. Un nome che svela la varietà e la complessità di una nazione composita, formata da oltre tredicimila isole, ognuna con una fortissima identità culturale (il significativo motto nazionale è “uniti nella diversità”).

Huans e il suo gruppo offrono anche degli altri tour della città: uno esplora il vero e proprio city center, ovvero la zona che si sviluppa intorno al National Monument in Merdeka square, fatta principalmente di grattacieli e business center. Dice la Lonely Planet che il monumento è confidenzialmente chiamato dagli abitanti di J-town “l’ultima erezione di Sokarno”, il primo presidente dell’Indonesia indipendente. Un altro tour è dedicato a Glodok, la Chinatown della capitale indonesiana, che pare sia anche zona di ottimo street food. La comunità cinese non ha avuto vita facile a Jakarta: durante le rivolte del 1998 i cinesi indonesiani hanno subito violenze terribili e fino all’anno 2000 era addirittura proibito loro dare nomi cinesi ai figli e festeggiare il capodanno cinese, la loro festa più importante. A oggi tutte le religioni praticate nel Paese godono di eguali diritti. La legge stabilisce che bisogna credere in un Dio, non importa qualche, basta che in qualcuno/qualcosa si creda. L’ateismo, d’altro canto, è bandito.

Ci siamo incontrati con Huans alla stazione di Kota, la più antica stazione ferroviaria della città. Adesso serve principalmente le destinazioni poco distanti ed è usata dai pendolari che si recano ogni mattina a Jakarta per lavorare. È stata costruita alla fine del XIX secolo da un architetto olandese combinando art déco ed elementi architettonici locali; ha ariosi soffitti a volta, dettagli in ceramica e in legno di teak. Da qui, attraverso un sottopassaggio, siamo sbucati di fronte al National Bank Museum – se avete tempo di visitare un solo museo a Jakarta, scegliete questo. Il tema (la storia monetaria del Paese) è particolare, ma molto interessante. Siamo poi saliti a bordo di un angkot, ovvero un pulmino da una dozzina di posti circa che va fermato lanciandosi in mezzo alla strada e che ti porta più o meno dove devi andare; e ci siamo diretti al vecchio porto di Sunda Kelapa, che adesso è un po’ malandato ma una volta era il cuore del traffico marittimo di Batavia. Un marinaio ci ha portato in giro attraverso il porto sulla sua barchetta – è stato molto emozionante aggirarsi tra le navi vuote nel silenzio di un giorno di festa. Abbiamo anche fatto una incursione su una grossa nave da carico turchese, chissà se il capitano sarebbe stato d’accordo… Rientrati sulla barchetta abbiamo fiancheggiato giganteschi casermoni fantasma, baracche, ragazzini che ci sbracciavano per salutarci. Intorno al porto si sviluppa purtroppo una grande povertà e i cumuli di spazzatura e plastica si fanno più grandi giorno dopo giorno. Versano in uno stato di semi abbandono anche il museo marittimo, ospitato negli antichi edifici coloniali, e la “torre pendente” di Jakarta, l’antica vedetta. Passiamo accanto a tre luoghi emblematici: un albergo di lusso caduto in rovina, un caffè ristorante (bellissimo, negli spazi di una antico magazzino della VOC) fallito e l’antico ponte levatoio olandese, anch’esso male in arnese. C’è da anni in programma la riqualificazione della zona: speriamo che prima o poi avvenga davvero.

La grande sorpresa è stata Taman Fatahillah: una piazza strapiena di gente, ragazzi e ragazze seduti in circolo a chiacchierare, che manco alle colonne di San Lorenzo un sabato sera d’inizio estate (con la differenza che qua non ci sono le birre e le ragazze sono quasi tutte velate). Era il centro dell’antica Batavia e ai suoi lati ci sono tanti bei palazzi come le Poste Centrali e il vecchio Municipio (oggi un museo storico). Un buon posto per osservare il via vai è il Cafè Batavia, con i suoi tavolini che danno sulla piazza.

Per cena, su suggerimento di Huans, ci siamo fermati al Restaurant Merdeka (il nome non è particolarmente invitante, ma significa “indipendenza” in bahasa indonesia, e anche in malay – moltissime piazze in Indonesia e Malesia portano questo nome). È un ristorante che propone cucina Padang, dell’isola di Sumatra: funziona che ti siedi a tavola e il cameriere comincia a portare un’infinità di ciotole e ciotoline, addirittura impilandole le une sulle altre quando finisce lo spazio. I commensali scelgono cosa mangiare, rigorosamente senza posate; vengono poi addebitati sul conto solo i piattini effettivamente toccati. Il piatto più buono è probabilmente il rendang, una specie di stracotto dal sugo scurissimo e speziato. Mi è piaciuto anche il tempè fritto (sono fagioli di soia fermentati, in pratica un panetto di penicillina).

Per tornare verso il centro abbiamo preso l’autobus della TransJakarta che taglia verticalmente la città fino al Blok M. È curioso perché le fermate sono delle specie di gabbiotti sopraelevati nel mezzo delle strade. Alcuni autobus sono ladies only.

L’ultima tappa della serata è stato un elegante sky bar all’ultimo piano di un grattacielo bello alto: un posto davvero figo (si chiama Skye). La vista pazzesca, i cocktail molto buoni. La fauna eterogenea e a tratti inquietante: turisti con Birkenstock e braghe corte (noi), qualche esponente della Jakarta bene, businessmen cinesi sbronzi, giovani fanciulle asiatiche accompagnate a panzoni occidentali. Meglio rivolgere lo sguardo verso le ipnotiche mille luci della città verticale e ubriacarsi di vertigine.

Scendendo a velocità supersonica dal cinquantaseiesimo piano della BCA Tower abbiamo scambiato in ascensore due chiacchiere con un gruppo di alticci expat australiani e americani: dopo averci dimostrato la loro conoscenza dell’italiano a suon di bestemmie, ci hanno giurato che la vita a Jakarta, soprattutto quella notturna, è tutta da scoprire. Sempre la Lonely descrive Jakarta come città di movida sfrenata e club underground – non sappiamo quanto ciò corrisponda al vero, ma ci fidiamo (sicuramente non si beve molto, dato che è pur sempre la capitale di un Paese islamico).

Concludendo, confermo che il gusto di questo grande durian non è così male, dopo tutto. Jakarta non è bella, anzi è sporca, trafficata e confusionaria, ma nasconde angoli di grande dolcezza. Visitandola, anche di sfuggita come abbiamo fatto noi, si ha modo di squarciare il velo della società indonesiana e forse capire un pochino meglio questo popolo.

Praga, rapsodia boema

Il Ponte Carlo

Buongiorno Praga, finalmente ci conosciamo! Sei tra le poche grandi e famose città che mi mancano, nella buona vecchia Europa. Mi accogli con un clima relativamente mite, per la fine di gennaio, e un cielo grigiazzurro. Mi piaci da subito, città di libri. Ho letto tanto di te, dei tuoi abitanti, del tuo passato tumultuoso. Viene immediato un paragone con la Praga immaginata: forse le onnipresenti folle di turisti hanno succhiato via un po’ della tua anima? Cuore barocco, Apollinaire ti descrisse come una “nave dorata che naviga maestosamente sulla Moldava”. Dolorosamente bella e malinconica, elegante, costante come le acque brune del fiume che ti attraversa, anche se oggi i trenta santi del Ponte Carlo sono tutti anneriti: forse hanno perso un po’ del loro fascino, hanno bisogno di un restauro o quantomeno di una lustratina. Risplendono solo le effigi di San Giovanni Nepomuceno, protettore delle persone in pericolo di annegamento, e del suo cane, accarezzate in continuazione dai passanti per buona sorte. Narra la leggenda che San Giovanni da Nepomuk non volle rivelare i segreti della regina Giovanna di Baviera, di cui era il confessore: per questo gli fu tagliata la lingua e, messo in un sacco, fu lanciato nella Moldava.

Orientarsi a Praga è molto semplice, perfino per me: la città è divisa in due dal fiume e divisa in distretti, ognuno caratterizzato da uno stile molto riconoscibile. Sulla sponda occidentale si trovano Hradčany con il suo castello, che appollaiato in alto come un nido d’aquila sorveglia silenzioso la città, e le pittoresche vie di Malá Strana, il Piccolo Quartiere. La Città Vecchia e quella Nuova (Staré Město e Nové Město) si estendono invece sulla riva destra della Moldava. La Città Vecchia è intrigante e labirintica come una pagina di Franz Kafka, che qui nacque, visse e scrisse. Il suo rapporto con Praga fu ambivalente – la definì come una matrigna dai cui artigli non si può sfuggire – e complicato dalla duplice condizione di isolamento ed estraneità determinata dal suo essere ebreo e, allo stesso tempo, appartenente alla borghesia di lingua tedesca.

Iniziamo il nostro cammino da Staroměstské náměstí, la piazza della Città Vecchia, che profuma di Pražská šunka, il prosciutto affumicato che arrostisce nei banchetti. È molto bella, anche se purtroppo la sua attrazione principale, l’orologio astronomico, è attualmente in restauro. Accanto si trova Palazzo Kinský, edificio in stile rococò dove Franz Kafka frequentò il ginnasio dal 1893 al 1901. Sulla piazza incombono le guglie nere di Santa Maria di Týn, roccaforte hussita; e proprio qui sorge il memoriale a Jan Hus, pensatore e riformatore religioso boemo condannato per eresia e bruciato sul rogo nel 1415, considerato il precursore della Riforma protestante, essendo vissuto circa un secolo prima di Lutero, Calvino e Zwingli. Viene raffigurato circondato dai suoi seguaci, che furono costretti all’esilio. Ho scoperto che a Jan Hus si deve anche la prima riforma ortografica della lingua ceca: fu lui a introdurre punti ed accenti in luogo delle z (ancora in uso nella scrittura polacca) e le doppie vocali.

Le fiamme ricorreranno funestamente nella storia della città a cinque secoli e mezzo di distanza: nel tardo pomeriggio del 16 gennaio 1969 “Jan Hus di nuovo sul rogo bruciava, all’orizzonte del cielo di Praga…”. Jan Palach era uno studente di filosofia, aveva vent’anni: si versò addosso una tanica di benzina e si diede fuoco sulla scalinata del Museo Nazionale in piazza San Venceslao, per protestare contro l’occupazione sovietica del suo Paese e i carri armati che qualche mese prima avevano represso i moti democratici della Primavera di Praga (di cui quest’anno ricorre il cinquantenario). Nel suo tascapane, che tenne a debita distanza dalle fiamme, furono ritrovati i suoi appunti e quello che suona come un testamento politico:  «Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa». Si firmò «la torcia n.1». Morì per le ustioni riportate, tre giorni dopo il rogo; disse ai medici d’aver preso a modello i monaci buddhisti del Vietnam e in particolare Thích Quảng Đức, che nel 1963 si era dato fuoco a Saigon per protesta contro le politiche di intolleranza religiosa nel Vietnam del Sud. Al funerale di Jan Palach, organizzato dall’associazione degli studenti di Boemia e di Moravia, accorsero oltre 600.000 persone da tutta la Cecoslovacchia. Da un articolo del 1999 di Bernardo Valli su Repubblica, ho appreso che sulla facciata di un teatro in città era stata scritta a grandi lettere una frase di Brecht: “Infelice quel popolo che non ha eroi. Ma infelice quel popolo che ha bisogno di eroi”. Nelle settimane successive almeno altri sette studenti, tra cui l’amico Jan Zajíc, si immolarono come torce umane, ma la censura di regime fece in modo che le loro morti passassero sotto silenzio.

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Piazza San Venceslao (Václavské náměstí), che più che una piazza è un ampio viale in pendenza, rappresenta il simbolo dell’identità ceca e praghese. Qui hanno avuto luogo gli eventi più importanti della storia di Praga: qui il 28 ottobre 1918 venne dichiarata l’indipendenza dall’Impero austro-ungarico, qui il 24 novembre 1989 Václav Havel e Alexander Dubček annunciarono la fine della dittatura comunista in Cecoslovacchia.

Il museo di Storia Nazionale al momento è chiuso, tutto ricoperto da teli e circondato da impalcature: lo stanno ristrutturando, credo che i lavori andranno avanti ancora qualche anno. Il monumento che commemora Jan Palach e Jan Zajíc è poco visibile e un po’ trascurato. Hanno trasferito parte delle collezioni e allestito un museo temporaneo nell’edificio accanto, sempre in piazza San Venceslao. Abbiamo fatto un giro: oltre alla collezione di scienze naturali era in esposizione una mostra su Tomáš Garrigue Masaryk, primo presidente della Cecoslovacchia.

“Corre il dolore bruciando ogni strada e lancia grida ogni muro di Praga…”

A proposito di muri, merita una visita il cosiddetto “muro di John Lennon”. Pare che durante il regime comunista John Lennon fosse un mito per i ragazzi cechi – all’epoca non si poteva ascoltare liberamente la musica occidentale. Qualcuno lo ritrasse su un muro di Malá Strana, accanto all’ambasciata francese, che divenne presto il ritrovo dei giovani dissidenti. La polizia segreta lo imbiancava di giorno, e di notte il muro veniva dipinto di nuovo con scritte a sfondo pacifista e disegni inneggianti alla libertà. Anche dopo la Rivoluzione di Velluto il muro ha continuato a essere un punto di ritrovo e oggi chiunque passa lascia la sua firma e il suo messaggio, non necessariamente profondo. Si è ridotto a un muro scarabocchiato – però ha il suo perché.

Meta favorita per gite di classe e addii al celibato, Praga ha una strana vocazione alla trasgressione: i negozi di souvenir sembrano vendere solo oggetti variamente legati alla cannabis (la Repubblica Ceca è tra gli stati europei che ne consuma di più e la legislazione sulle droghe leggere è abbastanza permissiva) e mignon di assenzio. Credo però che la situazione sia migliorata, rispetto a una decina di anni fa, e comitive troppo sconvolte noi non ne abbiamo incontrate; forse quel tipo di turismo da alcol & night club si è spostato in qualche altra capitale dell’Est Europa.

La cucina praghese è sostanziosa e senza fronzoli, nel migliore stile mitteleuropeo. Il nostro primo pranzo è a base di carne di maiale e gnocchi di patate, che pare siano la specialità nazionale (hanno una consistenza un po’ stopagoss, come si dice a casa mia). La combinazione  arrosto di maiale-gnocchi-crauti va per la maggiore, e viene familiarmente chiamata vepřo-knedlo-zelo. La cena è a base di ginocchio di maiale: come uno stinco, ma più grosso e più grasso. Tutti i pasti sono annaffiati da pilsner fresche e beverine, perché in Repubblica Ceca la birra è un affare importante: è uno dei Paesi che ne consuma di più in assoluto, e il dato non stupisce, dato che costa meno dell’acqua. La prima bionda del mondo è stata creata proprio dai mastri birrai boemi nel 1842: si tratta della Plzeňský Prazdroj, oggi conosciuta con il nome tedesco Pilsner Urquell.

Al ristorante del primo pranzo, al tavolo accanto al nostro, c’era un gruppo di persone tutte truccate e vestite in modo buffo con drappi maculati e piume – una specie di assemblea rumorosa di re e regine della giungla. Continuavano a brindare e bere, brindare e bere; sono usciti dal locale tutti barcollanti con le loro trombe e trombette. Pensavamo fossero musicanti o teatranti un po’ matti in turnè, e invece no: erano alcuni degli oltre 1300 partecipanti al Guggemusik Festival, una parata itinerante di bande di carnevale tipica dei paesi di lingua tedesca. Erano davvero tanti, divisi in gruppetti di 10-30 persone l’uno, dal trucco diverso eppure simile; e suonavano con gran passione tutti gli strumenti possibili, dal triangolo alla grancassa. In mezzo al casino mi è venuto in mente Michail Bachtin: il carnevale come festa del tempo e del divenire, sovversione della gerarchia, liberazione e trasgressione temporanea delle regole, dei tabù. Mentre mi sospingevano verso il Ponte Carlo, ho invidiato quei matti danzanti dalle facce dipinte.

Passato il corteo e scesa la calma, percorriamo il lungofiume verso Nové Mesto, la città nuova, alla ricerca di altri due ballerini: Ginger e Fred, come familiarmente vengono chiamati dai praghesi i due edifici che costituiscono la cosiddetta Casa Danzante (Tančící dům). Si tratta di un’audace architettura moderna, progettata dall’architetto croato Vlado Milunić in cooperazione con il canadese Frank Gehry. Il piano originale prevedeva di farne un centro culturale, ma non fu mai realizzato; ospita oggi un albergo, un ristorante all’ultimo piano da cui si gode una bella vista sulla città, e degli uffici. La costruzione iniziò nel 1994 e terminò nel 1996. Quando fu inaugurata, non a tutti piacque e ci furono delle controversie, ma oggi è uno dei simboli di Praga.

Giusto il tempo di una birra al bar della stazione, un panino di Subway in aeroporto, ed è arrivato il momento di partire. Insomma, ti ho vista un po’ troppo in fretta, Praga. Spero di rivederti presto – magari un fine settimana di fine estate, o magari proprio in primavera, la tua stagione più bella.

Barcellona in primavera

La mia prima volta a Barcellona è stata soleggiata e curiosa. Curiosa come me, alla scoperta di una città che non conoscevo, con qualche preconcetto e gli occhi come sempre spalancati. Tutti amano Barcellona, e tutti la odiano; ha tanti detrattori perché è sporca, è pericolosa, è piena di turisti… il che non mi è sembrato granché vero. I turisti c’erano ed erano anche tanti, ma ancora non era alta stagione, la primavera faceva appena capolino. Non è più sporca né più pericolosa di tante altre grandi città; ecco, magari tenete stretta la borsa sulla leggendaria Rambla, il viale più famoso di Spagna. Che poi è pure, secondo me, la zona meno bella di Barcellona.

Proseguite lungo la Rambla fino al monumento a Colombo, strategicamente posizionato dove inizia il mare. L’esploratore indica col dito l’orizzonte, verso una direzione non molto chiara: non l’America, non Palos, da cui salparono le caravelle, non Genova, la sua città natale. A quanto pare indica l’isola di Mallorca – ma non ho capito bene perché.

Avanti e avanti, lungo il mare, che in questa stagione è chiaro e tranquillo. Buttatevi sulla sinistra ed inoltratevi nella Ribera, un bel quartiere di viuzze e polperie. Spiluccate qualche tapas sorseggiando una birra ghiacciata, bevete un caffè, riprendete il cammino. Fate una passeggiata nel Parc de la Ciutadella: la domenica sembra essere fatta per questo. Un girotondo di bambini e adulti, bonghi e bolle di sapone. Una sosta davanti alla bellissima Cascada Monumental e una di fronte alla glorieta dove nel 1991 fu assassinata la transessuale Sonia Rescalvo Zafra. Dormiva al riparo di questo gazebo, ora dedicato a lei, quando una banda di neonazisti le fracassò il cranio a calci e pugni.

Architettonicamente parlando, Barcellona è caratterizzata da due grandi stili: uno è il gotico medievale, che troviamo nella parte antica della città e in particolare nel suo cuore, che si chiama giustappunto Barri Gòtic. Narra storie di chiese maestose, che a differenza di altre chiese gotiche europee si sviluppano in larghezza più che in altezza; pochi pinnacoli, molti grandi rosoni. Le più belle, oltre alla Cattedrale, sono Santa Maria del Mar e Santa Maria del Pi. L’altro è il modernismo, movimento internazionale che si sviluppò in tutta Europa (con nomi diversi: art nouveau, liberty, Jugendstil) tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, volto a proporre un nuovo linguaggio architettonico, anticlassico, trasgressivo, ornamentale, plastico. Se a Barcellona ebbe una personalità tale da parlare nello specifico di modernismo catalano, il merito fu principalmente di quel matto di Antoni Gaudí, che plasmò la sua visione del mondo in una serie di edifici che ora costituiscono dei veri e propri simboli di Barcellona.

Il modernismo fu strettamente legato al clima di prosperità che si respirava in quegli anni e all’ascesa della borghesia come classe sociale dominante; se oggi le strade di Barcellona sono disseminate di fregi liberty è perché le famiglie ricche ci tenevano a sfoggiare il loro benessere economico e ingaggiavano gli architetti e gli scultori più in voga affinché decorassero gli interni e gli esterni delle loro case. Nacquero così, su commissione, le esuberanti Casa Batlló (1904-1907) e Casa Milà, detta La Pedrera (1906-1912). Entrambe sono state dichiarate dall’Unesco Patrimoni dell’Umanità.

Ma il grande capolavoro di Gaudí è la Sagrada Família, probabilmente tra gli edifici religiosi più strambi al mondo. Il devotissimo Gaudí vi lavorò per oltre quarant’anni, di cui gli ultimi quindici a tempo pieno, finché nel 1926 non morì, investito da un tram. La cattedrale rimase incompiuta, e lo è tuttora; i lavori vanno avanti e non dovrebbero terminare prima di altri dieci anni almeno. Rassegnatevi a gru e ponteggi nelle vostre fotografie; del resto a me fanno simpatia, ricordano la perpetua fabbrica del Duomo. L’emozione che si prova vedendola è molto forte, già da lontano; man mano che ci si avvicina e i particolari acquistano nitidezza, ci si sente sempre più piccolini. È immensa, imponente, sacra: l’architetto di Dio volle fondervi una sublime tensione verso il cielo e una componente terragna e sanguigna, organica, che trasforma gli elementi strutturali in ossa, muscoli e nervi tesi.

Barcellona vive la stessa età di cambiamento di tante città europee che stanno cambiando faccia in questi anni. La famigerata gentrification colpisce anche qua. Si è rifatta il trucco e il porto non è più un luogo malfamato e pericoloso. Nel Barri Gòtic c’è una piazzetta dove ci siamo ritrovati per caso, intitolata allo scrittore George Orwell (Orwell combattè contro Franco durante la guerra civile spagnola e rimase in Spagna dal dicembre 1936 al giugno 1937; nel 1938, quando la guerra era ancora in corso, pubblicò Omaggio alla Catalogna, personale resoconto di quei mesi). La piazzetta è però popolarmente conosciuta dai barcelloneti come Plaza del Tripi: la denominazione mi è stata spiegata con la passata vocazione lisergica di questo angolo di città, anche se ho poi letto che “Tripi” sarebbe il nomignolo con cui è familiarmente chiamata la scultura surrealista che sorge in mezzo alla piazza. Questioni etimologiche a parte, la piazza era famosa in passato per essere un vero postaccio, ritrovo di spacciatori e ubriaconi. Qualche anno fa hanno tirato giù un muretto e messo al suo posto qualche aiuola e dei giochi per bambini: ai botellón si sono sostituiti passeggini e biberon.

Il primo giorno, a pranzo, Clod ci ha portati in una di quelle osterie che sembra stiano per scomparire dalla faccia della Terra. Quelle dove il tempo sembra sospeso; dove l’oste è burbero, ma sornione, come a farti capire che sei un ospite in casa sua e ti devi comportare bene. Dove si beve il vino da una strana brocca col beccuccio lungo lungo, ricordo dei tempi in cui non c’erano le lavastoviglie e invece che dotare ogni commensale di un bicchiere era più funzionale un solo recipiente, da cui tutti potessero bere a turno senza toccarlo con le labbra (anche se, a vederlo, mi sembra ci voglia una certa abilità per bere senza sbrodolarsi). Dove si ritrovano in pausa pranzo gli sciuri del quartiere e gli operai che lavorano al cantiere due strade più in là. Dove si assaggiano a un buon prezzo le specialità catalane del giorno: fave e botifarra, guance di maiale che si sciolgono in bocca, caragols (lumachine), mel i matò.

Di Barcellona mi ha affascinato la sua fierezza culturale e linguistica: il catalano ha quello zic che, filologicamente parlando, mi dà brividi di piacere all’ascolto e alla lettura. Il catalano era la lingua della corte d’Aragona: per questo motivo, nei territori d’Italia che hanno vissuto la dominazione aragonese, ha influenzato vari dialetti e lingue regionali (ed è stato a sua volta influenzato dall’italiano). Oggi è parlato da circa nove milioni di persone, in Spagna (non solo in Catalogna, ma anche nella zona di Valencia e nelle isole Baleari), in Francia (Rossiglione) e in Italia (nella provincia di Alghero, dove si parla un’antica variante orientale con forti influssi dall’italiano e dal sardo). È inoltre l’unica lingua ufficiale di Andorra. A Barcellona, il catalano è cultura e identità: quasi tutti gli abitanti della città sono bilingui e lo parlano correntemente, spesso preferendolo al castigliano; lo troverete nei menu, sui cartelli, sulle targhe di vie e piazze. La politica culturale di Franco fu molto rigida nei confronti delle lingue minoritarie di Spagna (non solo il catalano, ma anche il basco e il galiziano): durante gli anni del regime, quindi dalla fine della guerra civile nel 1939 fino alla morte del dittatore nel 1975, solo il castigliano era riconosciuto come lingua ufficiale e tutti i gli usi pubblici del catalano erano interdetti. Fortunatamente rimase come lingua degli affetti, tra le mura domestiche, e come lingua di resistenza. Una volta caduto il regime, la nuova costituzione del 1978 riconobbe la pluralità linguistica del Paese e stabilì che, in base agli statuti di autonomia, le lingue spagnole diverse dal castigliano potessero diventare lingue ufficiali. La Catalogna, di cui Barcellona è capoluogo, riconosce quindi il catalano come lingua ufficiale accanto al castigliano, e ne promuove lo studio nelle scuole e nelle università.

Di Barcellona mi sono piaciuti i mercati colorati della Bouqueria e di Sant Antoni, le piramidi di frutta e i prosciutti  appesi. I bouquet di salumi e formaggi, l’umanità varia, i patii alberati e fioriti, il rumore dell’acqua che sprizza dalle fontane, l’elegante cattedrale e tutta la Ciudat Vella, l’incantevole Plaça del Pi con l’omonima chiesa, i tavolini all’aperto, i mandaranci, le palme, i pini marittimi. L’urbanistica ariosa dell’Eixample, la collina del Montjuïc e la Fundació Joan Miró, la corsa in teleferica, il pesce fresco scelto a vista e grigliato sul momento. Le mattine che iniziano con caffè, spremuta e toast al tavolino di un bar, le hamburgueserías un po’ hipster del Poble Sec, i ragazzini che sfrecciano sui pattini, le vie strette del Raval che brulicano di vita, donne e uomini affaccendati e rumorosi, incontri, incroci, lingue e culture diverse. Mi piacciono le città grandi e incasinate, mi piacciono il mare e l’aria che sa di salsedine. Ho ascoltato il tuo canto e annusato il tuo profumo, Barcellona, mi hanno subito riempito d’amore per te.

Una gita a Neuschwanstein

Sull’ultima propaggine delle Alpi si innalza un castello bianco e turrito, che pare uscito da una favola. Si tratta del castello di Neuschwanstein, costruito tra il 1869 e il 1892 per volere del re Ludovico II di Baviera. Purtroppo per lui, vi visse solo per pochi mesi e non riuscì neanche a vederlo completato, dato che morì in circostanze misteriose nel 1886. L’impatto visivo con il castello è fortissimo, spicca come un cristallo luminoso contro l’ombra nera della montagna. L’abbiamo visto con il sole e la neve, in una di quelle giornate terse e gelide che ghiacciano il fiato. Stava lassù, abbarbicato su una punta rocciosa, elegante e indifferente. Distante eppure familiare, poiché fa parte del nostro immaginario da sempre, dall’epoca dei puzzle complicatissimi che non riuscivamo mai a completare e delle sigle di apertura dei film d’animazione Disney. Le sue forme sono infatti quelle che hanno ispirato i castelli di Biancaneve, Cenerentola, la bella addormentata nel bosco; piccole fortezze à la Neuschwanstein sorgono nelle Disneyland di tutto mondo. Questo è l’originale e tuttavia una riproduzione a sua volta: un cliché di Medioevo ricreato sul cucuzzolo di una montagna da un re matto, il rifugio di un uomo solitario e sognatore.

Ludovico II di Wittelsbach, figlio di Massimiliano II di Baviera e Maria Federica di Prussia, fu re di Baviera dal 1864 al 1886, anno in cui fu dichiarato pazzo e deposto. Aveva solo diciotto anni quando divenne re, e venti quando, con la disfatta austriaca e bavarese contro la Prussia nella guerra tedesca del 1866, vide definitivamente svanire il sogno della monarchia assoluta. Fu probabilmente in seguito a questo episodio che Ludovico iniziò la sua costruzione mentale di un mondo parallelo, fantastico, su cui poter regnare, re incontrastato delle vallate, degli alberi, delle cime innevate, dei laghi splendenti. L’idea di Neuschwanstein si sviluppa proprio in questi anni: il luogo prescelto per innalzare il suo castello fatato è Schwangau, sulle Alpi, a poca distanza dal castello paterno di Hohenschwangau, dove Ludovico aveva trascorso gran parte della sua giovinezza. Lo volle chiamare Neue Burg Hohenschwangau, Nuovo Castello di Hohenschwangau (la denominazione Neuschwanstein è postuma).

Il progetto di Neuschwanstein è maestoso ed eccentrico: prende ispirazione dalla fortezza di Wartburg in Turingia, e più in generale dalle illustrazioni libresche di castelli medievali. I bozzetti, che replicano nel dettaglio i desiderata del re, furono disegnati scenografo teatrale Christian Jank, mentre gli architetti incaricati di concretizzarli furono in successione Eduard Riedel, Georg Dollmann e Julius Hofmann. Il progetto architettonico fu modificato in corso d’opera: in parallelo alla crescente ritrosia del re per ogni contatto umano, vennero meno le stanze degli ospiti e gli spazi di rappresentanza, lo Scrittoio si trasformò in una piccola grotta artificiale con tanto di stalattiti e stalagmiti, che veniva illuminata con luci colorate. Sbirciando il piccolo giardino d’inverno, immagino il re in silenziosa contemplazione delle sue montagne, mentre nella sua testa rimbombano le potenti musiche wagneriane, che evocano storie di anime a lui affini.

Lo stile è eclettico e unisce ad elementi romanici e neogotici le più moderne tecnologie dell’epoca di Ludovico: acqua corrente in ogni piano, un complesso sistema di campanelli elettrici per la servitù, montacarichi per i pasti, apparecchi telefonici, riscaldamento ad aria calda.

Lungo il percorso che si snoda tra il terzo e il quarto piano del castello il visitatore ha modo di inoltrarsi nel mondo ideale a cui aspirava Ludovico: un universo popolato dai personaggi delle saghe cavalleresche medievali, dalle quali aveva attinto Richard Wagner per i suoi drammi musicali. Il re era uno sfrenato ammiratore di Wagner, che sostenne come mecenate per tutta la vita, e proprio a lui dedicò il castello di Neuschwanstein. I cicli pittorici che lo decorano sono infatti ispirati alle sue opere, che tematizzano storie di amore, colpa e redenzione. Spiccano le figure di Tannhäuser il trovatore, il cavaliere del cigno Lohengrin e suo padre Parsifal, il re del Santo Graal; in loro Ludovico si immedesimava e alla purezza dei loro animi tendeva. Il tema della purezza viene ripreso nella figura del cigno, già animale araldico dei conti di Schwangau, e simbolo cristiano. Lo ritroviamo nel castello in diverse forme: come stemma dipinto, intagliato, vaso in ceramica, rubinetto, elegantemente intessuto nei cuscini e nelle tappezzerie in seta blu, e nello stesso nome Neuschwanstein (Schwan significa cigno in tedesco).

Le prime pitture murali che si incontrano nel salone d’ingresso inferiore raffigurano scene della saga di Sigurd, tratta dal ciclo epico nordico Edda, il Sigfrido della Canzone dei Nibelunghi nella letteratura medio-alto tedesca. Si entra poi nella sontuosa Sala del Trono, che ricorda una chiesa bizantina. Le suggestioni sono molteplici: una cupola stellata, Cristo, San Giorgio che combatte col drago, i dodici apostoli e i sei re canonizzati. Un massiccio candelabro, ori, colonne di un blu intenso, un mosaico sul pavimento che raffigura la terra con le sue piante e i suoi animali. La sacralità di questo luogo illustra la concezione del potere secondo Ludovico, che si sentiva re per grazia divina, investito di una missione salvifica. Manca il trono, che alla morte del re non era ancora stato realizzato.

Passata la sala da pranzo si raggiunge la camera da letto, decorata dalle vicende di Tristano e Isotta. È cupa, vagamente lugubre; colpiscono l’elaborato baldacchino del letto, intagliato con perizia da quattordici maestri ebanisti, e gli arredi sontuosi. Soliti cigni qua e là: addirittura nel servizio da toilette in forma di brocca, contenitore per la spugna e portasapone. Qui fu sorpreso e arrestato Ludovico, la notte in cui subì l’interdizione.

Attraverso il guardaroba si giunge al salone, il cui ciclo pittorico rappresenta la saga di Lohengrin, il cavaliere del cigno. Ludovico conosceva già dall’infanzia la sua saga, grazie alle pitture murali presenti nel castello paterno di Hohenschwangau. Quando nel 1861 vide il Lohengrin di Wagner all’Opera di Corte di Monaco, ne rimase folgorato: in lui vedeva se stesso, principe romantico.

Superando l’insolita grotta e il giardino d’inverno si raggiunge lo studio, in cui è rappresentata la saga del trovatore Tannhäuser e la gara dei cantori della Wartburg. Si tratta di una leggendaria tenzone poetica avvenuta intorno al 1205 alla corte di Ermanno di Turingia, tematizzata poi nell’omonima opera di Wagner. L’ultima, grandiosa sala è proprio quella dei cantori, che combina due stanze storiche della fortezza di Wartburg: il salone delle feste e il salone dei cantori – dove, secondo la leggenda, si era esibito Tannhäuser. Qua a Neuschwanstein, però, il tema figurativo è un altro: si narra infatti la saga di Parsifal, che grazie alla purezza e alla fede diventa il re del Santo Graal. In questa grande sala, illuminata da più di seicento candele, non ebbero mai luogo feste o concerti finché il re fu in vita. Voleva essere altro: un monumento alle arti, alla musica, alla letteratura. All’amore cavalleresco medievale e ai suoi eroi tormentati e redenti.

Il sempre maggiore disinteresse per le vicende politiche e le spese pazze che Ludovico aveva sostenuto per costruire i suoi castelli portarono il governo a una decisione estrema: il 10 giugno del 1886 il re fu dichiarato pazzo e incapace di governare. La mattina del 12 andarono a prenderlo a Neuschwanstein e lo trasferirono con la forza al castello di Berg, nei pressi di Monaco. Il pomeriggio seguente il re chiese di poter fare una passeggiata con il dottor Bernhard von Gudden, lo psichiatra che aveva firmato la dichiarazione di follia, senza aver nemmeno visitato il re presunto matto. I due uomini non fecero mai ritorno: i loro corpi annegati furono ritrovati in serata nelle acque nere del lago di Starnberg. La morte prematura di Ludovico rimane a oggi un fatto misterioso, sul quale circolano varie teorie. Fu ufficialmente classificata come annegamento, ma il re era un buon nuotatore; altri parlano di un’aggressione, altri ancora di un malore. Alcune leggende raccontano che sia stato sbranato da un licantropo e che il dottor Gudden fosse in realtà il suo amante. Fantasie a parte, molti storici concordano sul fatto che il re non fosse davvero matto, ma semplicemente vittima di un intrigo politico.

Certo è che la figura enigmatica di re Ludovico sprigiona ancora una forza oscura e magnetica. Scrisse un giorno alla sua precettrice che voleva “rimanere un eterno mistero” per se stesso e per gli altri; Verlaine lo definì l’unico vero re del suo secolo. Fu generalmente benvoluto dai suoi sudditi, dato che per tutta la vita cercò di seguire una politica di riconciliazione tra gli stati tedeschi, evitando conflitti armati e garantendo alla Baviera un lungo periodo di pace, e per il suo mecenatismo. I bavaresi lo ricordano tuttora con grande affetto e il titolo “Unser Kini”, il nostro re.

La sua storia si intreccia anche con quella della Principessa Sissi, sua cugina, che diventò poi Imperatrice d’Austria. Erano entrambi amanti della natura e delle arti, e si scambiavano versi come questo “A te, aquila della montagna/Ospite delle nevi eterne/Un pensiero del gabbiano/Re delle onde frementi“. Lei gabbiano lui aquila, in volo sopra le meschinità e i giochi di corte. Fu anche fidanzato per un certo periodo con la Principessa Sofia, sorella minore di Sissi, ma dopo aver rimandato più volte il matrimonio Ludovico ruppe il fidanzamento; non si sposò mai e non lasciò eredi.

La sua eredità è d’altro tipo: lo strambo sovrano ha lasciato ai posteri luoghi magici, geografia e architettura di un mondo ideale, ispirato a quello romantico e cavalleresco delle saghe medievali. Non solo Neuschwanstein, ma anche il castello di Linderhof, la casa reale sullo Schachen, il castello nuovo Herrenchiemsee (che, nelle intenzioni del re, voleva essere una piccola Versailles bavarese), il convento dei canonici agostiniani Herrenchiemsee.

Il castello di Neuschwanstein fu aperto ai visitatori solo sette settimane dopo la sua morte: un oltraggio impensabile per re Ludovico, che lo aveva concepito come un luogo di solitudine e aveva ordinato al custode di impedire l’accesso ai curiosi nel caso avesse fatto una brutta fine. Ironicamente, questo e gli altri stravaganti e fiabeschi castelli da lui voluti, che gli attirarono critiche per i costi spropositati, costituiscono oggi alcuni tra i monumenti più visitati e redditizi di Baviera e della Germania intera.

Info utili

Neuschwanstein è una delle attrazioni turistiche più visitate di Germania e di tutta Europa, quindi conviene organizzare bene la visita. Il castello si trova nei pressi del paese di Schwangau e a sei chilometri dalla città di Füssen, comodamente raggiungibile in autobus. Punto di partenza per raggiungere il castello è la località di Hohenschwangau, dove si trovano anche dei parcheggi a pagamento.

I biglietti si acquistano presso il Ticket Center ai piedi del castello. A gennaio 2017 il biglietto costava 13 euro a castello (è possibile visitare anche l’altro castello, Schloss Hohenschwangau. Noi non l’abbiamo visitato per mancanza di tempo, quindi purtroppo non posso dare molte indicazioni a riguardo). L’albergo dove soggiornavamo dava la possibilità di acquistare i biglietti con un supplemento di 1.80 euro per la prenotazione: se anche il vostro  offre questo servizio approfittatene, perché le code al Ticket Center sono lunghissime fin dal primo mattino e avere già il biglietto in mano vi farà risparmiare un sacco di tempo. È anche possibile prenotare i biglietti online con sovrapprezzo fino a due giorni prima della visita, ma andranno poi in ogni caso ritirati al Ticket Center.

Il castello si raggiunge con una passeggiata in salita di circa trenta-quaranta minuti. In teoria c’è anche un bus navetta, ma quando siamo andati noi il servizio era soppresso a causa della neve, quindi non fateci troppo affidamento (in generale viene sospeso in caso di condizioni atmosferiche avverse, dato che la strada è sterrata e piuttosto ripida). Un’altra opzione per salire è in carrozza, trainata da bei cavalli neri e massicci; però la fila per accaparrarsene una è sempre lunga. Per chi non ha particolari problemi motori la passeggiata è sicuramente la soluzione migliore.

La gestione dei turisti a Neuschwanstein è un ingranaggio ben oliato: a ogni visitatore è assegnato un orario e un numero e bisogna presentarsi ai tornelli di ingresso all’orario stabilito. Si entra a scaglioni ogni cinque minuti di orologio: siate puntualissimi perché se perdete il turno di entrata il biglietto non sarà più valido! Si può scegliere la visita guidata in inglese o in tedesco, oppure con audioguida. Se optate per quest’ultima, non appena entrati vi sarà consegnata una audioguida nella lingua prescelta e una guida vi accompagnerà di sala in sala segnalandovi il momento in cui l’audioguida riprende il racconto. La visita dura circa 30 minuti e il ritmo è molto serrato: purtroppo è l’unico modo di visitare il maniero e gestire il flusso continuo dei turisti. Non è consentito fare foto o video all’interno del castello. Se volete acquistare dei souvenir, sappiate che ci sono due shop, il primo che si incontra è quello con il merchandising ufficiale ed è più caro.

Chi non vuole o non riesce ad acquistare i biglietti può comunque passeggiare liberamente nei boschi intorno al castello e fare delle belle foto dai vari punti panoramici. Il più famoso è il Marienbrücke (Ponte di Maria: Massimiliano II l’aveva costruito per la consorte Maria, amante delle escursioni in montagna), che però è preso d’assalto dai turisti. È un ponticello dall’aspetto abbastanza instabile situato sopra una gola, sconsigliato a chi soffre di vertigini 🙂 Quando siamo andati noi il sentiero per raggiungerlo (circa venti minuti a piedi dal castello) era sbarrato a causa della molta neve caduta la notte prima, ma tutti (TUTTI, e per una volta mi ha fatto piacere constatare che l’indisciplina non fosse solo italica…) scavalcavano ugualmente la barriera per raggiungere questo angolino, da cui effettivamente si gode di una vista pazzesca sul lato lungo del castello.

Una gita in Liechtenstein

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Il minuscolo Principato del Liechtenstein, incastonato tra Svizzera e Austria, vanta alcuni curiosi primati: ad esempio, è il più grande produttore mondiale di denti finti ed è uno dei due stati al mondo (l’altro è l’Uzbekistan) doppiamente senza sbocchi sul mare; ovvero, è privo di sbocchi sul mare e confina solo con nazioni che ne sono a loro volta prive. Nella classifica della piccolezza, con i suoi 160 chilometri quadrati, si piazza al sesto posto nel mondo e al quarto in Europa. Altri primati sono di natura finanziaria: nel Paese ci sono più società registrate che abitanti e il suo popolo gode di un reddito pro capite tra i più alti al mondo. Questa ricchezza ruota in gran parte intorno a un sistema bancario fondato su tassazioni favorevoli e rigida segretezza, anche se negli ultimi anni è stata introdotta una normativa improntata alla trasparenza in materia finanziaria e fiscale che ha parzialmente scardinato l’immagine del Principato come un luogo di loschi traffici e riciclaggio internazionale.

La formazione moderna del Fürstentum Liechtenstein (Principato di Liechtenstein) risale al 1719, quando Carlo VI d’Asburgo decretò l’unione tra Vaduz e Schellenberg come stato appartenente al Sacro Romano Impero. In realtà i suoi Principi risiedevano a Vienna, e non misero piede nelle loro terre per oltre 120 anni. Con la dissoluzione dell’Impero nel 1806 il Principato divenne parte della Confederazione del Reno: caduti gli obblighi nei confronti dell’Austria, si fa risalire a questo periodo la sovranità indipendente del Liechtenstein, anche se formalmente i Principi non erano altro che dei vassalli di Napoleone; caduto anche Napoleone il Liechtenstein aderì alla Confederazione Tedesca (1815-1866), presieduta dall’Imperatore d’Austria. Fu sempre molto legato all’Impero Austriaco prima e all’Impero Austro-Ungarico poi, fino alla fine della prima guerra mondiale, che lasciò il Principato in condizioni economiche disastrose.

Si legò quindi alla Svizzera, e il primo dopoguerra fu caratterizzato allo stesso tempo da un pesante indebitamento e da un’euforia finanziaria che pose le basi per il riaccumulo delle ricchezze perdute. Durante la seconda guerra mondiale il Liechtenstein si dichiarò neutrale e superò il periodo relativamente indenne, eccetto alcune perdite extraterritoriali: alla fine della guerra la Cecoslovacchia si impossessò di alcuni territori in Boemia, Moravia e Slesia che appartenevano alla famiglia reale del Liechtenstein; la questione non è mai stata veramente chiusa e le relazioni diplomatiche con la Repubblica Ceca e la Repubblica Slovacca sono state ricucite solamente nel 2009.

Il secondo dopoguerra fu segnato da abili mosse economiche e finanziarie, che aprirono il Liechtenstein agli investimenti e ai capitali esteri fino a renderlo negli anni uno dei Paesi più ricchi al mondo. Mantiene oggi strettissimi legami doganali e monetari con la vicina Svizzera, con cui condivide la moneta, il franco svizzero (ma anche l’euro è largamente accettato). La Svizzera rappresenta inoltre il Liechtenstein nei Paesi in cui esso non ha rappresentanza diplomatica e consolare.

Oggi il Liechtenstein è uno dei Paesi col più basso tasso di criminalità al mondo: le sue prigioni hanno pochissimi ospiti e i detenuti che devono scontare una pena superiore ai due anni vengono trasferiti in Austria. È anche uno dei pochi Paesi senza un esercito, il quale fu smantellato poco dopo la guerra austro-prussiana del 1866. In quella occasione il Principato inviò una truppa di 80 uomini, che però non fu coinvolta in nessun combattimento. Si racconta che tornarono in 81, la truppa al gran completo, tutti sani e salvi, insieme a un nuovo amico austriaco che avevano incontrato sulla via del ritorno! Un altro buffo aneddoto militaresco risale al 2007, quando 170 soldati svizzeri in addestramento sconfinarono per sbaglio di un chilometro e mezzo in territorio liechtensteiniano. L’accidentale invasione si concluse non appena il comandante si accorse dell’errore e fece marcia indietro; fu poi lo stesso esercito svizzero a informare il Liechtenstein dell’invasione e a porgere scuse ufficiali – quelli del Principato non si erano neanche accorti dell’accaduto…

Il Liechtenstein è una monarchia costituzionale guidata dal Principe Giovanni Adamo II, anche se la reggenza è affidata de facto dal 2004 al figlio, il Principe Luigi. I monarchi sono molto benvoluti dai sudditi, i quali secondo la costituzione potrebbero in qualsiasi momento, con un referendum, deporre i principi e instaurare la repubblica (le municipalità godono addirittura del diritto di secessione). Pare sia facile incontrare i reali per le stradine di Vaduz o sulle piste da sci, ed è consolidata usanza che, in occasione della festa nazionale, il 15 agosto, invitino i sudditi a bere una birra con loro al castello di Vaduz, dove risiedono.

A proposito di birra. Il Liechtenstein non ha un aeroporto, ma una birra propria sì, anzi due: una è l’acquosa Liechtensteiner, che si beve nei bar di Vaduz alla modica cifra di sette franchi svizzeri, l’altra è prodotta dal microbirrificio PrinzenBräu.

La capitale del Paese, con circa 5.400 abitanti, è Vaduz; mentre la città più popolosa è Schaan, che supera Vaduz di circa cinquecento anime. La popolazione totale ammonta a 37.623 abitanti (dato del dicembre 2015), composta per un terzo da stranieri. Moltissimi tra loro sono giuristi: il Liechtenstein vanta infatti il più alto tasso europeo di avvocati, 6 ogni mille abitanti (l’Italia si classifica al terzo posto dopo la Spagna). La lingua ufficiale è il tedesco, ma quella più parlata è un dialetto alemanno, vicino allo svizzero tedesco e ai dialetti del Voralberg austriaco. La meravigliosa parola per indicare il Paese in questo dialetto è Liachtaschta.

Va da sè che Vaduz stessa è minuscola, e sinceramente non offre grandi attrattive. Anche nei giorni di festa non c’è grande movimento in città e in orario serale, almeno durante la stagione invernale, sarà difficile persino avvistare dei liechtensteinesi a passeggio. L’impressione che ne abbiamo avuto è di una città un po’ tristanzuola, senza un centro storico particolarmente caratteristico (a eccezione della cupa cattedrale neogotica di San Florino). Forse siamo stati un po’ sfortunati, dato che praticamente tutti i musei, i bar e i ristoranti di Vaduz erano chiusi il giorno che l’abbiamo visitata; ma anche la signora con i capelli verdi all’ufficio turistico (che, tra l’altro, si trova nell’esatto centro geografico del Paese) ci ha confermato che due ore sarebbero state sufficienti per visitarla. A dire il vero ha fatto anche uno strano sbuffo, che abbiamo interpretato come un uff! due ore sono fin troppe! Se capitate in un giorno più vivace, pare siano degni di una visita il Kunstmuseum Liechtenstein, il museo di arte moderna e contemporanea, e il Museo Postale, che ripercorre la storia filatelica del Paese.

L’attrazione principale di Vaduz è il suo castello, che purtroppo non si può visitare in quanto residenza della famiglia reale. Dalle vicinanze di questo bel maniero abbarbicato sulla montagna a poca distanza dal centro città si gode però di una notevole vista su Vaduz e la sua valle, mentre alle sue spalle si estendono boschi per i quali è un piacere passeggiare. In effetti le attrattive maggiori del Principato sono quelle naturalistiche, accoccolato com’è in una conca alpina, verdissima d’estate e imbiancata dalla neve in inverno.

Che strano Paese. Piccolo, schivo, benestante, un po’ noioso: tuttavia sono felice di esserci passata, più per curiosità che per altro, e di aver visto un nuovo angolino di Europa e di mondo.

Due giorni a Kuala Lumpur

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Street art, Kuala Lumpur

Lo sgangherato pulmino raggiunge la grigia periferia di Kuala Lumpur sotto la pioggia battente e fulminea delle quattro del pomeriggio. Vediamo le famose torri in lontananza e tutti i turisti si affacciano dai finestrini per fotografarle, ma le punte sono immerse nella foschia e subito scompaiono dietro ad altri grattacieli. Quando il pulmino ci lascia nei pressi di un albergo a Chinatown ha appena smesso di piovere: la cappa si ricompone mischiandosi con i fumi densi che salgono dalle griglie e dai pentoloni che ribollono in strada, il fetore dei frutti di durian spappolati sui marciapiedi ci pizzica il naso. Schiviamo le pozze di acqua sporca inebriati dalle puzze di questa città confusionaria, che sa di Asia e petroldollari; il cui nome ho poi scoperto significare, in modo piuttosto appropriato, confluenza fangosa.

Dato che mancano ancora un paio d’ore al nostro appuntamento con Leonard usciamo di soppiatto dal quartiere e ci avviamo verso Bukit Nanas, la collina dove sorge l’altissima torre della televisione, chiamata Menara KL in malese e KL Tower in inglese. La strada è lunga e le nostre schiene sudano sotto il peso degli zaini, ma vogliamo guardare la città dall’alto. Arriviamo ai piedi della collina e boccheggianti iniziamo l’ascesa, finché gradino dopo gradino raggiungiamo la base della torre. Dopo tutta questa fatica ci aspetta una piccola delusione: il biglietto per salire in cima alla torre costa uno sproposito, e rinunciamo.

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Menara KL

Tanto si è fatto tardi e dobbiamo raggiungere Leonard, che ci ospiterà questa e la prossima notte. Abita dalle parti dell’Università, dove lavora come ricercatore nel campo delle fibre ottiche. Prendiamo la metro e poi un taxi – il colto tassista indiano ci coinvolge in un pericolosissimo discorso sulle religioni, sostenendo la presenza di Gesù nel pantheon delle divinità induiste e raccontandoci di un santone del suo paese sopravvissuto sette anni senza mangiare né bere. Non appena comincia a parlare del papa, sviamo il discorso sul calcio, che è sempre un ottimo argomento di conversazione; ovviamente il tassista ne sa più di me e comincia a elencare tutti i bomber dell’Inter che fu.

Ed ecco che la corsa finisce, di fronte a un complesso residenziale fatto di grattacieli altissimi. Superiamo la guardiola blindata con qualche diffidenza da parte dei portinai e decifriamo l’indirizzo del nostro ospite, zeppo di numeri e sigle; finalmente giungiamo a destinazione. Campanello, saluti e presentazioni – scopriamo che Leonard condivide l’appartamento con un gatto a cui piace pencolare dal davanzale e un misterioso inquilino che non esce mai dalla sua camera da letto. Abbandoniamo gli zaini alla mercé del gatto dalle tendenze suicide e usciamo a mangiare qualcosa in fondo alla strada in un ristorante all’aperto dove Leonard è cliente abituale. Mangiare fuori in Malesia è talmente economico che lui non cucina mai. Parlotta con la sua amica cameriera, che poco dopo ci riempie il tavolo di specialità malesi, ed è tutto buonissimo. La serata passa veloce tra chiacchiere annaffiate da bicchieroni di tè freddo al lime; finché ai primi sbadigli decidiamo di rientrare verso casa. Siamo all’ultimo piano del palazzo e la vista dal balcone è bella da mozzare il fiato: davanti a noi le mille luci dei grattacieli di KL e una luna lattiginosa che ci dà la buonanotte.

La mattina dopo ci svegliamo presto, perché abbiamo un solo giorno da passare a Kuala Lumpur e vogliamo fare tantissime cose – alcune le faremo, altre no. Stretti nell’autobus con le studentesse in divisa ci dirigiamo verso la stazione di KL Sentral, da dove prendiamo il trenino per le famose Batu Caves. Si tratta di un complesso di templi innalzati all’interno di incredibili grotte calcaree, adibite a luogo di culto induista a partire dal 1890 circa. Domina la scena l’enorme statua dorata di Lord Murugan, dio guerriero: con i suoi 42 metri, è la più alta statua al mondo a lui dedicata. Credevo fosse più antica, ma è stata edificata solo nel 2006. Fanno compagnia al dio decine e decine di scimmiette fameliche, che sorvegliano le folle di fedeli e turisti lungo la ripida scalinata e fin dentro le grotte. La maggior parte della colonia è tranquilla, ma assistiamo a un paio di agguati a tradimento, quindi meglio starne alla larga. In ogni caso la salita è molto suggestiva e, una volta raggiunte le grotte, si rimane incantati dalla magnificenza del luogo e dalla sua spiritualità – solo leggermente incrinata dalle urla belluine delle scimmie che attaccano i bambini e dai banchetti di souvenir che vendono riproduzioni in tutte le taglie della statua d’oro e carillon musicali dai colori fluo raffiguranti le varie divinità induiste. A causa della sempre maggiore affluenza (che raggiunge il suo apice durante la festa del Thaipusam in gennaio) hanno deciso di allargare la scalinata e al momento ci sono i lavori in corso, a cui tutti possono contribuire, portando per un pezzo o fino in cima un secchiello pieno di sabbia. I muratori ringraziano e speriamo che anche Lord Murugan apprezzi il gesto!

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Batu Caves

Poco sotto le grotte sacre si trovano delle altre caverne, denominate Dark Caves. Sono di tutt’altro tipo: l’esperienza non è mistica, ma speleologica. Muniti di caschetti e torce da testa ci inoltriamo nel buio alla scoperta di un affascinante ecosistema che ruota intorno alla cacca di pipistrello (il cosiddetto guano). La visita si snoda lungo un percorso che attraversa cinque ambienti diversi e si conclude in una spettacolare camera, attraversata da raggi di luce verticale che sbucano da una fessura sul cielo, a decine di metri di altezza. Il sito è protetto dalla Malaysian Nature Society e le visite sono guidate da ragazzi del luogo appassionati e competenti, molti dei quali sono studenti di geologia e scienze naturali: è una esperienza istruttiva e interessante. La caverna ospita una antica comunità di animali, vecchia oltre cento milioni di anni; tra le molte creature misteriose che si nascondono tra i suoi anfratti c’è il rarissimo ragno endemico Liphistius batuensis. Tra pinnacoli, colonne di pietra e incredibili formazioni calcaree, si fa esperienza del buio più buio – un’oscurità densa, il cui silenzio è interrotto solo dallo sgocciolio regolare dell’acqua che cola dalle stalattiti.

***

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Riprendiamo il trenino e ci catapultiamo per la seconda volta nel cuore pulsante di Kuala Lumpur, Chinatown. Il quartiere è un superbo esempio del calderone malese di religioni e culture: qua si possono trovare nella stessa via, l’uno di fronte all’altro, un tempio cinese e un tempio indù. Il primo è il Kuan Ti Temple, un piccolo santuario cinese affollato di fedeli che pregano e porgono agli dei offerte rituali. Il secondo è lo Sri Mahamariamman Temple, edificato nel 1873 dagli immigrati Tamil giunti a Kuala Lumpur per lavorare nelle piantagioni di caucciù e palma da olio o costruire la ferrovia. È colorato e inghirlandato: i cornicioni della scintillante torre d’ingresso traboccano di idoli danzanti, all’interno sono riprodotte scene del Ramayana. Da qua, durante la sanguinolenta festività indù del Thaipusam, parte il carro d’oro che  sfila per le vie della città trasportando l’effige del dio Murugan fino alle grotte di Batu.

Siamo a caccia di souvenir in Jalan Petaling quando ci sorprende il temporale. Ci rifugiamo nel ristorante cinese col tendone dall’aspetto più resistente, sperando che regga i metri cubi d’acqua che lo stanno riempiendo. Dalla nostra postazione guardiamo i venditori, per nulla turbati, attrezzarsi per proteggere la loro mercanzia; la gente corre nelle due direzioni cercando di sfuggire alla pioggia violenta, i turisti tedeschi estraggono dai marsupi provvidenziali impermeabili usa e getta di plastica colorata. Ne approfittiamo per fare merenda con involtini primavera e anatra laccata, aspettando che spiova.

Potremmo aspettare per ore, quindi a un certo punto decidiamo di affrontare il diluvio e ci mettiamo a correre sciacquettando nelle pozze. Ovviamente smette di piovere non appena raggiungiamo la nostra destinazione, la vecchia stazione ferroviaria, collegata alla fermata della KTM. Dalle vetrate della stazione vediamo i tozzi minareti rosa e le cupole a cipolla della Masjid Jamek, una delle più belle moschee di Kuala Lumpur. Fu innalzata proprio nel bel mezzo dell’antica confluenza fangosa tra i fiumi Klang e Gombak, dove a metà Ottocento i primi cercatori di stagno avevano  costruito le loro capanne. Sia la moschea che la stazione portano l’impronta di Arthur Benison Hubback, l’architetto di Liverpool che le progettò misturando lo stile islamico dell’India settentrionale alle influenze coloniali britanniche. Salutiamo il cielo che si squarcia, mentre scendiamo nella pancia di KL.

L’ultimo sole della giornata l’abbiamo lasciato per loro, le imponenti torri Petronas. Innalzate tra il 1995 e il 1998, hanno detenuto il primato degli edifici più alti del mondo fino al 2004. Usciamo dalla metropolitana e ci si parano davanti, le accompagniamo con lo sguardo e sembra che non finiscano più. Per avere la vista migliore bisogna allontanarsi un po’ e raggiungere il piazzale antistante, dove un furbo ometto vende delle lenti curve da posizionare sopra il cellulare per scattare foto dall’effetto occhio di pesce e inquadrare così le torri in tutta la loro grandiosità. Vedi persone che saltano, si piegano, si accovacciano alla ricerca della foto ricordo perfetta – lo schermo del telefonino è piccolo e le torri non ci stanno tutte dentro. Anche noi veniamo colti dal raptus e cominciamo a scattare, scattare, mentre i colori mutano, la luce si affievolisce e il cielo da grigio si fa prima blu e poi nero. Man mano che i minuti passano le torri gemelle dalla base a otto punte (che è al tempo stesso un riferimento all’architettura islamica e di buon auspicio secondo la numerologia cinese) sono sempre più spettacolari e ipnotiche, soprattutto quando alle luci del giorno si sostituiscono le gialle luci elettriche, che contrastano lo scuro della sera. Potremmo stare a fissarle per ore – purtroppo o per fortuna, siamo di nuovo in ritardo per il nostro appuntamento.

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Petronas Towers

Leonard ci aspetta al tavolo di un ristorante indiano a Bangsar, un quartiere appena fuori dal centro di KL dove si concentrano una miriade di locali più o meno alla moda. Al posto dei piatti delle larghe foglie di banano, sulle quali un anziano cameriere baffuto posiziona con grazia badilate di curry di granchio e varie poltiglie di colori diversi. Il curry è buono e piccante, da mangiarsi rigorosamente con le mani; impacciati facciamo del nostro meglio per perfezionare la tecnica della pallotta (con le cinque dita raccogliere un mucchietto di cibo, col pollice spingerlo delicatamente in bocca).

Parliamo di noi, dei nostri mestieri, dei nostri Paesi: Leonard ci racconta del Borneo, dov’è nato e cresciuto, e della vita a Kuala Lumpur, dov’è arrivato per frequentare l’università. Ci racconta che la Malesia è uno dei Paesi che investe di più nella ricerca scientifica – il suo laboratorio ha appena acquistato attrezzature per decine di migliaia di euro. La scuola riflette la multiculturalità del tessuto sociale malese e le lezioni sono impartite in malese, cinese mandarino e indiano tamil. A causa del lungo periodo coloniale britannico, anche l’inglese è largamente compreso e parlato, e tutti i ragazzini delle scuole private lo usano tra loro come lingua veicolare. Ne esistono una versione ufficiale, il Malaysian English, e il Manglish, un creolo parlato per le strade contaminato da elementi malesi, cinesi e indiani, e dotato di fonetica, lessico e grammatica propri.

A pancia piena usciamo dal ristorante, facciamo lo slalom tra ragazzini chini sui loro cellulari a giocare a Pokémon Go, andiamo a mangiare un gelato (la gelataia ci fa assaggiare il gusto durian, ma come previsto il sapore è orrendo; viriamo sul più sicuro fiordilatte), infine rientriamo alla base su una lussuosa macchina nera – pare che Uber da queste parti vada per la maggiore. A casa ci raggiunge Guillaume, un amico francese di Leonard che insegna matematica a Manila, di passaggio a KL. Ci racconta storie buffe sulle Filippine e dei suoi viaggi. Mi immagino come possa essere la sua vita, in un mondo così lontano e diverso da quello in cui è cresciuto. Incontri e scontri di persone e culture, storie che si intrecciano, confronti fatti di idee, parole ed esperienze: per me, la parte più affascinante di ogni viaggio. Un’altra notte, un’altra alba, e si va… Conservando Kuala Lumpur nel taschino dei ricordi belli.

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A spasso per KL

Singapore Sling

Il panorama dallo Skypark del Marina Bay Sands

Singapore è un’altra idea di Asia: ordinata, rigorosa, pulita. Non c’è nulla fuori posto e la gente si dispone disciplinatamente in fila persino in attesa della metropolitana. A Singapore ti senti un po’ in soggezione, con tutti quei divieti: vietato fumare e gettare la cenere per terra, vietato bere e mangiare sui mezzi pubblici, vietato attraversare la strada al di fuori delle strisce pedonali, vietate le gomme da masticare perché sporcano le strade, vietati gli assembramenti, vietate le effusioni in pubblico, vietato intralciare il passaggio sulle scale mobili (dove si tiene la sinistra). L’impressione è che ci sia un temibile gendarme pronto a sbucare da dietro un angolo per comminare multe salatissime o distribuire scappellotti.

Una cosa che mi ha colpito molto di Singapore è il silenzio irreale: il Financial District alla sera pare il set di un film di fantascienza in cui tutti gli attori di sono allontanati per la pausa caffè. Guardi in su cercando le punte dei grattacieli, e le finestre illuminate si confondono con le stelle. Senti le cicale che ronzano a un volume tale che viene da chiedersi se siano vere o se siano registrazioni diffuse da altoparlanti nascosti. Alla giungla urbana dei grattacieli si contrappone la giungla vera e propria, quella primaria, antichissima, intorno alla quale si è sviluppata la città degli uomini. Siamo ai tropici e la vegetazione è rigogliosa, verdissima, le liane si avviluppano lungo i tronchi slanciati di alberi di cui non conosco il nome, le strade hanno il profumo dei delicati fiori bianchi del frangipane.

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Singapore Botanic Gardens

I lussureggianti Botanic Gardens rappresentano il cuore verde di Singapore. Sono immensi e bellissimi; ospitano una moltitudine di piante e una porzione originale di foresta pluviale tropicale. L’attrazione principale è il National Orchid Garden, che contiene la maggiore collezione di orchidee al mondo – oltre 1000 specie e 2000 ibridi. Nel 2015 i Botanic Gardens di Singapore sono stati inscritti nella lista dei Patrimoni dell’Umanità Unesco; sono gli unici giardini tropicali e il terzo giardino al mondo (insieme all’Orto Botanico di Padova e ai Kew Gardens di Londra) a farne parte. Qui abbiamo pedinato coppie di sposini impegnati in sofisticati servizi fotografici matrimoniali alla ricerca della posa perfetta; inseguito varani enormi; annusato fiori multicolori; osservato perplessi frotte di ragazzini correre appresso ai Pokemon – pare ce ne fossero molti nascosti tra le buganvillee.

Gli altri famosi giardini di Singapore sono i Gardens by the Bay, all’estremità meridionale della città; sono aperti tutti i giorni dalle cinque del mattino alle due di notte e l’ingresso è libero. Qua sorge anche un bosco molto particolare, fatto di alberi che non sono alberi: in tutto 18, di cui 16 raccolti in una zona che si chiama Supertree Grove. Questi super alberi di altezze diverse (tra i 25 e i 50 metri) hanno un’anima di cemento e acciaio e, all’esterno, pannelli viventi di terra e fiori che li ricoprono come un mantello. In tutto, sui loro tronchi si possono contare circa 163.000 piante appartenenti a 200 specie diverse; ogni super albero rappresenta e custodisce un ecosistema autosufficiente e sostenibile. Di notte i super alberi si illuminano sfruttando l’energia del sole che hanno accumulato durante il giorno; tra i loro rami si svolgono giochi ipnotici di luce e colore. Sembra uno di quei documentari sugli abissi marini, dove tutto è nero e le meduse illuminano il buio a intermittenza con luci bianche, viola, blu e verdi. Penso che è bellissimo, futuristico, esagerato; mi sdraio come per vedere le stelle cadenti a San Lorenzo e lo sguardo si perde, le loro chiome esercitano su di me un’attrazione potente e ambigua. Saranno così gli alberi del futuro, quando le foreste vere saranno state tutte disboscate, quando gli alberi di legno e foglie non esisteranno più?

Singapore è multiculturale e multilingue, contiene tanti microcosmi: Chinatown, l’operosa comunità cinese e il culto fetish del dente del Buddha; Little India, le curry house e le donne in sari; Arab Street e i cupoloni della sua moschea; le shop house restaurate e un po’ posticce di Clarke Quay. Il distretto coloniale e il leggendario Raffles Hotel, intitolato a Sir Stamford Raffles, il fondatore di Singapore. Dal suo bar – dove fu inventato il Singapore Sling – passarono  Ernest Hemingway, Somerset Maugham, Herman Hesse e Rudyard Kipling. Sempre qui, pare, fu uccisa nel 1902 l’ultima tigre di Singapore.

Anche se la Singapore di oggi non è più la Singapore britannica di Sir Raffles, gli influssi e l’eredità di quell’Occidente spregiudicato si ritrovano oggi tra i corridoi delle esclusive università  di economia e management, negli uffici delle multinazionali, delle banche, delle società finanziarie; e nei centri commerciali, templi del consumismo globale. Alcuni sono sfacciati e sfarzosi – lusso italiano e francese, diamanti e gioielli, marmi e riflessi dorati. Altri sono più caciaroni e divertenti: come Mustafa, l’enorme mall di Little India perennemente brulicante di avventori, aperto ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette. Vende di tutto, ma la parte migliore  è il suo labirintico supermercato, traboccante di prelibatezze e orrori alimentari provenienti da ogni angolo d’Asia.

Singapore, isola e città-stato, ricorda vagamente la forma di un diamante. In una delle sue punte si trova quello che in pochi anni ne è diventato il simbolo, soppiantando il povero Merlion, una creatura mitologica dalla testa di leone e il corpo di pesce, la cui statua è posta alla foce del fiume Singapore. Peccato perché Merlion era una mascotte simpatica: fu disegnata nel 1964 da un membro del Comitato Souvenir del Singapore Tourism Board (che tuttora ne regola l’utilizzo a fini commerciali) che voleva rappresentare allo stesso tempo le origini marinare della città, quando ancora era un villaggio di pescatori e si chiamava Temasek, città del mare, e il leggendario leone che avrebbe accolto il principe Sang Nila Utama dell’impero Sri Vijaya al suo arrivo nell’undicesimo secolo in quella che avrebbe poi da questo episodio preso il nome di Singapura, ovvero città del leone.

La sua mitografia assume una sfumatura epica in “Ulysses by the Merlion”, ode scritta nel 1979 dall’esimio poeta Edwin Thumboo, il quale innalza la strana bestia a icona nazionale e personificazione di Singapore. Dato che tutti i poeti venuti dopo di lui hanno dovuto fare i conti con questa ingombrante elegia, pare che la letteratura singaporiana contemporanea sia piena di Merlion e anti-Merlion; si ironizza sul fatto che Singapore abbia come simbolo e icona un artificioso souvenir. Leggo inoltre che oggi nello slang locale e addirittura in gergo ospedaliero il termine Merlion viene usato al posto del verbo vomitare, con riferimento alla fontana d’acqua che sgorga costantemente dalla bocca della statua. Povero Merlion!

Come che sia, Merlion ormai non se lo fila più nessuno, dato che è stato messo in ombra dal più appariscente Marina Bay Sands, l’enorme hotel casinò che dal 2010 domina la baia. Forse ce l’avete presente: è un enorme complesso formato da tre grattacieli uniti tra loro da una specie di tavola da surf lunga 340 metri, famosa per la sua infinity pool, una piscina a sfioro con vista sui grattacieli (a uso esclusivo degli ospiti). A meno che non vogliate spendere svariate centinaia di euro per pernottare nell’albergo, un modo alternativo per salire in cima è bere qualcosa in uno dei bar dello Skypark – noi abbiamo preso due Asahi al bar della torre di mezzo. A ripensarci quei dieci dollari li potevamo anche risparmiare: sì, la vista è bella, ma tra noi al bar e il panorama c’era di mezzo questa benedetta piscina, invasa da qualche decina di cinesi a mollo che si contendevano l’angolo migliore armati di bastoni da selfie e qualche altra decina che andava su e giù in accappatoio e ciabatte. Secondo me, la vista più bella è quella sul retro, che dà sul porto; vedi le barche e i portacontainer addormentati nell’acqua nera, qualche gru in controluce, la foresta brillante dei super alberi, le strade ad alto scorrimento. C’era la luna piena quella sera, sembrava un faro.

Postilla mangereccia • Cose buone che abbiamo mangiato a Singapore.

  • L’offerta culinaria di Singapore rispecchia il suo carattere multietnico: si trova davvero di tutto, dal cibo locale alla cucina asiatica e internazionale. I ristoranti veri e propri sono generalmente cari, ma nei numerosissimi food court e hawker centre è possibile mangiare molto bene e a buon prezzo. Quasi ogni centro commerciale ha il proprio food court – ce n’è uno anche all’interno del Marina Bay Sands, molto fornito e relativamente economico. Scegli un banchetto, ordini, paghi, e poi con il tuo vassoio raggiungi un tavolino cercando di non far strabordare dalla ciotola la tua zuppa ustionante.
  • Non tutte le food court sono uguali e alcune sono davvero hardcore, come quella del Chinatown complex. A Little India c’è invece il favoloso Tekka Food Centre, dove abbiamo mangiato un succulento pollo tandoori e una notevole quantità di roti prata inzuppati in curry di lenticchie e salse agliose. Segnalo infine il bel mercato di Lau Pa Sat, nascosto in mezzo ai grattacieli del Financial District e caratterizzato da una pianta ottagonale e un’elegante architettura vittoriana; lungo l’adiacente Boon Tat Street si trovano decine di banchetti che grigliano senza sosta ottimi spiedini satay di carne e di pesce.
  • Sempre a Little India c’è un ristorante buonissimo che si chiama Sakunthala’s: qui abbiamo mangiato uno spettacolare granchio piccante al curry, servito su foglie di banano con salsine varie in cui pucciare il soffice naan e i croccanti pappadums.
  • Voglia di gelato? A Singapore si mangia nel panino! I venditori ambulanti tirano fuori dal loro carretto la panetta di gelato, ne tagliano una fetta quadrata con il coltello e la infilano tra due cialde di wafer o nel pane bianco. Per i coraggiosi, c’è anche il gusto durian 🙂

Le notti bianche d’Estonia

Saaremaa 2

Press close bare-bosom’d night—press close magnetic nourishing night!

Night of south winds—night of the large few stars!
Still nodding night—mad naked summer night.

Smile O voluptuous cool-breath’d earth!
Earth of the slumbering and liquid trees!
Earth of departed sunset—earth of the mountains misty-topt!
Earth of the vitreous pour of the full moon just tinged with blue!
Earth of shine and dark mottling the tide of the river!
Earth of the limpid gray of clouds brighter and clearer for my sake!
Far-swooping elbow’d earth—rich apple-blossom’d earth!
Smile, for your lover comes.

Prodigal, you have given me love—therefore I to you give love!
O unspeakable passionate love.

(Walt Whitman, Song of Myself – Part 21)

Questi sono forse i miei versi preferiti di tutte le Foglie d’erba di Walt Whitman. Raccontano quelle notti d’estate in cui sembra che la natura ci avvolga nel suo abbraccio più sensuale, quando il vento caldo ci riscalda le braccia e le gambe nude. Il poeta chiama queste notti magnetiche e nutrienti; la terra voluttuosa; gli alberi liquidi e sonnecchiosi. Notti che andrebbero passate nel mezzo di un bosco di conifere, alla luce delle stelle, celebrando l’amore appassionato e ineffabile.

Le notti d’estate al nord sono strane, corte e chiare. Ma questa che sta arrivando è la più speciale di tutti: è la notte di San Giovanni, che si festeggia tra il 23 e il 24 giugno. Che poi si chiama così – con le dovute varianti linguistiche – in quasi tutti i paesi, ma si celebra da molto prima dell’avvento del Cristianesimo. In moltissime culture la notte del solstizio d’estate è la più importante dell’anno, legata ai cicli dell’agricoltura e agli antichi riti pagani di fertilità.

L’Estonia è uno dei paesi in cui la tradizione della notte di mezza estate è più forte: il giorno di Giovanni, ovvero Jaanipäev, se la batte con Natale nella gara alla festività più amata. La mattina del 23 giugno la gente si dirige verso le campagne e una volta là comincia a raccogliere la legna per i falò, intreccia ghirlande di fiori da mettere nei capelli, prepara la griglia e mette in fresco le birre. La giornata sembra non finire mai, perché il tramonto tarda ad arrivare: diciannove interminabili e meravigliose ore di luce da celebrare minuto dopo minuto.

E quando il tramonto finalmente arriva si accendono enormi falò, sopra i quali i ragazzi saltano per garantire prosperità e allontanare gli spiriti maligni dalle proprie case. Si balla, si brinda, si canta. Gli amanti si imboscano per cogliere il fiore della felce, che sboccia solo questa notte, o forse qualcos’altro… La leggenda più bella del folklore estone è quella dei due amanti Koit (Alba) e Hämarik (Tramonto), che si incontrano solo una volta l’anno, per scambiarsi il più fugace dei baci nella più breve delle notti.

Il rapporto dei popoli del nord con il buio è intimo e inevitabile, costretti come sono a inverni lunghi mesi in cui il sole può non apparire per settimane. Mi ricordo come un’epifania il primo vero giorno di primavera in Estonia, la prima giornata tersa e mite; mi ricordo di aver quasi inciampato in una signora ferma in mezzo alla strada, tra le pozzanghere di neve sciolta, che con gli occhi chiusi e il volto rivolto al cielo si beava dei raggi del sole. Come se fosse il primo sole della sua vita, un sole primordiale e vivificatore.

Il contrappasso è un’estate breve, ma luminosissima, in cui la luce prende con arroganza la sua rivincita. Le notti bianche dell’Estonia ti mandano in palla perché quando tramonta alle undici di sera e albeggia alle quattro del mattino non capisci più se è ora di cenare, pranzare, dormire. Alzi gli occhi e non riesci più a distogliere lo sguardo da quel cielo rosso, dalle nuvole insanguinate che annunciano il nuovo giorno.

Jaanipäev nel mio ricordo è un pic-nic improvvisato e una notte passata intorno a una chitarra con un groppo in gola e la consapevolezza respinta in un angolino del cervello che qualcosa di bello e importante stava per finire senza scampo né riscatto – una maratona di lacrime, risate e gratitudine sotto il cielo illuminato dal sole di mezzanotte.

Ad Atene con Ilias

atene, vista sull'acropoli

Raccontami o Musa della culla del pensiero: quando ho detto a Ilias che a scuola avevo studiato il greco antico e i poemi omerici, le tragedie di Sofocle, Eschilo, Euripide, le commedie di Menandro, gli epigrammi di Callimaco, le liriche amorose di Saffo, la mitografia di Esiodo, la storiografia di Erodoto, decine di filosofi oltre ovviamente a Socrate, Platone, Aristotele… si è sorpreso non poco.

A ondate, ritorna il grande dibattito sull’inutilità dello studio delle cosiddette lingue morte nel licei classici italiani – e di conseguenza sull’inutilità del liceo classico stesso. Io sarò di parte, ma penso che lo studio matto e disperatissimo del greco e del latino abbia portato un grande valore aggiunto alla mia formazione. Ha ampliato il mio orizzonte linguistico e culturale, ha affinato il mio spirito critico e la mia coscienza politica, mi ha permesso di leggere cose antiche e bellissime nella stessa forma in cui furono concepite. Nel mio immaginario la Grecia era questo: una terra di poeti e filosofi, dee e dei che copulavano a destra e a manca indifferentemente con altre divinità o giovenche e animali vari, miti complessi e affascinanti, ninfe che si trasformavano in alberi e correnti marine, uomini che vivevano nelle botti, uomini che passeggiavano tra i colonnati disquisendo di etica e morale, politici idealisti e tiranni malvagi.

Ho conosciuto la Grecia come luogo letterario, finché non ho cominciato a leggerne le sventure sui quotidiani: il declassamento del debito pubblico, la crisi nera, i mercati in picchiata, la disoccupazione, l’austerità, la recessione e lo spettro del default. In piazza decine di migliaia di persone a protestare contro lo strapotere delle banche e le misure dei piani di salvataggio imposti dalla trojka formata da FMI, BCE e UE. Il popolo greco è volitivo, tende alla mobilitazione in un senso profondamente democratico e condiviso. Ilias ci racconta delle manifestazioni in Piazza Syntagma, dei collettivi che si riuniscono a Exarchia e nei pressi del Politecnico – il luogo della resistenza per eccellenza, da cui partì la rivolta che rovesciò la dittatura militare.

Nella notte del 17 novembre 1973, un carrarmato sfondò i cancelli del Politecnico, dove tre giorni prima gli studenti si erano asserragliati. Pare che, ai militari che intimavano loro la resa, gli studenti abbiano rivolto le stesse parole usate da Leonida re di Sparta contro i Persiani alle Termopili: “Μολὼν λαβέ”, venite a prenderle! Negli scontri che seguirono morirono 24 civili. 

Anche Alexandros Grigoropoulos era uno studente: è stato ucciso a sangue freddo da un poliziotto il 6 dicembre 2008.  La rabbia per questa morte insensata si è mischiata all’insofferenza diffusa nei confronti di uno stato autoritario e corrotto, insicuro, pervaso dall’ingiustizia sociale; l’omicidio è stato la scintilla che ha incendiato Atene intera – un fuoco che si è propagato in tutta la Grecia e fin oltre i suoi confini. La protesta violenta è andata avanti per settimane, mentre le scuole e le università venivano occupate. I disordini si ripetono puntuali ogni anno, nel giorno dell’anniversario della morte di Alexandros.

Alexandros Grigoropoulos
Il luogo dov’è stato ucciso Alexandros, a Exarchia

La mia impressione è che i greci non vadano molto d’accordo con l’autorità costituita. Eppure sono costretti ad averci a che fare, prima o poi: infatti in Grecia il servizio militare è ancora obbligatorio e l’obiezione di coscienza non è prevista (il servizio civile esiste come opzione, ma le condizioni sono tali da scoraggiare perfino il giovane più antimilitarista). Ilias è riuscito a rimandare per tutti gli anni dell’università, ma, adesso che ha finito gli studi, gli tocca partire. Non sa dove sarà spedito e a fare cosa… spera solo che non lo mettano a fare la guardia statuina davanti al Parlamento in piazza Syntagma, costretto a fissare nel vuoto per ore mentre i turisti ti fanno le foto. Meglio stare al fresco da qualche parte sul confine.

Chiacchierando con Ilias e i suoi amici ho imparato tante cose sulla Grecia, quella moderna e quella antica. Caterina cerca un impiego retribuito e non lo trova, ma lavora tutti i giorni come volontaria al Museo dei bambini. Mi racconta le storie che narra loro, come quella della competizione tra Atena e Poseidone per diventare la divinità protettrice di questa città che all’epoca era ancora senza nome. Ognuno avrebbe fatto un dono agli Ateniesi ed essi avrebbero scelto quale fosse il migliore. Il dio del mare fece sgorgare una sorgente, ma l’acqua era salmastra. Atena offrì invece un ulivo dalle foglie d’argento, imperlato di olive nere e succose. Gli Ateniesi scelsero l’ulivo e Atena divenne patrona della città.  Davanti a una birra, spiluccando quelle stesse olive nere e succose, le mie memorie scolastiche fanno capolino corpose e trasfigurate, mentre mito e realtà, passato e presente, si confondono l’uno dentro l’altro.

atene, l'acropoli