A Venezia con Marialisa

San Giorgio Maggiore vista da Piazza San Marco
San Giorgio Maggiore vista da Piazza San Marco

Sono stata la prima volta a Venezia da bambina con la mamma, mi sembra fosse il 1998, quando i treni veloci si chiamavano ancora Pendolini. Mi colpirono soprattutto le prigioni (i Piombi, dove fu rinchiuso anche Giacomo Casanova, e i terribili Pozzi) e gli strumenti di tortura conservati nella Camera del Tormento di Palazzo Ducale. Poi mi ricordo moltissimi piccioni in piazza San Marco e la gente che se li faceva salire in testa per scattare foto ricordo di dubbio gusto. Effettivamente all’epoca ce n’erano molti di più rispetto a oggi, perché nel frattempo un’ordinanza comunale ha imposto il divieto di dar loro da mangiare. I venditori di mangime per piccione si sono dileguati e sono in compenso comparsi i venditori di bastoni estensibili da selfie, che adesso pare vadano per la maggiore… Piazza San Marco rimane zeppa di turisti in ogni stagione, ma le cupole dorate della Basilica riescono miracolosamente a farli zittire tutti d’un colpo.

Dieci anni dopo quella prima volta sono tornata a Venezia con Angelo: era novembre e stavamo al Lido, che in quel periodo era deserto. C’era la Biennale di architettura e abbiamo gironzolato tra i padiglioni; siamo andati a vedere gli artigiani a Murano e Burano; siamo diventati esperti delle tratte dei vaporetti. Mi ricordo che ero tornata a casa pensando che Venezia era bella ma un po’ triste e molto finta: troppi negozi di paccottiglia, troppa ressa, troppe trappole per turisti. L’altro giorno in libreria mi sono imbattuta in un pamphlet di Salvatore Settis, archeologo e storico dell’arte, intitolato Se Venezia muore e pubblicato da Einaudi: rielaborando un discorso tenuto all’Ateneo Veneto nel 2012, denuncia l’impoverimento dovuto alla monocultura turistico-alberghiera che starebbe insidiosamente condannando Venezia a una morte lenta ma inevitabile – se non ne prenderemo coscienza.

Le città storiche sono insidiate dalla resa a una falsa modernità, dallo spopolamento, dall'oblio di sé. Di questa minaccia, e dei rimedi possibili, Venezia è supremo 
esempio. Dobbiamo ritrovarne l'anima, rivendicare il diritto alla città.
Venezia dal piazzale della Stazione

Venezia è un luogo unico al mondo, viene ricostruita pari pari in paesi lontani, innamorati di ogni dove l’hanno eletta città romantica per eccellenza (perfino i miei genitori, che ci sono andati in luna di miele negli anni Settanta). La sua storia è la storia d’Italia: i pittori, gli esploratori, gli scrittori… Dal 1987 fa parte dei siti inscritti nel Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO. E tuttavia o forse proprio per questo i turisti arrivano in massa, i veneziani fuggono sulla terraferma, il made in china svaluta il lavoro degli artigiani e tradizioni secolari. La situazione è delicata: eppure, quest’anima antica di fierezza ed eleganza, mi sono accorta nell’ultimo viaggio che Venezia la mantiene e la conserva. Per ogni residente che si trasferisce a Mestre o Marghera c’è magari un ragazzo o una ragazza giovane che decide di venire a studiare a Ca’ Foscari e, una volta finita l’università, decide di fermarsi a vivere in questa città di cui si è follemente innamorato. Questa è anche la storia di Marialisa, che da Venezia non è più tornata. Ora lavora alle Gallerie dell’Accademia, che espongono tra le altre cose la Tempesta di Giorgione e conservano – nascosto però al pubblico – il celeberrimo Uomo Vitruviano di Leonardo. La mia amica odia Piazza San Marco (come tutti i veneziani, dice) perché ogni mattina è una lotta e gimcana tra gli assembramenti di turisti che si agitano cercando l’inquadratura perfetta. Poi però arriva al Ponte dell’Accademia, col sole rosa che sorge dietro alla Salute, e rallenta il passo per godersi quel momento magico.

Boicottiamo quindi (con affetto) Piazza San Marco, per seguire un itinerario un po’ sghembo e tuttavia molto riuscito 🙂

Una libreria particolare

La libreria Acqua Alta: libri, libri e ancora libri (un po' umidicci)
La libreria Acqua Alta: libri, libri e ancora libri (un po’ umidicci)

Nel sestiere Castello, in Calle Longa Santa Maria Formosa, c’è una libreria che si chiama Acqua Alta. L’ha aperta una decina di anni fa un signore di nome Luigi Frizzo, che insieme ai suoi gatti sornioni accoglie i visitatori con l’aria di chi è molto orgoglioso della sua tana. La libreria, che nel 2014 è stata inclusa dalla Bbc nella lista delle 10 librerie più belle del mondo, deve la sua unicità a quella della città in cui si trova: quando a Venezia c’è l’acqua alta, infatti, la libreria si allaga e il signor Luigi, con indosso gli stivaloni, si prodiga per spostare i libri dei ripiani più bassi al riparo dall’acqua. Impresa ardua, perché qui i libri sono in ogni angolo, ammucchiati (senza troppa logica) su scaffali, tavoli, mensole, addirittura dentro vasche da bagno, barili, canoe, e una gondola che si allunga maestosa nella prima sala della libreria. I libri si trasformano in mattoni per costruire muri e gradini che formano una scala nel terrazzino con vista sul canale. Mi è piaciuta perché da sempre sostengo l’estetica del mucchio, ma sinceramente mi si è stretto un po’ il cuore, a vedere tutti questi libri in balìa delle intemperie, calpestati, ammuffiti; a sentire quell’odore forte di umido e piscio di gatto che, diciamolo, un po’ stempera la poesia di questo luogo.

Andar per cicchetti e una sorpresa gastronomica

Mangiarbene a Venezia
Mangiarbene a Venezia

Che fa uno a Venezia quando gli vien fame? Va in un bacaro, ordina un’ombra e la accompagna con un paio di cicheti. Il mio fidato dizionario etimologico (aka Wikipedia) propone le seguenti spiegazioni per queste bellissime parole del dialetto veneziano: bàcaro, l’osteria/enoteca, deriva da Bacco, dio del vino, o dal detto “far bacara” ovvero “festeggiare”; bacari erano anche i vignaioli che vendevano il loro vino in Piazza San Marco, in bicchieri che venivano chiamati ombre perché, per proteggerli dal sole, i venditori spostavano i barili lungo il tragitto segnato dall’ombra del campanile. Cicchetto invece viene da “ciccus”, piccola quantità in latino, e rivela l’antica storia di questi stuzzichini che accompagnano le bevute. I cicheti vengono venduti al pezzo, come le tapas spagnole, e volendo ci si può fare un pranzo intero. Più spesso, però, se ne scelgono un paio, giusto per non bere a stomaco vuoto – anche se al quarto spritz le certezze vacillano…  Infatti noi dopo i primi due ciccheti al baccalà mantecato al Bottegon (già Schiavi) di San Trovaso – che ci hanno, come si suol dire, aperto la voragine – ci siam fatti un panino con la soppressa e uno con la porchetta. Dio benedica la soppressa, che ha segnato il nostro weekend veneziano: menzione d’onore a quella cotta nell’aceto con radicchio marinato, polenta e noci che abbiamo mangiato sabato sera Al Portego (ottima osteria con ottima selezione musicale!). La domenica, invece, Marialisa ci ha portato a mangiare in Campo Santa Margherita, in un piccolo ristorante take away che si chiama Orient Experience – altrimenti conosciuto come “l’afghano”. Venezia porta d’Oriente e tradizione di accoglienza, popoli e culture che si sedimentano l’uno sull’altro, la carne saporita dell’agnello, i ceci croccanti, lo yogurt che avvolge la bocca.

Gli orecchini di Mrs Peggy G.

Manzoni, Kandinsky, Brancusi Manzoni, Kandinsky, Brancusi

Se vi piacciono l’arte moderna e contemporanea, la collezione Peggy Guggenheim vi farà impazzire. Peggy la miliardaria è stata una delle figure più importanti della storia dell’arte del Novecento, per il suo ruolo di collezionista, mentore e amica dei più grandi artisti del secolo breve. Nacque nel 1898 a New York da Florette Seligman, figlia di banchieri, e Benjamin Guggenheim, che morirà nel 1912 nel naufragio del Titanic: è quello che nel film, nel momento di panico totale, scende dal grandioso scalone del transatlantico con tuba e smoking accanto al suo valletto e pronuncia la leggendaria frase “Abbiamo indossato il nostro abito migliore e siamo pronti ad affondare da gentiluomini. Ma gradiremmo un brandy!”. Poco più che ventenne, Peggy arrivò a Parigi, dove frequentando i circoli bohémien delle avanguardie europee conobbe artisti come Costantin Brancusi, Marcel Duchamp e Man Ray. Ebbe una vita sentimentale turbolenta, segnata da alcuni grandi amori (Laurence Vail, squattrinato artista dada, primo marito e padre dei due suoi figli; John Holms, eroe di guerra col blocco dello scrittore; Max Ernst, secondo marito e pioniere del Surrealismo) e molti flirt – pure con Samuel Beckett. Nel 1937 aprì la sua prima galleria d’arte, a Londra (fu lei a esporre per la prima volta Kandinsky in Inghilterra); poi cominciò a collezionare opere di artisti più o meno emergenti come Picabia, Braques, Mondrian, Léger, Dalì, Picasso, finché non fu costretta ad abbandonare la Francia occupata. Tornata negli Stati Uniti inaugurò nel 1942 a New York la galleria/museo Art of this century, indossando per la serata inaugurale un orecchino di Yves Tanguy e uno di Alexander Calder, a dimostrazione della sua “imparzialità tra l’arte astratta e quella surrealista”. Prese sotto la sua ala protettrice il giovane Jackson Pollock, di cui nel novembre 1943 espose la prima personale; attorno a Peggy e alla sua galleria si sviluppò il grande movimento dell’espressionismo astratto americano con Rothko, Klein, De Kooning. Nel 1947  tornò in Europa e nel 1948 acquistò Palazzo Venier dei Leoni, un antico edificio sul Canal grande dove negli anni Venti aveva abitato un’altra donna dalla storia straordinaria, l’eccentrica marchesa Teresa Casati. Peggy Guggenheim si trasferì qui insieme alla sua collezione, che aprirà al pubblico nel 1951 e verrà in varie occasioni esposta all’estero. Passerà a Venezia il resto della sua vita, continuando a supportare i suoi artisti e a collezionare opere che sono oggi entrate nel canone dei classici moderni – oltre agli artisti già citati, De Chirico, Mirò, Klee, Magritte, Giacometti, Manzoni. Cubismo, astrattismo, surrealismo, futurismo, pittura metafisica: la collezione, che adesso è gestita dalla Fondazione Solomon R. Guggenheim (lo zio ricco…), rappresenta una delle più complete raccolte in Italia del modernismo europeo ed americano della prima metà del XX secolo. Alla collezione permanente di Peggy si aggiungono la collezione Hannelore B. e Rudolph B. Schulhof, la collezione Gianni Mattioli (che include alcuni capolavori del futurismo italiano, tra cui Boccioni, Carrà, Depero) e il Patsy R. and Raymond D. Nasher Sculpture Garden. Se cercate bene, tra le sculture del giardino trovate una lapide: qui riposano infatti le ceneri di Peggy, che volle essere seppellita accanto ai suoi “beloved babies”: non i suoi artisti stavolta, ma i suoi quattordici cagnolini!

Dinosauri e cerbiatti a due teste

Il museo di Storia naturale di Venezia ha sede dal 1923 nel palazzo detto Fontego dei Turchi, che dal 1621 al 1838 fu utilizzato dai mercanti turchi come sede dei loro commerci. Restaurato da poco, oggi conserva tra le varie collezioni naturalistiche e scientifiche più di due milioni di pezzi. E’ molto bello e vale davvero la pena di una visita, non fosse altro che per l’incredibile scheletro di dinosauro che svetta nella prima sala: si tratta del calco di un Ouranosaurus nigeriensis, scoperto nel 1965 nel deserto del Niger durante una spedizione capitanata dagli archeologi Giancarlo Ligabue e Philippe Taquet. Occhio poi a non inciampare nelle fauci del terribile Sarcosuchus imperator, un giga coccodrillo vissuto circa 112 milioni di anni fa. Il percorso museale prosegue con una collezione pazzesca di minerali, rocce e fossili, per poi arrivare a una serie di sale dedicate ad alcuni uomini molto diversi tra loro, ma accomunati da viaggi lontani e spirito d’avventura. Uno di loro è l’esploratore Giovanni Miani, che donò a Venezia nel 1862 i materiali etnologici da lui raccolti nel corso delle sue spedizioni alla ricerca delle sorgenti del Nilo (per la cronaca, non ci arrivò mai), accompagnati da manoscritti, disegni e il suo diario autografo. Un altro è il già citato Ligabue, a cui si devono una miriade di reperti divisi tra le sezioni di paleontologia, paleoantropologia ed etnologia. Ma la collezione più incredibile di tutte è quella del conte Giuseppe De Reali, che raccoglie su pareti lugubremente rosse i trofei accumulati durante le sue spedizioni di caccia grossa in Africa Orientale e in Congo tra 1898 e 1929. E’ raccapricciante, perché molte delle teste appese in queste sale appartenevano ad animali oggi estinti, e le foto d’epoca che lo ritraggono accanto agli esemplari appena uccisi – con moglie grassoccia vestita di bianco al suo fianco – mi hanno fatto davvero rabbrividire.

C'è a chi piace collezionare teste d'elefante: i trofei di Giuseppe de Reali
C’è a chi piace collezionare teste d’elefante: i trofei di Giuseppe de Reali

Del resto, impulso primario del collezionista è proprio quello di poter possedere, ed eventualmente esporre agli occhi increduli degli ospiti e dei visitatori, una pletora di cose straordinarie nel senso letterale del termine, e cioè nuove, diverse, preferibilmente dal sapore esotico, lontano, mitico. Una vera e propria Wunderkammer, nella tradizione di quelle camere delle meraviglie che affondano le proprie radici nel Medioevo, raggiungono la massima popolarità nel Cinquecento e nei barocchismi seicenteschi, e nel Settecento illuminato da Linneo e le sue classificazioni scientifiche costituiscono il nocciolo da cui si svilupperà il concetto di museo modernamente inteso. Non a caso il padiglione più propriamente museologico del Museo di Storia naturale è introdotto dalla ricostruzione di una Wunderkammer, in cui fanno bella mostra di sé naturalia e artificialia da rimanere a bocca aperta, come una tsantsa (testa umana privata del cranio e rimpicciolita alle dimensioni di un pugno, preparate con grande abilità dagli indios cacciatori di teste dell’alta Amazzonia, allo scopo di vendicare una persona e placarne lo spirito tormentato), un cerbiatto e un vitellino a due teste, e addirittura due basilischi, creature fantastiche costruite componendo pezzi di vari animali.

Testine rimpicciolite, cerbiatti bicefali e basilischi
Testine rimpicciolite, cerbiatti bicefali e basilischi

Ed ecco che, usciti da questa bizzarra stanza, si apre ariosa la storia naturale analiticamente illustrata e spiegata, i misteri dell’evoluzione vengono svelati e le infinite strade della vita sulla terra raccontate con chiarezza e precisione. Stupiscono le collezioni zoologiche, in particolare quelle entomologiche, ornitologiche e malacologiche (i molluschi); in ambito botanico sono affascinanti gli antichi erbari, l’algarium, la raccolta micologica (il Museo di Storia naturale di Venezia ospita la più grande e meglio conservata raccolta di funghi in Italia!). Degne di nota anche la collezione di antichi strumenti scientifici e la collezione anatomica, la cui star è lo scheletro alto più di due metri dell’ultimo campanaro di San Marco, vissuto a metà Ottocento. Pare che stia al suo posto fino a qualche minuto prima di mezzanotte, ora in cui sale sul campanile per dare i rintocchi alla campana più grande…

La casa di Aldo Manuzio in Rio Terà Secondo: una chicca per bibliofili

La casa di Aldo Pio Manuzio, Aldus Pius Manutius (Bassiano, 1449 – Venezia, 6 febbraio 1515), editore, tipografo e umanista
La casa di Aldo Pio Manuzio, Aldus Pius Manutius (Bassiano, 1449 – Venezia, 6 febbraio 1515), editore, tipografo e umanista

Aldo Manuzio era un vero figo: considerato il primo editore in senso moderno, ha apportato alla storia del libro e dei sistemi editoriali una serie di innovazioni che hanno attraversato i secoli fino ad oggi. Snocciolandone alcune: si deve a lui l’idea di stampare i libri in ottavo, cioè in un formato più piccolo e maneggevole (sono gli antenati dei nostri tascabili). Ha utilizzato per la prima volta il corsivo, che in inglese si chiama italics proprio per la sua origine italiana; ha dato definitiva sistemazione alle norme di punteggiatura; ha inventato il punto e virgola! Pubblicò circa 130 edizioni in latino, greco e volgare, una sorta di biblioteca perfetta dell’Umanesimo. Uno dei suoi capolavori è l’Hypnerotomachia Poliphili (La battaglia amorosa di Polifilo in sogno) di Francesco Colonna, pubblicato nel 1499 e ritenuto il libro stampato più bello del Rinascimento italiano, grazie alle finissime xilografie che lo illustrano.

Un (breve) giro in gondola

Poiché una volta si entrava nelle case direttamente dai canali, Venezia assume un aspetto completamente diverso vista dall’acqua; di alcuni edifici, infatti, noi non vediamo che il retro, dato che la facciata è quella rivolta sui canali. La gondola, simbolo incontrastato della città, è stata per secoli il mezzo più adatto per spostarsi lungo le vie d’acqua della città. Poi sono arrivati i vaporetti e i taxi e le gondole sono diventate un’attrazione turistica, anche piuttosto cara… Non tutte però! A  Venezia può capitare di finire di fronte al posto in cui si vuole arrivare, ma non poterlo raggiungere perché c’è un canale di mezzo: quindi o si cammina fino al ponte più vicino, o si attraversa il canale in gondola. L’attraversamento costa 0.70 centesimi per i residenti e 2 euro per i turisti. Chi vuole spacciarsi per veneziano dovrebbe: arrivare con le monete contate; dissimulare l’emozione di trovarsi su una gondola; non fare quelli che “oddio cado oddio cado!”; evitare di scattare fotografie col gondoliere. 2 euro per un minuto scarso di navigazione è tanto, ma alla fine li abbiamo pagati, dato che abbiamo infranto tutte le regole… diciamo che l’abbiamo considerata una tassa sul selfie 😛

Selfie on the gondola!
Selfie on the gondola!

Insomma questa volta Venezia mi è sembrata più vera e più viva, forse perché ho fatto più attenzione ai dettagli, perché ho ascoltato le voci squillanti dei suoi abitanti mentre ci affrettavamo lungo le calli. Grazie Marialisa, per averci spiegato le sfumature del polivalente “ghe sboro!” e per averci mostrato la tua Venezia 🙂

Ciao Pisa!
Ciao Pisa!

Trieste tra le pagine: Slataper, Svevo, Joyce, Saba

Canottieri_Trieste
Canottieri a Trieste, visti dal Molo Audace

Trieste è un luogo particolare. Una città di frontiera, che le vicende storiche hanno isolato a lungo dal resto d’Italia, punto d’incontro tra lingue e culture diverse, sospesa tra il mito mitteleuropeo e quello di una letteratura unica, inquieta, malinconicamente enracinée. Sono molti i personaggi che hanno reso Trieste luogo fortissimamente letterario: incontriamo Scipio Slataper, caduto sul Podgora nel 1915 a soli ventisette anni, che cammina di notte per i vicoli della città vecchia, annoiato e a disagio mentre visioni postribolari si succedono davanti ai suoi occhi di ragazzo, o all’alba lungo i moli, osservando il frenetico svegliarsi del porto e dei suoi lavoranti: Il sole strabocca aranciato sul retto filo grigio dei magazzini. Il sole è chiaro sul mare e nella città. Sulle rive Trieste si sveglia piena di moto e colori (da Il mio carso, 1912).

Tramonto_Trieste
Il sole, mentre strabocca aranciato…

È un lungo elenco che inizia come una favola a raccontare la Trieste di Svevo:

 C’era una volta un’imperialregia città austroungarica fornita di:

- 200.000 e rotti abitanti, fra cui slavi, tedeschi, greci, albanesi, inglesi, armeni,   ungheresi, italiani aborigeni e italiani regnicoli, levantini in genere;
- 5498 ebrei, sale della terra;
- qualche migliaio di banche e compagnie d’assicurazione;
- uno sterminio di ditte commerciali;
- quattro porti con relative navi, fumo, puzza e inquinamento;
- cinque cimiteri di cinque religioni diverse;
- chiese cattoliche, greco-orientali, serbo-orientali, protestanti, sinagoghe, taverne,  caffè concerto, tabarin, postriboli, biblioteca, associazioni letterarie, musei, 
  teatri, scuole in tre lingue;
- liberali, conservatori, irredentisti di parte slava e di parte italiana, socialisti,   qualunquisti;
- un agguerrito ufficio della K. und K. Polizei per sorvegliare tutta questa gente;
- un segretissimo distaccamento dell’Evidenz Bureau (controspionaggio imperiale) 
  per meglio controllare il tutto;
- un arciduca morto ammazzato come Imperatore del Messico, rarità assoluta;
- un insegnante di inglese alla Berlitz School che si chiamava James Joyce.

In siffatto strabiliante panorama non poteva mancare uno sconcertante caso 
clinico-letterario di doppia personalità. Stiamo parlando naturalmente di 
Ettore Schmitz, in arte Italo Svevo (…).[1]

In questa città che sembra un romanzo nasce e vive l’autore della Coscienza di Zeno. Scarse o volutamente falsate le notazioni topografiche in Una vita, più precise quelle di Senilità (Emilio ed Angelina amarono in tutte le vie suburbane di Trieste. Dopo i primi appuntamenti, abbandonarono Sant’Andrea che era troppo frequentato, e per qualche tempo preferirono la strada d’Opicina fiancheggiata da ippocastani folti, larga, solitaria, una salita lenta quasi insensibile).

Poi, nel 1905, l’incontro con James Joyce, le lezioni d’inglese, l’amicizia, il sodalizio letterario. Anche l’arrivo di Joyce a Trieste è romanzesco; lo scrittore

è arrivato a Trieste una bella mattina di due anni prima, dopo aver sbagliato fermata 
ed essere sceso a Lubiana alle quattro del mattino (inoltre lascia la moglie alla 
stazione, va in cerca di via S. Niccolò dove c’è la Berlitz School, si imbatte in una 
rissa di marinai inglesi, si intromette per far da paciere, arriva l’imperialregia 
polizia e impacchetta tutti, mentre la moglie lo aspetta imperterrita sulla 
panchina).[2]

Nel 1923 venne pubblicato La coscienza di Zeno; piacque a Montale, il successo tanto aspettato arrivò (anche se molte critiche furono mosse allo stile del romanzo), e Svevo fu ripagato di tutte le precedenti delusioni letterarie.

Trieste_Piazza Unità d'Italia
Trieste, Piazza Unità d’Italia

Trieste è stata raccontata anche dai poeti: quella di Saba è oggetto di un amore conflittuale, spesso desolata («la topografia della Trieste sabiana è una mappa della tristezza»[3]) e di tanto in tanto, di luogo in luogo, serena: via del Monte è la via dei santi affetti / ma la via della gioia e dell’amore / è  sempre via Domenico Rossetti. Via della Pietà, invece, accennava all’aspetto una sventura / sì lunga e stretta come una barella. Ma leggere Saba solamente in chiave triestina è limitativo; più che la città di Trieste, ha cantato la Città: i personaggi universali che si aggirano per i suoi vicoli (…prostituta e marinaio, il vecchio / che bestemmia, la femmina che bega, / il dragone che siede alla bottega / del friggitore, / la tumultuante giovane impazzita / d’amore) sono umili, ma vicini per questo alle cose più grandi e profonde: sono tutte creature della vita / e del dolore; / s’agita in esse, come in me, il Signore.

Tramonto_Trieste
Il tramonto dal Molo Audace

Un articolo di Corrado Stajano, apparso su «Tempo» illustrato il 23 novembre 1969, racconta un suo viaggio nel capoluogo friulano a cinquant’anni dall’annessione. Il giornalista vi trova risentimento, tristezza, e fantasmi asburgici; la città cosmopolita del passato non c’è più, gli uomini di cultura sono partiti, è difficile parlare di eredità mitteleuropea. Ma il mito dello scrittore è immacolato, tutti scrivono a Trieste. Il ritratto di Stajano è abbastanza desolante, ma più che mai dalle sue parole emerge un luogo fortissimamente letterario, impregnato delle rappresentazioni che negli anni ne hanno dato poeti e romanzieri.

E oggi, che ne è di Trieste? Nel mio ricordo una città elegante, un tramonto sul mare arancione, i caffè in cui insieme all’espresso arriva un bicchierino di cioccolata calda, il bollito misto da Pepi – con la senape e il rafano grattugiato che sgrassa la bocca, e un boccale di Dreher. Niente bora, ma il soffio persistente delle parole che l’hanno raccontata.

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Trieste, la statua delle Sartine

Questo post rielabora un brano della mia tesi di laurea, dedicata all’analisi dei Luoghi letterari di Giampaolo Dossena.

[1] Giampaolo Dossena, Luoghi letterari. Paesaggi, opere e personaggi, Sylvestre Bonnard, Milano 2003, p. 650-651.

[2] Ivi, p. 653.

[3] Ivi, p. 656.

Tre luoghi macabri a Milano, Evora e Napoli

Particolare della Capela dos Ossos, Evora (Portogallo)
Particolare della Capela dos Ossos, Evora (Portogallo)

Memento mori! Queste sono le storie di tre luoghi macabri che io ho trovato molto suggestivi per la loro atmosfera spettrale ma soprattutto per la mole di esistenza che vi si respira. Voglio dire, per chi ha sempre provato una forte attrazione per le vite degli altri e in particolare gli sconosciuti, per le loro vite possibili e parallele, trovarsi al cospetto delle spoglie mortali di chi ha concluso la sua vicenda mondana secoli fa mette in soggezione e allo stesso tempo dà il tormento di voler sapere chi erano quelle persone, che mestiere facevano, come sono morte. Ah, il soffio dell’eternità! 

Chiesa di San Bernardino alle Ossa, Milano

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Di Milano si dice spesso che i suoi gioielli più preziosi sono anche i più nascosti. Penso che San Bernardino rientri nella categoria, perché che io sappia non è tanto famosa e si mantiene tutto sommato fuori dai circuiti turistici classici. Forse perché da fuori non sembra neanche una chiesa, ma più un palazzo signorile. Si trova tra il Verziere e via Brolo, accanto alla più maestosa basilica di Santo Stefano Protomartire, a due passi dall’Università Statale. Sapevo della sua esistenza ma non ci avevo mai messo piede fino all’altra mattina: sono passata intorno alle otto e mezza, prima di andare in ufficio. Stavano celebrando la messa e nessuno ha fatto caso a me. Mi sono infilata nel corridoio a destra, seguendo le indicazioni per l’ossario, e mi sono ritrovata in questa cappella a pianta quadrata dalla volta affrescata con un barocchissimo Trionfo di anime in un volo di angeli. Su tutti e quattro i lati, fregi rococò e nicchie piene zeppe di ossa e teschi, disposti in modo tale da formare motivi decorativi e croci. Croci fatte di teschi su mura di teschi. L’impatto è stato forte, perché ero sola in questo luogo elegante e triste, con le note dell’organo che arrivavano da lontano.

L’ossario originario risale al 1210 e fu costruito per raccogliere i resti dei lebbrosi morti nell’ospedale del Brolo, nei cui pressi vennero poste nel 1269 le fondamenta della chiesa primitiva. Nel 1642 crollò il campanile di Santo Stefano e distrusse chiesa e ossario, che vennero ricostruiti nello stile dell’epoca; l’ossario fu completato nel 1695. A lungo si è pensato che gli scheletri conservati qui appartenessero ai martiri cristiani uccisi dagli eretici ariani all’epoca di Sant’Ambrogio; in realtà, le ossa provengono dalle spoglie dei pazienti dell’antico ospedale del Brolo, dalle salme traslate qui alla chiusura dei cimiteri cittadini, da condannati a morte e carcerati, da qualche nobile milanese e dagli appartenenti alla confraternita dei Disciplini che sin dal XIII secolo aveva in questo sito la loro sede (e il cui patrono era appunto San Bernardino. L’altra confraternita della chiesa era quella dei furmagiàtt, i produttori di formaggio, che qui pregavano con la protezione di San Lucio..!)

Narra una leggenda che tra i resti conservati nell’ossario ci siano anche quelli di una ragazzina, che la notte dei morti, il due novembre, si risveglia per trascinare con sé i suoi compagni d’eternità in una danza macabra festosa e rumorosa: dicono che gli scheletri danzanti si facciano sentire fin fuori dalla chiesa.

Pare anche che di qui sia passato, nel 1738, Giovanni V re del Portogallo: fu talmente colpito dall’ossario di San Bernardino che volle costruirne uno uguale a Evora, nel suo Paese (così ho letto da qualche parte, ma la datazione è discordante: all’epoca della visita di Giovanni la Capela dos Ossos di Evora atterriva i visitatori già da un paio di secoli. E’ verosimile però che in seguito al viaggio milanese ne abbia ordinato la ristrutturazione, in modo da renderla ancora più spaventosa).

Capela dos Ossos, Evora (Portogallo)

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Evora, capitale dell’Alentejo e città-museo patrimonio dell’Unesco, custodisce molti tesori. La Capela dos Ossos è uno di essi, e si trova all’interno nell’Igreja di San Francisco, una maestosa cattedrale in stile gotico manuelino. L’idea di costruire una cappella le cui mura fossero letteralmente ricoperte da ossa umane venne a tre monaci francescani in tempo di Controriforma, con l’intento palesemente didascalico di indurre chi vi si trovasse alla contemplazione e alla riflessione sulla caducità e transitorietà della vita in terra. Con un certo umorismo nero, dato che all’entrata della cappella troneggia la frase “Nós ossos que aqui estamos pelos vossos esperamos”, ovvero, “Noi ossa che qua stiamo le vostre aspettiamo”. Si contano all’incirca 5.000 tra teschi e ossa varie, provenienti da vari cimiteri monastici e chiese della zona. Quando l’ho visitata io, lo scorso agosto, c’erano due ragazzi appollaiati su delle scale che restauravano una delle pareti, pulendo amorevolmente con dei pennellini le orbite dei poveri resti.

Su una delle pareti sono appesi due scheletri essiccati, uno di un uomo e uno di un bambino. Dice la leggenda che gli scheletri appartengano al figlio e al marito di una donna che fu a tal punto maltrattata in vita da lanciar loro una maledizione: mai avrebbero potuto trovare pace nel regno dei morti. Secondo una versione, al momento del funerale, la terra si indurì tanto da non permettere di scavare una fossa nel cimitero; secondo un’altra, i becchini si rifiutarono di seppellire l’uomo e il bambino per paura che il terreno tutto intorno marcisse. Allora li appesero lì, in bella vista, dove tuttora spaventano gli avventori della cappella.

Cimitero delle Fontanelle, Napoli

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Alle Fontanelle sono andata proprio nel giorno dei morti, l’anno scorso. È uno dei luoghi che più in assoluto ha colpito il mio immaginario: per l’estensione in altezza e in lunghezza, per il suono dei miei passi che risuonavano nel silenzio di tomba, per la geometrica e tuttavia caotica precisione della disposizione degli innumerevoli teschi. Si estende per circa tremila metri quadrati, lungo gallerie scavate nella roccia e alte 10-15 metri che proseguono a perdita d’occhio, incrociandosi l’una con l’altra. Vengono stimati circa quarantamila resti, disposti lungo le pareti in modo più o meno regolare. E’ un luogo buio, illuminato da qualche lumicino, umido, incredibile.

Il cimitero delle Fontanelle si trova nel rione Sanità, in un’antica cava di tufo che cominciò a essere utilizzata come deposito di cadaveri ai tempi della terribile peste del 1656 che uccise a Napoli più di trecentomila persone. Qui venivano ammucchiati i corpi di chi non poteva permettersi una degna sepoltura: i poveri, i negletti, i senza famiglia (in realtà, pare che qui finissero anche le persone abbienti, che i becchini fingevano di tumulare nei cimiteri e trasportavano poi alle Fontanelle di notte in un sacco). Agli appestati si aggiunsero le salme traslate dalle chiese cittadini dopo la bonifica voluta da Gioacchino Murat e coloro che furono colpiti dall’epidemia di colera del 1836. Nel frattempo, intorno ai resti del camposanto si era venuto a creare un culto pagano di dimensioni preoccupanti, al punto che nel 1969 l’allora Cardinale di Napoli Corrado Ursi ne decretò la chiusura, sperando così di porre fine alla macabra devozione del popolo alle anime pezzentelle. In pratica, chi non aveva morti né santi a cui votarsi adottava nel vero e proprio senso della parola un teschietto, lo andava a trovare, lo lucidava, gli portava fiori e omaggi: in cambio delle preghiere, l’anima sarebbe apparsa in sogno al devoto, e gli avrebbe esaudito la grazia o svelato – perché no – quali numeri giocare al lotto. Se i numeri uscivano o la grazia arrivava il teschio veniva posto al riparo in una teca; se invece la cappuzzella non faceva il suo dovere tornava nel mucchio e il devoto ne sceglieva un’altra. Uno dei segni della grazia ricevuta era il sudore delle testoline, che altro non era che condensa da umidità: se poggiando la mano essa non si bagnava, veniva interpretato  come un cattivo presagio.

Una delle cappuzzelle più famose è quella del Capitano, a cui leggenda vuole fosse devotissima una fanciulla che in lui aveva riposto la preghiera di trovare marito. Quando poi la ragazza andò in sposa, il giorno del matrimonio apparve in chiesa un invitato misterioso vestito da soldato spagnolo che le fece l’occhiolino. Il marito ingelosito gli diede un pugno sul grugno: l’indomani, il teschio del Capitano aveva un’orbita completamente nera. Secondo un’altra versione, il promesso sposo dileggiava la sposa per le morbose attenzioni che dedicava a quelle vecchie ossa e osò addirittura per sfregio infilare un bastone nella cavità dell’occhio del teschio, mentre scherzosamente lo invitava alle sue nozze. Quel giorno apparve effettivamente un uomo sconosciuto: invitato a dire chi era, tolse il mantello e si rivelò in tutta la sua mortifera apparenza. Gli sposini morirono sul colpo.

Le anime delle Fontanelle hanno riposato nell’oblio fino al 2010, quando il cimitero è stato riaperto. Ogni teschio, ogni osso racconta una storia, la propria; la vicenda umana che si cela dietro ognuno di questi resti rappresenta per noi un mistero affascinante, destinato a rimanere tale.

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