Letteratura senza senso

Humpty Dumpty sat on a wall / Humpty Dumpty fell on the floor / and all the king’s horses and all the king’s men / Couldn’t put Humpty Dumpty on the wall again.

Dove sta scritto che Humpty Dumpty è un uovo? Da nessuna parte: per questo la filastrocca di cui è protagonista può essere letta come un indovinello la cui soluzione è, appunto, un uovo.

L’indovinello è un gioco antico, presente già nei testi vedici, nel mito greco, nella Bibbia. Ha avuto funzioni magiche e sacrali, ha incarnato sfide sapienziali con rischio di morte, è poi diventato forma di intrattenimento profano (nell’antica Grecia già con Simonide, 556 ca.-467 ca. a.C.), popolare, talvolta sboccato. Quello di Humpty Dumpty è, più propriamente, un riddle, un “indovinello la cui soluzione è data da cosa o azione comune”. La lingua inglese lo distingue dal conundrum che è, invece, the riddle the answer to which involves a pun “indovinello la cui soluzione è data da un gioco di parole”. In altre culture l’indovinello è altro ancora: lo zen, disciplina profondamente antiermeneutica e diffidente nei confronti di ogni spiegazione o interpretazione (e nei confronti delle parole, soprattutto scritte), controbatte alla tradizione occidentale dell’indovinello che richiede una soluzione con il kōan, enigma paradossale e insolubile con i metodi della logica. Ad esempio: Una ragazza cammina per la strada. È la sorella maggiore o la minore? Mah! L’allievo deve tentare di risolvere il quesito postogli dal maestro zen ricorrendo al nonsenso, così che il kōan possa rivelare la natura ultima della realtà.

Dato che ci siamo messi a parlare di nonsenso, torniamo a quell’uovo da cui siamo partiti, quell’uovo tanto famoso che Alice incontra nel sesto capitolo di Attraverso lo specchio di Lewis Carroll  e con cui la bambina curiosa intrattiene un dialogo molto poco logico sul linguaggio e sul (non)senso delle parole. Insieme a The Book of Nonsense di Edward Lear (1846-1877), i libri di Alice (1865-1872) sono considerati i testi sacri del nonsense inglese come forma di umorismo paradossale e sono cari a semiologi e linguisti per i mille spunti che offrono, in particolare Humpty Dumpty è uno che con le parole ci sa fare: «Quando uso una parola», disse Humpty Dumpty in tono piuttosto sdegnoso, significa solo ciò che io voglio che significhi – né più né meno». «Il punto è», disse Alice, «se una parola possa avere tanti significati». «Il punto è», disse Humpty Dumpty, «chi è che comanda – punto e basta» (…) «Hanno un certo temperamento, alcune di loro – in particolare i verbi, loro sono orgogliosissimi – con gli aggettivi puoi farci quello che vuoi, ma coi verbi no. Comunque, io ci faccio quello che mi pare! Impenetrabilità! Ecco cos’è!».

Humpty Dumpty è il padrone delle parole: ma non trascura di pagar loro gli straordinari. È talmente bravo a maneggiarle, che Alice gli domanda di aiutarla a interpretare la misteriosa Jabberwocky, capolavoro della letteratura nonsensica che appare nel primo capitolo di Attraverso lo specchio. Il Jabberwocky è un poemetto in sette quartine a rime alternate, strutturalmente e metricamente impeccabile, che racconta di un giovanotto che sconfigge un orribile mostro. Ciò che mina la comprensibilità del Jabberwocky è che le parole dei suoi versi sono quasi tutte inventate: verba inaudita, segni che sembrano tali e che sono invece privi di senso. O forse un senso ce l’hanno? Così, nel Jabberwocky, «Brillig means four o’clock in the afternoon, the time when you begin broiling things for dinner» (nella traduzione italiana di Guido Almansi e Giuliana Pozzo “Twas brillig” diventa “Era la brilla” e «Brilla significa le nove del mattino, quando è stata appena fatta la pulizia e tutto è brillante»).

Altre sono parole-macedonia, che mettono insieme due parole per formarne una terza. È un procedimento linguistico comune: elicottero più aeroporto: eliporto. Carroll le chiama portmanteau words: “portmanteau” era un particolare tipo di baule che conteneva due parti staccate, di cui una entrava nell’altra. Nell’enigmistica, queste parole-valigia sono a volte chiamate “doppio scarto centrale” e stanno a metà tra la sciarada e lo scarto/aggiunta, l’esempio classico è topo/sazio/topazio.

Ma i libri di Alice sono, a guardarli bene, un unico continuo gioco linguistico; contengono calembours e à-peu-près (horse/hoarse, flower/flour, tale/tail, knot/not, eels/heels, porpoise/purpose), scarti e aggiunte (glass/lass, exactually/exactly), etimologie sbagliate (vengono messe in relazione parole che non hanno niente a che fare tra loro, come tortoise e taught us), omonimie eterogenee (parole che si scrivono e pronunciano allo stesso modo, ma hanno diverso etimo e diverso significato: miss signorina e imperativo di to miss) e ancora acrostici, calligrammi, tautogrammi… Non stupisce che Lewis Carroll si sia occupato anche, tra una fotografia e un trattato di logica, di giochi da prestigiatore, origami, scacchi, biliardo, backgammon e rompicapo logico-matematici (matematica è, tra l’altro, una delle chiavi di lettura del Jabberwocky).

Una nota a margine sulle problematiche che una scrittura ludica e intessuta di giochi di parole, come quella di Carroll, pone. Tradurre è sempre un po’ tradire, ma in casi come questi? Un traduttore che si accosti a un testo del genere sa di non poter ricorrere alla comoda formula gioco di parole intraducibile: allora, tanto varrebbe non iniziare neanche a giocare. Deve sottostare alle regole e giocare lo stesso gioco, nella sua lingua. I risultati variano a seconda della bravura e della sensibilità del traduttore, ma alle volte lo scontro è violento, come nella versione francese di Humpty Dumpty svolta da Artonin Artaud nel 1943. La scrisse tra un elettroshock e l’altro durante la degenza nell’ospedale psichiatrico di Rodez, su suggerimento del suo medico, il dottor Ferdière. Diceva del resto Tzvetan Todorov che «il gioco di parole confina con l’anormale: è la follia delle parole».

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta nel numero #00 di Lucha Libre Magazine, rivista di narrativa critica illustrata.

Requiem, Antonio Tabucchi

Può cogliere impreparati, quel momento in cui ci si ritrova a fare i conti con la propria storia e il proprio passato, con i personaggi che vivono nella nostra memoria e le questioni rimaste in sospeso. È un attimo che si dilata, magari dopo che ci si è appisolati su una sdraio di tela, sotto un gelso, nella caldissima estate alentejana.  Aprire gli occhi e ritrovarsi sul molo di Alcântara a Lisbona, senza ombra, a mezzogiorno in punto. La città è deserta, passa solo qualche macchina con gli ombrelloni sul portabagagli, via verso le spiagge della Caparica.

Si fanno incontri strani in una giornata così: un Ragazzo Drogato che vuole duecento escudos, magari in due biglietti da cento perché sono carini, con sopra la faccia di Pessoa; uno Zoppo che vende biglietti della lotteria, legge Spinoza e crede nell’anima in un senso vitale e collettivo; un tassista di Sao Tomé che ancora non ha imparato i nomi delle strade della città. Su e giù per le strade strette di Lisbona, una tappa alla Brasileira do Chado per comprare una bottiglia di champagne che diventa subito calda, una zingara che vende magliette e coccodrilli autoadesivi, un incontro al cimitero, come in ogni storia di fantasmi che si rispetti.

Ma nel Requiem di Antonio Tabucchi i fantasmi sono fatti di carne e sudore, bevono vini corposi e mangiano pietanze ricche, feijoada, sarrabulho alla moda del Douro, zuppe, salsicce, trippa e maiale, strutto e sangue cotto. Il cibo si oppone alla morte, la nega, la fa dimenticare per un attimo lungo il tempo di un pranzo all’osteria del signor Casimiro, tra stoviglie di terracotta unta e bicchieri pieni fino all’orlo di vino Reguengos. Poi, con la pancia piena, un pisolino tra le lenzuola pulite di una pensione non troppo perbene, il tempo di chiudere gli occhi, un’apparizione: la faccia onesta e i capelli biondi del Padre Giovane, vestito da marinaio, che parla in portoghese e interroga il figlio sulla propria morte.

L’episodio è autobiografico: un sogno realmente sognato, sopra il quale Tabucchi ha costruito questo romanzo che è un po’ un sogno e un po’ un’allucinazione. Lo racconta in un saggio del 1999 intitolato Un univers dans une sillabe. Promenade autour d’un roman (Un universo in una sillaba. Vagabondaggio intorno a un romanzo), che affronta questioni come il bilinguismo, l’alloglossia, le lingue straniere e le lingue materne, passando per il mito di Orfeo e Euridice, la fonologia, la dimensione dell’oralità in generale e la dimensione onirica da un punto di vista antropologico, psicologico e psicanalitico.

È un saggio di teoria letteraria, ma è anche, e soprattutto, uno scritto molto personale, in cui parla della malattia del padre, costretto al silenzio da un cancro alla laringe, e del tempo passato a comunicare con lui attraverso una lavagnetta, scrivendo e cancellando una parola dopo l’altra. Sette anni dopo la sua morte, in un albergo a Parigi, sogna quel volto e quella voce: il tono e l’inflessione sono quelli del toscano rustico della sua infanzia, ma suo padre si esprime in portoghese, lingua che non conosceva – causando un po’ di sconcerto nel figlio, il quale nella stessa lingua chiede: Porque è que me estás a falar em português, pai? Se da un lato questo dialogo immaginato porta con sé l’incongruità tipica dei sogni, dall’altro è proprio il suono di queste parole a evocare e convocare il padre morto, rendendo la sua presenza concreta e tangibile.

Racconta poi Tabucchi che, la mattina seguente, seduto a un caffè nel Marais, provò a mettere per iscritto quel sogno: e fu in portoghese che si rese possibile il passaggio insidioso dal materiale onirico a quello diegetico. Requiem si sviluppò a partire da queste pagine e fu, infatti, scritto in quella lingua “altra” che era, per l’autore, luogo di affetto e di riflessione. La sillaba che dà il titolo al saggio citato è /pa/, che, nel lessico privato del padre e del figlio, indicava allo stesso tempo l’uno e l’altro, /pa’/ apocope di padre e /pá/ contrazione di rapaz, ragazzo; una parola che apparteneva solo a loro due, una parola minuscola che conteneva, però, un universo intero. Sta forse in questa polifonia dell’affetto il senso di Requiem: un libro fatto di voci, accenti, racconti, attraverso i quali l’io narrante tenta di venire a capo della propria storia.

Congedato il Padre, prosegue il suo cammino sotto un cielo azzurro esagerato e distante, come un’allucinazione, si fa offrire un cocktail dal Barista del Museo di Arte Antica, apprende da un Copista i segreti delle Tentazioni di Sant’Antonio di Bosch, aiuta il Controllore del Treno a risolvere un cruciverba, ripercorre con la Moglie del Guardiano del Faro le stanze in cui è stato felice, gioca a biliardo con il Maître della Casa do Alentejo. Aspetta al bancone Isabel, la donna che ha amato – ma una spietata ellissi narrativa ci impedisce di sapere come si svolge il loro incontro.

Poi il ritorno a Lisbona, altri fantasmi, e infine l’appuntamento più atteso, quello col Convitato, a mezzanotte al molo: una cena elegante che diventa un passaggio di consegne, un omaggio e un commiato a un poeta, un padre, un maestro: Fernando Pessoa. Volge così al termine una lunga giornata di tribolazione e purificazione. Si sta facendo sempre più tardi, è ora di dormire: boa noite, e buoni sogni.

Antonio Tabucchi, Requiem, Feltrinelli, Milano 1992, traduzione di Sergio Vecchio. Titolo originale dell’edizione portoghese: Requiem. Uma alucinação, Quetzal Editores, Lisbona 1991. Il saggio Un univers dans une sillabe. Promenade autour d’un roman, è apparso per la prima volta in “La Nouvelle Revue Française”, 550 (1999), poi in portoghese nella sesta edizione di Requiem (Quetzal Editores, Lisbona 1999) col titolo A Voz, as Lìnguas. Vagabundagem a volta de um romance e infine pubblicato in Italia come Un universo in una sillaba. Vagabondaggio intorno a un romanzo nella raccolta di saggi Autobiografie altrui. Poetiche a posteriori (Feltrinelli 2003).

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta nel numero #01 di Lucha Libre Magazine, rivista di narrativa critica illustrata.

Treno di notte per Lisbona

© Alessandra Vita
© Alessandra Vita

Treno di notte per Lisbona racconta la storia di Gregorius, un noioso professore svizzero di greco e latino che una mattina fredda e piovosa, mentre si reca a scuola, si imbatte in una donna misteriosa che sta per buttarsi da un ponte. Si lancia verso di lei, la agguanta e la salva. L’incontro lo porta a scoprire un ancor più misterioso libro portoghese e d’un tratto decide di mettersi sulle tracce dell’autore, Amadeu de Prado. Salta giustappunto su un treno di notte per Lisbona e, una volta arrivato in Portogallo, scopre che Amadeu era un medico vissuto al tempo della dittatura di Salazar. Il racconto si sviluppa intorno agli scritti lasciati da Amadeu e ai tentativi di Gregorius di ricostruire la sua vita e il suo pensiero.

Cosa mi è piaciuto.

Le descrizioni della luce che brilla a Lisbona: “Se l’indomani Lisbona non fosse stata immersa in quella luce d’incanto, pensò in seguito Gregorius, le cose forse avrebbero preso tutta un’altra piega. Forse sarebbe andato all’aeroporto e si sarebbe imbarcato sul primo volo per Berna. Ma la luce impediva ogni tentativo di tornare sui propri passi. La sua radianza aveva il potere di rendere il passato qualcosa di remoto, pressoché irreale, e davanti a quello splendore la volontà perdeva ogni ombra gettata dal passato e non restava che procedere verso il futuro, quale che fosse”.

Una frase molto bella, che Amadeu ripeteva sempre: “l’immaginazione, il nostro ultimo santuario”. Al di là della politica, della religione e di tutte le sovrastrutture, la capacità di creare nuovi mondi col pensiero resta lo strumento più potente che abbiamo per sfuggire alle miserie del quotidiano.

Cosa non mi è piaciuto.

Diciamocelo, è un libro un po’ palloso. Le annotazioni di Amadeu a volte sono di una pesantezza estrema e più che a Montaigne e al desassossego di Pessoa fanno pensare al diario di un adolescente irrequieto lì lì per tagliarsi le vene. In generale, lo stile è talmente libresco che i dialoghi arrancano, sono poco naturali e molto artificiosi. L’innaturalezza è un po’ la cifra di questo romanzo, sia nella rievocazione del passato, sia nel racconto del presente. I personaggi sono ingessati nei loro gesti e nei loro pensieri e ogni gesto e ogni pensiero assume una portata esagerata.

——————————————

Più che altro, al di là del suo valore letterario sicuramente non eccelso, il romanzo è interessante per le questioni che pone, su cui poi ognuno può fare le sue riflessioni: la vita come un viaggio e noi passeggeri di un treno che non sappiamo che direzione prenderà. E ancora: come il nostro agire sia visto e interpretato da chi ci sta intorno e l’illusione dell’intimità, come e in che termini possiamo vivere con lealtà e onestà nei confronti di noi stessi e degli altri, la felicità della compiutezza e l’angoscia dell’incompiutezza dell’esistenza.

Il tempo che scorre: “Da cosa dipende che si sperimenti un mese come un tempo pienamente vissuto, un tempo nostro invece che un tempo da cui siamo stati solo sfiorati, che abbiamo solo patito, che ci è scivolato tra le dita tanto da apparirci un tempo perduto, un appuntamento mancato di cui ci rattristiamo non perché è passato, ma perché non siamo riusciti a trarne nulla?”. La crisi di mezza età e pensieri di questo tipo portano Gregorius ad abbandonare di punto in bianco la sua cattedra e la monotona routine bernese per i cieli azzurri di Lisbona, sulle tracce di un uomo a cui tutto questo pensare ha fatto scoppiare il cervello. Un cercare l’altro che diventa un cercare se stesso: perché alla fine il senso sta tutto qua. Passiamo la vita a cercarci e chissà se poi ci troviamo. Il finale rimane aperto.

——————————————

Solo poco prima di finire il libro ho scoperto che nel 2013 il regista danese Bille August ha fatto di Treno di notte per Lisbona un film con grandi attori (Jeremy Irons, Charlotte Rampling, Mélanie Laurent, Bruno Ganz, Christopher Lee), di produzione tedesca/svizzera/portoghese. Mi sono incuriosita e l’ho visto la sera stessa in cui ho finito il libro. E’ abbastanza fedele al libro, anche se molti episodi e alcuni personaggi (Maria Joao, Mélodie, Silveira) sono tagliati. Inoltre le date non coincidono: Amadeu è di vent’anni più giovane e muore il giorno della rivoluzione dei garofani, invece che nel 1973. Sarei portata a dire che la versione cinematografica è una boiata pazzesca ma sarei ingiusta, alla fine si fa vedere. Però:

1) di un libro complesso rimane solo un esile filo narrativo che si riduce al cliché del più banale triangolo amoroso;

2) il grande tema politico e morale scompare praticamente del tutto, al punto che, come suggerito beffardamente dalla recensione di Variety, “il film fa apparire la resistenza portoghese pericolosa quanto mangiare un pastel de nata“;

3) il film è stato girato tutto in inglese e questo manda alla malora uno dei discorsi portanti del libro e cioè il tema della comunicabilità, delle lingue e delle parole (che è l’aspetto del libro che mi ha affascinato di più). Rimango sempre perplessa guardando quei film in cui la questione linguistica – sopratutto quando gioca un ruolo così importante – viene risolta alla carlona con la soluzione “ma si, facciamo parlare tutti la stessa lingua!”.

Insomma, concordo con la Aspesi che l’ha definito un “polpettonissimo”: buono per una serata di pioggia, da guardare magari con una bottiglia di Porto a fianco.

Pascal Mercier, Treno di notte per Lisbona, prima ed. italiana Mondadori 2006. Titolo originale Nachtzug nach Lissabon, traduzione dal tedesco Elena Broseghini. Vincitore nel 2007 del Premio Grinzane-Cavour. // Treno di notte per Lisbona (Night Train to Lisbon) di Bille August, 2013. Prod. Germania/Svizzera/Portogallo.

Trieste tra le pagine: Slataper, Svevo, Joyce, Saba

Canottieri_Trieste
Canottieri a Trieste, visti dal Molo Audace

Trieste è un luogo particolare. Una città di frontiera, che le vicende storiche hanno isolato a lungo dal resto d’Italia, punto d’incontro tra lingue e culture diverse, sospesa tra il mito mitteleuropeo e quello di una letteratura unica, inquieta, malinconicamente enracinée. Sono molti i personaggi che hanno reso Trieste luogo fortissimamente letterario: incontriamo Scipio Slataper, caduto sul Podgora nel 1915 a soli ventisette anni, che cammina di notte per i vicoli della città vecchia, annoiato e a disagio mentre visioni postribolari si succedono davanti ai suoi occhi di ragazzo, o all’alba lungo i moli, osservando il frenetico svegliarsi del porto e dei suoi lavoranti: Il sole strabocca aranciato sul retto filo grigio dei magazzini. Il sole è chiaro sul mare e nella città. Sulle rive Trieste si sveglia piena di moto e colori (da Il mio carso, 1912).

Tramonto_Trieste
Il sole, mentre strabocca aranciato…

È un lungo elenco che inizia come una favola a raccontare la Trieste di Svevo:

 C’era una volta un’imperialregia città austroungarica fornita di:

- 200.000 e rotti abitanti, fra cui slavi, tedeschi, greci, albanesi, inglesi, armeni,   ungheresi, italiani aborigeni e italiani regnicoli, levantini in genere;
- 5498 ebrei, sale della terra;
- qualche migliaio di banche e compagnie d’assicurazione;
- uno sterminio di ditte commerciali;
- quattro porti con relative navi, fumo, puzza e inquinamento;
- cinque cimiteri di cinque religioni diverse;
- chiese cattoliche, greco-orientali, serbo-orientali, protestanti, sinagoghe, taverne,  caffè concerto, tabarin, postriboli, biblioteca, associazioni letterarie, musei, 
  teatri, scuole in tre lingue;
- liberali, conservatori, irredentisti di parte slava e di parte italiana, socialisti,   qualunquisti;
- un agguerrito ufficio della K. und K. Polizei per sorvegliare tutta questa gente;
- un segretissimo distaccamento dell’Evidenz Bureau (controspionaggio imperiale) 
  per meglio controllare il tutto;
- un arciduca morto ammazzato come Imperatore del Messico, rarità assoluta;
- un insegnante di inglese alla Berlitz School che si chiamava James Joyce.

In siffatto strabiliante panorama non poteva mancare uno sconcertante caso 
clinico-letterario di doppia personalità. Stiamo parlando naturalmente di 
Ettore Schmitz, in arte Italo Svevo (…).[1]

In questa città che sembra un romanzo nasce e vive l’autore della Coscienza di Zeno. Scarse o volutamente falsate le notazioni topografiche in Una vita, più precise quelle di Senilità (Emilio ed Angelina amarono in tutte le vie suburbane di Trieste. Dopo i primi appuntamenti, abbandonarono Sant’Andrea che era troppo frequentato, e per qualche tempo preferirono la strada d’Opicina fiancheggiata da ippocastani folti, larga, solitaria, una salita lenta quasi insensibile).

Poi, nel 1905, l’incontro con James Joyce, le lezioni d’inglese, l’amicizia, il sodalizio letterario. Anche l’arrivo di Joyce a Trieste è romanzesco; lo scrittore

è arrivato a Trieste una bella mattina di due anni prima, dopo aver sbagliato fermata 
ed essere sceso a Lubiana alle quattro del mattino (inoltre lascia la moglie alla 
stazione, va in cerca di via S. Niccolò dove c’è la Berlitz School, si imbatte in una 
rissa di marinai inglesi, si intromette per far da paciere, arriva l’imperialregia 
polizia e impacchetta tutti, mentre la moglie lo aspetta imperterrita sulla 
panchina).[2]

Nel 1923 venne pubblicato La coscienza di Zeno; piacque a Montale, il successo tanto aspettato arrivò (anche se molte critiche furono mosse allo stile del romanzo), e Svevo fu ripagato di tutte le precedenti delusioni letterarie.

Trieste_Piazza Unità d'Italia
Trieste, Piazza Unità d’Italia

Trieste è stata raccontata anche dai poeti: quella di Saba è oggetto di un amore conflittuale, spesso desolata («la topografia della Trieste sabiana è una mappa della tristezza»[3]) e di tanto in tanto, di luogo in luogo, serena: via del Monte è la via dei santi affetti / ma la via della gioia e dell’amore / è  sempre via Domenico Rossetti. Via della Pietà, invece, accennava all’aspetto una sventura / sì lunga e stretta come una barella. Ma leggere Saba solamente in chiave triestina è limitativo; più che la città di Trieste, ha cantato la Città: i personaggi universali che si aggirano per i suoi vicoli (…prostituta e marinaio, il vecchio / che bestemmia, la femmina che bega, / il dragone che siede alla bottega / del friggitore, / la tumultuante giovane impazzita / d’amore) sono umili, ma vicini per questo alle cose più grandi e profonde: sono tutte creature della vita / e del dolore; / s’agita in esse, come in me, il Signore.

Tramonto_Trieste
Il tramonto dal Molo Audace

Un articolo di Corrado Stajano, apparso su «Tempo» illustrato il 23 novembre 1969, racconta un suo viaggio nel capoluogo friulano a cinquant’anni dall’annessione. Il giornalista vi trova risentimento, tristezza, e fantasmi asburgici; la città cosmopolita del passato non c’è più, gli uomini di cultura sono partiti, è difficile parlare di eredità mitteleuropea. Ma il mito dello scrittore è immacolato, tutti scrivono a Trieste. Il ritratto di Stajano è abbastanza desolante, ma più che mai dalle sue parole emerge un luogo fortissimamente letterario, impregnato delle rappresentazioni che negli anni ne hanno dato poeti e romanzieri.

E oggi, che ne è di Trieste? Nel mio ricordo una città elegante, un tramonto sul mare arancione, i caffè in cui insieme all’espresso arriva un bicchierino di cioccolata calda, il bollito misto da Pepi – con la senape e il rafano grattugiato che sgrassa la bocca, e un boccale di Dreher. Niente bora, ma il soffio persistente delle parole che l’hanno raccontata.

IMG_4948
Trieste, la statua delle Sartine

Questo post rielabora un brano della mia tesi di laurea, dedicata all’analisi dei Luoghi letterari di Giampaolo Dossena.

[1] Giampaolo Dossena, Luoghi letterari. Paesaggi, opere e personaggi, Sylvestre Bonnard, Milano 2003, p. 650-651.

[2] Ivi, p. 653.

[3] Ivi, p. 656.