Requiem, Antonio Tabucchi

Può cogliere impreparati, quel momento in cui ci si ritrova a fare i conti con la propria storia e il proprio passato, con i personaggi che vivono nella nostra memoria e le questioni rimaste in sospeso. È un attimo che si dilata, magari dopo che ci si è appisolati su una sdraio di tela, sotto un gelso, nella caldissima estate alentejana.  Aprire gli occhi e ritrovarsi sul molo di Alcântara a Lisbona, senza ombra, a mezzogiorno in punto. La città è deserta, passa solo qualche macchina con gli ombrelloni sul portabagagli, via verso le spiagge della Caparica.

Si fanno incontri strani in una giornata così: un Ragazzo Drogato che vuole duecento escudos, magari in due biglietti da cento perché sono carini, con sopra la faccia di Pessoa; uno Zoppo che vende biglietti della lotteria, legge Spinoza e crede nell’anima in un senso vitale e collettivo; un tassista di Sao Tomé che ancora non ha imparato i nomi delle strade della città. Su e giù per le strade strette di Lisbona, una tappa alla Brasileira do Chado per comprare una bottiglia di champagne che diventa subito calda, una zingara che vende magliette e coccodrilli autoadesivi, un incontro al cimitero, come in ogni storia di fantasmi che si rispetti.

Ma nel Requiem di Antonio Tabucchi i fantasmi sono fatti di carne e sudore, bevono vini corposi e mangiano pietanze ricche, feijoada, sarrabulho alla moda del Douro, zuppe, salsicce, trippa e maiale, strutto e sangue cotto. Il cibo si oppone alla morte, la nega, la fa dimenticare per un attimo lungo il tempo di un pranzo all’osteria del signor Casimiro, tra stoviglie di terracotta unta e bicchieri pieni fino all’orlo di vino Reguengos. Poi, con la pancia piena, un pisolino tra le lenzuola pulite di una pensione non troppo perbene, il tempo di chiudere gli occhi, un’apparizione: la faccia onesta e i capelli biondi del Padre Giovane, vestito da marinaio, che parla in portoghese e interroga il figlio sulla propria morte.

L’episodio è autobiografico: un sogno realmente sognato, sopra il quale Tabucchi ha costruito questo romanzo che è un po’ un sogno e un po’ un’allucinazione. Lo racconta in un saggio del 1999 intitolato Un univers dans une sillabe. Promenade autour d’un roman (Un universo in una sillaba. Vagabondaggio intorno a un romanzo), che affronta questioni come il bilinguismo, l’alloglossia, le lingue straniere e le lingue materne, passando per il mito di Orfeo e Euridice, la fonologia, la dimensione dell’oralità in generale e la dimensione onirica da un punto di vista antropologico, psicologico e psicanalitico.

È un saggio di teoria letteraria, ma è anche, e soprattutto, uno scritto molto personale, in cui parla della malattia del padre, costretto al silenzio da un cancro alla laringe, e del tempo passato a comunicare con lui attraverso una lavagnetta, scrivendo e cancellando una parola dopo l’altra. Sette anni dopo la sua morte, in un albergo a Parigi, sogna quel volto e quella voce: il tono e l’inflessione sono quelli del toscano rustico della sua infanzia, ma suo padre si esprime in portoghese, lingua che non conosceva – causando un po’ di sconcerto nel figlio, il quale nella stessa lingua chiede: Porque è que me estás a falar em português, pai? Se da un lato questo dialogo immaginato porta con sé l’incongruità tipica dei sogni, dall’altro è proprio il suono di queste parole a evocare e convocare il padre morto, rendendo la sua presenza concreta e tangibile.

Racconta poi Tabucchi che, la mattina seguente, seduto a un caffè nel Marais, provò a mettere per iscritto quel sogno: e fu in portoghese che si rese possibile il passaggio insidioso dal materiale onirico a quello diegetico. Requiem si sviluppò a partire da queste pagine e fu, infatti, scritto in quella lingua “altra” che era, per l’autore, luogo di affetto e di riflessione. La sillaba che dà il titolo al saggio citato è /pa/, che, nel lessico privato del padre e del figlio, indicava allo stesso tempo l’uno e l’altro, /pa’/ apocope di padre e /pá/ contrazione di rapaz, ragazzo; una parola che apparteneva solo a loro due, una parola minuscola che conteneva, però, un universo intero. Sta forse in questa polifonia dell’affetto il senso di Requiem: un libro fatto di voci, accenti, racconti, attraverso i quali l’io narrante tenta di venire a capo della propria storia.

Congedato il Padre, prosegue il suo cammino sotto un cielo azzurro esagerato e distante, come un’allucinazione, si fa offrire un cocktail dal Barista del Museo di Arte Antica, apprende da un Copista i segreti delle Tentazioni di Sant’Antonio di Bosch, aiuta il Controllore del Treno a risolvere un cruciverba, ripercorre con la Moglie del Guardiano del Faro le stanze in cui è stato felice, gioca a biliardo con il Maître della Casa do Alentejo. Aspetta al bancone Isabel, la donna che ha amato – ma una spietata ellissi narrativa ci impedisce di sapere come si svolge il loro incontro.

Poi il ritorno a Lisbona, altri fantasmi, e infine l’appuntamento più atteso, quello col Convitato, a mezzanotte al molo: una cena elegante che diventa un passaggio di consegne, un omaggio e un commiato a un poeta, un padre, un maestro: Fernando Pessoa. Volge così al termine una lunga giornata di tribolazione e purificazione. Si sta facendo sempre più tardi, è ora di dormire: boa noite, e buoni sogni.

Antonio Tabucchi, Requiem, Feltrinelli, Milano 1992, traduzione di Sergio Vecchio. Titolo originale dell’edizione portoghese: Requiem. Uma alucinação, Quetzal Editores, Lisbona 1991. Il saggio Un univers dans une sillabe. Promenade autour d’un roman, è apparso per la prima volta in “La Nouvelle Revue Française”, 550 (1999), poi in portoghese nella sesta edizione di Requiem (Quetzal Editores, Lisbona 1999) col titolo A Voz, as Lìnguas. Vagabundagem a volta de um romance e infine pubblicato in Italia come Un universo in una sillaba. Vagabondaggio intorno a un romanzo nella raccolta di saggi Autobiografie altrui. Poetiche a posteriori (Feltrinelli 2003).

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta nel numero #01 di Lucha Libre Magazine, rivista di narrativa critica illustrata.

Geografie letterarie

Questo libro, oltre che un’insonnia, è un viaggio. L’insonnia appartiene a chi ha scritto il libro, il viaggio a chi lo fece. Tuttavia, dato che anche a me è capitato di percorrere gli stessi luoghi che il protagonista di questa vicenda ha percorso, mi è parso opportuno fornire di essi un breve indice. Non so bene se a ciò ha contribuito l’illusione che un repertorio topografico, con la forza che il reale possiede, potesse dare luce a questo Notturno in cui si cerca un’ombra; oppure l’irragionevole congettura che un qualche amante di percorsi incongrui potesse un giorno utilizzarlo come guida.

Antonio Tabucchi, Nota a Notturno indiano, prima edizione Sellerio 1984.

Il rapporto tra i luoghi e la loro rappresentazione letteraria mi ha sempre incuriosito molto. Ad esempio, nel Notturno indiano, il narratore viaggia pigramente tra luoghi topograficamente esatti e individuati, soggiorna in un lussuoso hotel di Bombay, fa tappa in un sudicio bordello, intrattiene conversazioni filosofiche su un treno diretto a Madras, cammina sulle spiagge di Goa. 

Eppure sono luoghi trasfigurati, mitici, traboccanti di significato. Più banalmente e senza scomodare la letteratura, ogni luogo, quando viene raccontato, diviene il racconto che di esso offriamo, attraverso il filtro del nostro vissuto o della nostra interpretazione. 

Viaggiare è una questione fortemente personale, che lascia molto poco spazio a giudizi oggettivi: ma anche il racconto più personale e il percorso più incongruo possono servire da traccia  ad altri viaggiatori in cerca di suggestioni.

La piccola saudade

Uno degli aspetti che più mi affascina della lingua portoghese è l’uso dei suffissi, molto più marcato che nella lingua italiana. Ogni parola può cambiare di dimensione e significato grazie a qualche lettera che ne modifica la terminazione; i suffissi arricchiscono l’oggetto o concetto cui si riferiscono delle più varie sfumature.

Ma il grande tesoro della lingua portoghese è la parola saudade: una parola-mondo, che non esiste in nessuna altra lingua, che non ha sinonimi né corrispondenze. Tutta la cultura portoghese, a partire dal fado, è impregnata di questo sentimento, che Antonio Tabucchi ha cercato di spiegare così:

Un grande linguista ha detto che è impossibile spiegare il senso della parola formaggio a una persona che non ha mai assaggiato un formaggio. Per capire cos’è la saudade, dunque, niente di meglio che provarla direttamente. Il momento migliore è ovviamente il tramonto, che è l’ora canonica della saudade, ma si prestano bene anche certe sere di nebbia atlantica, quando sulla città scende un velo  e si accendono i lampioni. Li, da soli, guardando questo panorama davanti a voi, forse vi prenderà una sorta di struggimento. La vostra immaginazione, facendo uno sgambetto al tempo, vi farà pensare che una volta tornati a casa e alle vostre abitudini vi prenderà la nostalgia di un momento privilegiato della vostra vita in cui eravate in una bellissima e solitaria viuzza di Lisbona a guardare un panorama struggente. Ecco, il gioco è fatto: state avendo nostalgia del momento che state vivendo in questo momento. E’ una nostalgia al futuro. Avete sperimentato di persona la saudade.

[Antonio Tabucchi, Viaggi e altri viaggi, Feltrinelli coll. I Narratori pag. 168]

Ci sono usi più quotidiani, seppur poeticissimi, della saudade: ad esempio, se sentiamo la mancanza di un amico lontano, possiamo dirgli tenho saudades tuas. Mi manchi, ma in un senso profondo, contradditorio, ti penso e il tuo pensiero mi rallegra e allo stesso tempo mi intristisce, perché non so quando ci rivedremo, perché so che i momenti passati insieme non torneranno, perché quei momenti spensierati li rivivo ogni volta che ti penso. 

La saudade è un bel casino. È sfiancante, è immensa. È un sentimento che mi perseguita: saudade degli amici che ho incontrato, delle strade che ho percorso, delle canzoni che ho ascoltato. Questo spazio nasce principalmente per questo, per matar a saudade, per trovare un posto ai miei pensieri.

Nella sua accezione classica, la saudade è melanconica e struggente. Per questo ho scelto di usare un suffisso e trasformarla in una piccola saudadinha degli affetti e dei luoghi, per chi ne vorrà seguire le storie.

Il mio Portogallo

Lisboa

Mio, aggettivo possessivo, sta spudoratamente a indicare una sensazione di proprietà, possedimento, per la serie “è mio e guai a chi me lo tocca”. Alcune volte non è un bel sentimento: se riferito a un oggetto, può indicare un attaccamento spesso malsano alle cose materiali; se riferito a una persona, può indicare gelosia e sospetto. Altre volte, indica semplicemente un’adesione affettuosa, candida, una vicinanza e una comunanza. Messo accanto a un Paese intero, che vuol dire quell’aggettivo? Vuol dire un richiamo che non so spiegare, un sorriso scemo quando sento qualcuno parlare in portoghese sull’autobus a Milano, l’immagine di cieli pazzescamente azzurri. Il fastidio quando qualcuno lo critica, un altro sorriso scemo alla vista di un umile lupino, ore passate a decifrare le metafore nascoste nelle canzoni di Rui Veloso. Fatto sta che io di questo Paese vado pazza. Sono stata la prima volta in Portogallo nel febbraio del 2008, per un weekend lungo a Lisbona e dintorni: non ha fatto altro che piovere, ininterrottamente, per quattro giorni. Nubi nere, sanpietrini bagnati e scivolosi, alto rischio di finire sotto al tram 28 in una di quelle vie dell’Alfama talmente strette che o passi tu, o passa lui. Eppure io di quella città mi sono innamorata, nonostante il vento freddo e le calze sempre fradicie.

Poi due anni dopo sono finita in Estonia e, strano ma vero, in Estonia c’erano un sacco di portoghesi, con alcuni dei quali ho stretto delle amicizie destinate a durare. Quando parlavano fitto fitto tra di loro in portoghese però non capivo una parola, e la cosa mi indispettiva assai. Mi affascinava moltissimo quella loro lingua piena di shh e di suoni nasali (cão, pão, mão!), allora mi sono impuntata e ho deciso che l’avrei imparata. Sono partita con i numeri da uno a dieci, le parolacce e le drinking songs (i grandi classici dell’erasmus), poi piano piano ho iniziato a formulare le prime frasi, anche se i miei amici mi prendevano in giro per l’accento brasiliano. Tornata in Italia ho continuato a studiare con l’Assimil, che è un metodo fantastico per imparare le lingue, se si ha la costanza di arrivare fino alla fine del libro, ovvero fino al centesimo dialogo surreale.

Sono iniziati i miei pellegrinaggi portoghesi e ho scoperto le strade di Porto, le tradizioni studentesche di Coimbra, le colline del Ribatejo e le onde dell’Algarve. Ogni volta che tornavo mi trovavo talmente bene che sono finita a passare tre mesi nella piovosa Viseu, a bere i vini del Dão e del Douro, a mangiare zuppe e tostas mistas; in quel periodo ho visto le processioni pasquali di Braga e i canali di Aveiro, bevuto la puzzolente e a quanto pare molto salutare acqua termale di Chaves, salito gli innumerevoli scalini del Bom Jesus do Monte. Questa estate sono tornata per l’ennesima volta, per un road trip da Porto in giù, passando per Batalha, Tomar, Nazaré, Abrantes, Obidos, Zambujeira do Mar, il Parque do Sudoeste Alentejano e Costa Vicentina, Sagres e Cabo São Vicente, le acque blu dell’Algarve, infine risalendo per l’Alentejo interior (Alcoutim, Mértola, Serpa, Monsaraz, Evora e i siti megalitici…) fino a Lisbona e Cascais. Oggi parlo portoghese, mais ou menos, ma i suoi suoni continuano a affascinarmi come la prima volta che l’ho ascoltato. Vorrei raccontarlo tutto questo mio Portogallo, un po’ per averlo sempre con me, un po’ come riconoscimento per avermi fatto quel regalo impegnativo e bellissimo che è la saudade.

Lisbona

Post scriptum. I biografi dicono che Antonio Tabucchi si imbattè per la prima volta nella lingua portoghese a Parigi negli anni Sessanta, quando scoprì su una bancarella nei pressi della Gare de Lyon un libriccino che conteneva la traduzione francese della poesia Tabacaria firmata con il nome di Alvaro de Campos, uno degli eteronimi di Fernando Pessoa. Inizia così:

Não sou nada / Nunca serei nada / Não posso querer ser nada / À parte isso, tenho em mim todos os sonhos do mundo. [Non sono niente / Non sarò mai niente / Non posso voler essere niente / A parte questo, ho dentro me tutti i sogni del mondo]

Magari si era fermato per caso a quella bancarella, perché era arrivato alla stazione con troppo anticipo. Come che sia, fu leggendo quelle righe che si appassionò alla lingua e alla letteratura portoghese e, soprattutto, a Fernando Pessoa, di cui è stato il massimo conoscitore in Italia nonché traduttore dell’opera omnia. Menomale che a quella bancarella ci si è fermato: io devo molto a Tabucchi, perché penso che la lettura dei suoi libri abbia contribuito a formare l’idea che dentro di me ho del Portogallo e la sostanza letteraria di questa saudade che ha anche il profumo dell’omelette alle erbe aromatiche  di cui è ghiotto Pereira.