Jakarta, the big durian

Sunda Kelapa old port

Tutti conoscono The Big Apple, la grande mela, ovvero il nomignolo col quale è soprannominata New York. Forse però non tutti sanno che in Oriente c’è un’altra città-frutto sicuramente meno famosa e bella, ma a suo modo interessante. Si tratta di Jakarta, amichevolmente chiamata The Big Durian, come il frutto asiatico più controverso di sempre. Controverso perché non ci si riesce a mettere d’accordo sul suo gusto, alcuni sostengono sia rivoltante, altri prelibato. Si dice che abbia l’odore dell’inferno (è vietato portarlo in aereo, sui mezzi pubblici e nelle camere d’albergo) e il sapore del paradiso… personalmente lo trovo piuttosto disgustoso, ma in Asia stravedono per lui. Un’altra teoria sostiene che Jakarta, come il durian, vada provata tre volte prima di apprezzarla. Fuor di metafora, Jakarta è allo stesso tempo respingente e seduttiva, è the place to be per ogni ragazzo indonesiano che vuole far fortuna – vengono qua da ogni parte del paese e la città cresce, si espande dissennatamente, in verticale con i grattacieli e in orizzontale con gli slums.

La povera Jakarta soffre del complesso della città brutta ed è finita, suo malgrado, in un circolo vizioso: i turisti non la visitano perché ha fama di essere brutta ed è effettivamente brutta perché, essendoci pochi visitatori, l’amministrazione non ritiene prioritario investire sulle strutture turistiche. Ci sono poi dei problemi che vanno al di là del turismo e che creano disagio in primo luogo a chi a Jakarta vive: ad esempio il fatto che non ci sia una rete metropolitana rende davvero complicati gli spostamenti, in una città da oltre 10 milioni di abitanti! Una delle questioni scottanti di Jakarta è per l’appunto il traffico, perennemente congestionato; le automobili rimangono imbottigliate mentre sciami di motorini ronzano loro attorno, i temerari pedoni soccombono tra i fumi dei gas di scarico. Nei giorni in cui l’abbiamo visitata noi probabilmente c’era addirittura più traffico del solito perché quest’anno la città ospitava la XVIII edizione degli Asian Games, le Olimpiadi d’Oriente. Sarebbe stato bello vedere qualche gara ma purtroppo non ci siamo organizzati per tempo. Spoiler: la Cina ha sbancato il medagliere.

Effettivamente la città non abbonda di luoghi convenzionalmente belli, e molti turisti si limitano a visitarne i centri commerciali. Fatto sta che a noi i posti con una pessima fama incuriosiscono e abbiamo deciso di passare un paio di giorni a Jakarta per darle un’occhiata. Come da tradizione abbiamo cercato un free walking tour e ci siamo imbattuti in Huans di Jakarta Good Guide, che ci ha portati in giro per la città vecchia, cioè quel che resta dell’antica Batavia, capitale delle Indie Orientali. Jakarta ha infatti un passato coloniale: Batavia è il nome che le avevano dato gli olandesi, che spadroneggiarono sull’Indonesia per tre secoli e mezzo prima attraverso la Compagnia Olandese delle Indie Orientali (VOC) e poi direttamente tramite il governo coloniale. Anche il nome “Indonesia” è di derivazione coloniale – il nome originario del Paese è Nusantara, ovvero “arcipelago” in antico giavanese. Un nome che svela la varietà e la complessità di una nazione composita, formata da oltre tredicimila isole, ognuna con una fortissima identità culturale (il significativo motto nazionale è “uniti nella diversità”).

Huans e il suo gruppo offrono anche degli altri tour della città: uno esplora il vero e proprio city center, ovvero la zona che si sviluppa intorno al National Monument in Merdeka square, fatta principalmente di grattacieli e business center. Dice la Lonely Planet che il monumento è confidenzialmente chiamato dagli abitanti di J-town “l’ultima erezione di Sokarno”, il primo presidente dell’Indonesia indipendente. Un altro tour è dedicato a Glodok, la Chinatown della capitale indonesiana, che pare sia anche zona di ottimo street food. La comunità cinese non ha avuto vita facile a Jakarta: durante le rivolte del 1998 i cinesi indonesiani hanno subito violenze terribili e fino all’anno 2000 era addirittura proibito loro dare nomi cinesi ai figli e festeggiare il capodanno cinese, la loro festa più importante. A oggi tutte le religioni praticate nel Paese godono di eguali diritti. La legge stabilisce che bisogna credere in un Dio, non importa qualche, basta che in qualcuno/qualcosa si creda. L’ateismo, d’altro canto, è bandito.

Ci siamo incontrati con Huans alla stazione di Kota, la più antica stazione ferroviaria della città. Adesso serve principalmente le destinazioni poco distanti ed è usata dai pendolari che si recano ogni mattina a Jakarta per lavorare. È stata costruita alla fine del XIX secolo da un architetto olandese combinando art déco ed elementi architettonici locali; ha ariosi soffitti a volta, dettagli in ceramica e in legno di teak. Da qui, attraverso un sottopassaggio, siamo sbucati di fronte al National Bank Museum – se avete tempo di visitare un solo museo a Jakarta, scegliete questo. Il tema (la storia monetaria del Paese) è particolare, ma molto interessante. Siamo poi saliti a bordo di un angkot, ovvero un pulmino da una dozzina di posti circa che va fermato lanciandosi in mezzo alla strada e che ti porta più o meno dove devi andare; e ci siamo diretti al vecchio porto di Sunda Kelapa, che adesso è un po’ malandato ma una volta era il cuore del traffico marittimo di Batavia. Un marinaio ci ha portato in giro attraverso il porto sulla sua barchetta – è stato molto emozionante aggirarsi tra le navi vuote nel silenzio di un giorno di festa. Abbiamo anche fatto una incursione su una grossa nave da carico turchese, chissà se il capitano sarebbe stato d’accordo… Rientrati sulla barchetta abbiamo fiancheggiato giganteschi casermoni fantasma, baracche, ragazzini che ci sbracciavano per salutarci. Intorno al porto si sviluppa purtroppo una grande povertà e i cumuli di spazzatura e plastica si fanno più grandi giorno dopo giorno. Versano in uno stato di semi abbandono anche il museo marittimo, ospitato negli antichi edifici coloniali, e la “torre pendente” di Jakarta, l’antica vedetta. Passiamo accanto a tre luoghi emblematici: un albergo di lusso caduto in rovina, un caffè ristorante (bellissimo, negli spazi di una antico magazzino della VOC) fallito e l’antico ponte levatoio olandese, anch’esso male in arnese. C’è da anni in programma la riqualificazione della zona: speriamo che prima o poi avvenga davvero.

La grande sorpresa è stata Taman Fatahillah: una piazza strapiena di gente, ragazzi e ragazze seduti in circolo a chiacchierare, che manco alle colonne di San Lorenzo un sabato sera d’inizio estate (con la differenza che qua non ci sono le birre e le ragazze sono quasi tutte velate). Era il centro dell’antica Batavia e ai suoi lati ci sono tanti bei palazzi come le Poste Centrali e il vecchio Municipio (oggi un museo storico). Un buon posto per osservare il via vai è il Cafè Batavia, con i suoi tavolini che danno sulla piazza.

Per cena, su suggerimento di Huans, ci siamo fermati al Restaurant Merdeka (il nome non è particolarmente invitante, ma significa “indipendenza” in bahasa indonesia, e anche in malay – moltissime piazze in Indonesia e Malesia portano questo nome). È un ristorante che propone cucina Padang, dell’isola di Sumatra: funziona che ti siedi a tavola e il cameriere comincia a portare un’infinità di ciotole e ciotoline, addirittura impilandole le une sulle altre quando finisce lo spazio. I commensali scelgono cosa mangiare, rigorosamente senza posate; vengono poi addebitati sul conto solo i piattini effettivamente toccati. Il piatto più buono è probabilmente il rendang, una specie di stracotto dal sugo scurissimo e speziato. Mi è piaciuto anche il tempè fritto (sono fagioli di soia fermentati, in pratica un panetto di penicillina).

Per tornare verso il centro abbiamo preso l’autobus della TransJakarta che taglia verticalmente la città fino al Blok M. È curioso perché le fermate sono delle specie di gabbiotti sopraelevati nel mezzo delle strade. Alcuni autobus sono ladies only.

L’ultima tappa della serata è stato un elegante sky bar all’ultimo piano di un grattacielo bello alto: un posto davvero figo (si chiama Skye). La vista pazzesca, i cocktail molto buoni. La fauna eterogenea e a tratti inquietante: turisti con Birkenstock e braghe corte (noi), qualche esponente della Jakarta bene, businessmen cinesi sbronzi, giovani fanciulle asiatiche accompagnate a panzoni occidentali. Meglio rivolgere lo sguardo verso le ipnotiche mille luci della città verticale e ubriacarsi di vertigine.

Scendendo a velocità supersonica dal cinquantaseiesimo piano della BCA Tower abbiamo scambiato in ascensore due chiacchiere con un gruppo di alticci expat australiani e americani: dopo averci dimostrato la loro conoscenza dell’italiano a suon di bestemmie, ci hanno giurato che la vita a Jakarta, soprattutto quella notturna, è tutta da scoprire. Sempre la Lonely descrive Jakarta come città di movida sfrenata e club underground – non sappiamo quanto ciò corrisponda al vero, ma ci fidiamo (sicuramente non si beve molto, dato che è pur sempre la capitale di un Paese islamico).

Concludendo, confermo che il gusto di questo grande durian non è così male, dopo tutto. Jakarta non è bella, anzi è sporca, trafficata e confusionaria, ma nasconde angoli di grande dolcezza. Visitandola, anche di sfuggita come abbiamo fatto noi, si ha modo di squarciare il velo della società indonesiana e forse capire un pochino meglio questo popolo.

Due giorni a Kuala Lumpur

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Street art, Kuala Lumpur

Lo sgangherato pulmino raggiunge la grigia periferia di Kuala Lumpur sotto la pioggia battente e fulminea delle quattro del pomeriggio. Vediamo le famose torri in lontananza e tutti i turisti si affacciano dai finestrini per fotografarle, ma le punte sono immerse nella foschia e subito scompaiono dietro ad altri grattacieli. Quando il pulmino ci lascia nei pressi di un albergo a Chinatown ha appena smesso di piovere: la cappa si ricompone mischiandosi con i fumi densi che salgono dalle griglie e dai pentoloni che ribollono in strada, il fetore dei frutti di durian spappolati sui marciapiedi ci pizzica il naso. Schiviamo le pozze di acqua sporca inebriati dalle puzze di questa città confusionaria, che sa di Asia e petroldollari; il cui nome ho poi scoperto significare, in modo piuttosto appropriato, confluenza fangosa.

Dato che mancano ancora un paio d’ore al nostro appuntamento con Leonard usciamo di soppiatto dal quartiere e ci avviamo verso Bukit Nanas, la collina dove sorge l’altissima torre della televisione, chiamata Menara KL in malese e KL Tower in inglese. La strada è lunga e le nostre schiene sudano sotto il peso degli zaini, ma vogliamo guardare la città dall’alto. Arriviamo ai piedi della collina e boccheggianti iniziamo l’ascesa, finché gradino dopo gradino raggiungiamo la base della torre. Dopo tutta questa fatica ci aspetta una piccola delusione: il biglietto per salire in cima alla torre costa uno sproposito, e rinunciamo.

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Menara KL

Tanto si è fatto tardi e dobbiamo raggiungere Leonard, che ci ospiterà questa e la prossima notte. Abita dalle parti dell’Università, dove lavora come ricercatore nel campo delle fibre ottiche. Prendiamo la metro e poi un taxi – il colto tassista indiano ci coinvolge in un pericolosissimo discorso sulle religioni, sostenendo la presenza di Gesù nel pantheon delle divinità induiste e raccontandoci di un santone del suo paese sopravvissuto sette anni senza mangiare né bere. Non appena comincia a parlare del papa, sviamo il discorso sul calcio, che è sempre un ottimo argomento di conversazione; ovviamente il tassista ne sa più di me e comincia a elencare tutti i bomber dell’Inter che fu.

Ed ecco che la corsa finisce, di fronte a un complesso residenziale fatto di grattacieli altissimi. Superiamo la guardiola blindata con qualche diffidenza da parte dei portinai e decifriamo l’indirizzo del nostro ospite, zeppo di numeri e sigle; finalmente giungiamo a destinazione. Campanello, saluti e presentazioni – scopriamo che Leonard condivide l’appartamento con un gatto a cui piace pencolare dal davanzale e un misterioso inquilino che non esce mai dalla sua camera da letto. Abbandoniamo gli zaini alla mercé del gatto dalle tendenze suicide e usciamo a mangiare qualcosa in fondo alla strada in un ristorante all’aperto dove Leonard è cliente abituale. Mangiare fuori in Malesia è talmente economico che lui non cucina mai. Parlotta con la sua amica cameriera, che poco dopo ci riempie il tavolo di specialità malesi, ed è tutto buonissimo. La serata passa veloce tra chiacchiere annaffiate da bicchieroni di tè freddo al lime; finché ai primi sbadigli decidiamo di rientrare verso casa. Siamo all’ultimo piano del palazzo e la vista dal balcone è bella da mozzare il fiato: davanti a noi le mille luci dei grattacieli di KL e una luna lattiginosa che ci dà la buonanotte.

La mattina dopo ci svegliamo presto, perché abbiamo un solo giorno da passare a Kuala Lumpur e vogliamo fare tantissime cose – alcune le faremo, altre no. Stretti nell’autobus con le studentesse in divisa ci dirigiamo verso la stazione di KL Sentral, da dove prendiamo il trenino per le famose Batu Caves. Si tratta di un complesso di templi innalzati all’interno di incredibili grotte calcaree, adibite a luogo di culto induista a partire dal 1890 circa. Domina la scena l’enorme statua dorata di Lord Murugan, dio guerriero: con i suoi 42 metri, è la più alta statua al mondo a lui dedicata. Credevo fosse più antica, ma è stata edificata solo nel 2006. Fanno compagnia al dio decine e decine di scimmiette fameliche, che sorvegliano le folle di fedeli e turisti lungo la ripida scalinata e fin dentro le grotte. La maggior parte della colonia è tranquilla, ma assistiamo a un paio di agguati a tradimento, quindi meglio starne alla larga. In ogni caso la salita è molto suggestiva e, una volta raggiunte le grotte, si rimane incantati dalla magnificenza del luogo e dalla sua spiritualità – solo leggermente incrinata dalle urla belluine delle scimmie che attaccano i bambini e dai banchetti di souvenir che vendono riproduzioni in tutte le taglie della statua d’oro e carillon musicali dai colori fluo raffiguranti le varie divinità induiste. A causa della sempre maggiore affluenza (che raggiunge il suo apice durante la festa del Thaipusam in gennaio) hanno deciso di allargare la scalinata e al momento ci sono i lavori in corso, a cui tutti possono contribuire, portando per un pezzo o fino in cima un secchiello pieno di sabbia. I muratori ringraziano e speriamo che anche Lord Murugan apprezzi il gesto!

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Batu Caves

Poco sotto le grotte sacre si trovano delle altre caverne, denominate Dark Caves. Sono di tutt’altro tipo: l’esperienza non è mistica, ma speleologica. Muniti di caschetti e torce da testa ci inoltriamo nel buio alla scoperta di un affascinante ecosistema che ruota intorno alla cacca di pipistrello (il cosiddetto guano). La visita si snoda lungo un percorso che attraversa cinque ambienti diversi e si conclude in una spettacolare camera, attraversata da raggi di luce verticale che sbucano da una fessura sul cielo, a decine di metri di altezza. Il sito è protetto dalla Malaysian Nature Society e le visite sono guidate da ragazzi del luogo appassionati e competenti, molti dei quali sono studenti di geologia e scienze naturali: è una esperienza istruttiva e interessante. La caverna ospita una antica comunità di animali, vecchia oltre cento milioni di anni; tra le molte creature misteriose che si nascondono tra i suoi anfratti c’è il rarissimo ragno endemico Liphistius batuensis. Tra pinnacoli, colonne di pietra e incredibili formazioni calcaree, si fa esperienza del buio più buio – un’oscurità densa, il cui silenzio è interrotto solo dallo sgocciolio regolare dell’acqua che cola dalle stalattiti.

***

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Riprendiamo il trenino e ci catapultiamo per la seconda volta nel cuore pulsante di Kuala Lumpur, Chinatown. Il quartiere è un superbo esempio del calderone malese di religioni e culture: qua si possono trovare nella stessa via, l’uno di fronte all’altro, un tempio cinese e un tempio indù. Il primo è il Kuan Ti Temple, un piccolo santuario cinese affollato di fedeli che pregano e porgono agli dei offerte rituali. Il secondo è lo Sri Mahamariamman Temple, edificato nel 1873 dagli immigrati Tamil giunti a Kuala Lumpur per lavorare nelle piantagioni di caucciù e palma da olio o costruire la ferrovia. È colorato e inghirlandato: i cornicioni della scintillante torre d’ingresso traboccano di idoli danzanti, all’interno sono riprodotte scene del Ramayana. Da qua, durante la sanguinolenta festività indù del Thaipusam, parte il carro d’oro che  sfila per le vie della città trasportando l’effige del dio Murugan fino alle grotte di Batu.

Siamo a caccia di souvenir in Jalan Petaling quando ci sorprende il temporale. Ci rifugiamo nel ristorante cinese col tendone dall’aspetto più resistente, sperando che regga i metri cubi d’acqua che lo stanno riempiendo. Dalla nostra postazione guardiamo i venditori, per nulla turbati, attrezzarsi per proteggere la loro mercanzia; la gente corre nelle due direzioni cercando di sfuggire alla pioggia violenta, i turisti tedeschi estraggono dai marsupi provvidenziali impermeabili usa e getta di plastica colorata. Ne approfittiamo per fare merenda con involtini primavera e anatra laccata, aspettando che spiova.

Potremmo aspettare per ore, quindi a un certo punto decidiamo di affrontare il diluvio e ci mettiamo a correre sciacquettando nelle pozze. Ovviamente smette di piovere non appena raggiungiamo la nostra destinazione, la vecchia stazione ferroviaria, collegata alla fermata della KTM. Dalle vetrate della stazione vediamo i tozzi minareti rosa e le cupole a cipolla della Masjid Jamek, una delle più belle moschee di Kuala Lumpur. Fu innalzata proprio nel bel mezzo dell’antica confluenza fangosa tra i fiumi Klang e Gombak, dove a metà Ottocento i primi cercatori di stagno avevano  costruito le loro capanne. Sia la moschea che la stazione portano l’impronta di Arthur Benison Hubback, l’architetto di Liverpool che le progettò misturando lo stile islamico dell’India settentrionale alle influenze coloniali britanniche. Salutiamo il cielo che si squarcia, mentre scendiamo nella pancia di KL.

L’ultimo sole della giornata l’abbiamo lasciato per loro, le imponenti torri Petronas. Innalzate tra il 1995 e il 1998, hanno detenuto il primato degli edifici più alti del mondo fino al 2004. Usciamo dalla metropolitana e ci si parano davanti, le accompagniamo con lo sguardo e sembra che non finiscano più. Per avere la vista migliore bisogna allontanarsi un po’ e raggiungere il piazzale antistante, dove un furbo ometto vende delle lenti curve da posizionare sopra il cellulare per scattare foto dall’effetto occhio di pesce e inquadrare così le torri in tutta la loro grandiosità. Vedi persone che saltano, si piegano, si accovacciano alla ricerca della foto ricordo perfetta – lo schermo del telefonino è piccolo e le torri non ci stanno tutte dentro. Anche noi veniamo colti dal raptus e cominciamo a scattare, scattare, mentre i colori mutano, la luce si affievolisce e il cielo da grigio si fa prima blu e poi nero. Man mano che i minuti passano le torri gemelle dalla base a otto punte (che è al tempo stesso un riferimento all’architettura islamica e di buon auspicio secondo la numerologia cinese) sono sempre più spettacolari e ipnotiche, soprattutto quando alle luci del giorno si sostituiscono le gialle luci elettriche, che contrastano lo scuro della sera. Potremmo stare a fissarle per ore – purtroppo o per fortuna, siamo di nuovo in ritardo per il nostro appuntamento.

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Petronas Towers

Leonard ci aspetta al tavolo di un ristorante indiano a Bangsar, un quartiere appena fuori dal centro di KL dove si concentrano una miriade di locali più o meno alla moda. Al posto dei piatti delle larghe foglie di banano, sulle quali un anziano cameriere baffuto posiziona con grazia badilate di curry di granchio e varie poltiglie di colori diversi. Il curry è buono e piccante, da mangiarsi rigorosamente con le mani; impacciati facciamo del nostro meglio per perfezionare la tecnica della pallotta (con le cinque dita raccogliere un mucchietto di cibo, col pollice spingerlo delicatamente in bocca).

Parliamo di noi, dei nostri mestieri, dei nostri Paesi: Leonard ci racconta del Borneo, dov’è nato e cresciuto, e della vita a Kuala Lumpur, dov’è arrivato per frequentare l’università. Ci racconta che la Malesia è uno dei Paesi che investe di più nella ricerca scientifica – il suo laboratorio ha appena acquistato attrezzature per decine di migliaia di euro. La scuola riflette la multiculturalità del tessuto sociale malese e le lezioni sono impartite in malese, cinese mandarino e indiano tamil. A causa del lungo periodo coloniale britannico, anche l’inglese è largamente compreso e parlato, e tutti i ragazzini delle scuole private lo usano tra loro come lingua veicolare. Ne esistono una versione ufficiale, il Malaysian English, e il Manglish, un creolo parlato per le strade contaminato da elementi malesi, cinesi e indiani, e dotato di fonetica, lessico e grammatica propri.

A pancia piena usciamo dal ristorante, facciamo lo slalom tra ragazzini chini sui loro cellulari a giocare a Pokémon Go, andiamo a mangiare un gelato (la gelataia ci fa assaggiare il gusto durian, ma come previsto il sapore è orrendo; viriamo sul più sicuro fiordilatte), infine rientriamo alla base su una lussuosa macchina nera – pare che Uber da queste parti vada per la maggiore. A casa ci raggiunge Guillaume, un amico francese di Leonard che insegna matematica a Manila, di passaggio a KL. Ci racconta storie buffe sulle Filippine e dei suoi viaggi. Mi immagino come possa essere la sua vita, in un mondo così lontano e diverso da quello in cui è cresciuto. Incontri e scontri di persone e culture, storie che si intrecciano, confronti fatti di idee, parole ed esperienze: per me, la parte più affascinante di ogni viaggio. Un’altra notte, un’altra alba, e si va… Conservando Kuala Lumpur nel taschino dei ricordi belli.

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A spasso per KL

Singapore Sling

Il panorama dallo Skypark del Marina Bay Sands

Singapore è un’altra idea di Asia: ordinata, rigorosa, pulita. Non c’è nulla fuori posto e la gente si dispone disciplinatamente in fila persino in attesa della metropolitana. A Singapore ti senti un po’ in soggezione, con tutti quei divieti: vietato fumare e gettare la cenere per terra, vietato bere e mangiare sui mezzi pubblici, vietato attraversare la strada al di fuori delle strisce pedonali, vietate le gomme da masticare perché sporcano le strade, vietati gli assembramenti, vietate le effusioni in pubblico, vietato intralciare il passaggio sulle scale mobili (dove si tiene la sinistra). L’impressione è che ci sia un temibile gendarme pronto a sbucare da dietro un angolo per comminare multe salatissime o distribuire scappellotti.

Una cosa che mi ha colpito molto di Singapore è il silenzio irreale: il Financial District alla sera pare il set di un film di fantascienza in cui tutti gli attori di sono allontanati per la pausa caffè. Guardi in su cercando le punte dei grattacieli, e le finestre illuminate si confondono con le stelle. Senti le cicale che ronzano a un volume tale che viene da chiedersi se siano vere o se siano registrazioni diffuse da altoparlanti nascosti. Alla giungla urbana dei grattacieli si contrappone la giungla vera e propria, quella primaria, antichissima, intorno alla quale si è sviluppata la città degli uomini. Siamo ai tropici e la vegetazione è rigogliosa, verdissima, le liane si avviluppano lungo i tronchi slanciati di alberi di cui non conosco il nome, le strade hanno il profumo dei delicati fiori bianchi del frangipane.

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Singapore Botanic Gardens

I lussureggianti Botanic Gardens rappresentano il cuore verde di Singapore. Sono immensi e bellissimi; ospitano una moltitudine di piante e una porzione originale di foresta pluviale tropicale. L’attrazione principale è il National Orchid Garden, che contiene la maggiore collezione di orchidee al mondo – oltre 1000 specie e 2000 ibridi. Nel 2015 i Botanic Gardens di Singapore sono stati inscritti nella lista dei Patrimoni dell’Umanità Unesco; sono gli unici giardini tropicali e il terzo giardino al mondo (insieme all’Orto Botanico di Padova e ai Kew Gardens di Londra) a farne parte. Qui abbiamo pedinato coppie di sposini impegnati in sofisticati servizi fotografici matrimoniali alla ricerca della posa perfetta; inseguito varani enormi; annusato fiori multicolori; osservato perplessi frotte di ragazzini correre appresso ai Pokemon – pare ce ne fossero molti nascosti tra le buganvillee.

Gli altri famosi giardini di Singapore sono i Gardens by the Bay, all’estremità meridionale della città; sono aperti tutti i giorni dalle cinque del mattino alle due di notte e l’ingresso è libero. Qua sorge anche un bosco molto particolare, fatto di alberi che non sono alberi: in tutto 18, di cui 16 raccolti in una zona che si chiama Supertree Grove. Questi super alberi di altezze diverse (tra i 25 e i 50 metri) hanno un’anima di cemento e acciaio e, all’esterno, pannelli viventi di terra e fiori che li ricoprono come un mantello. In tutto, sui loro tronchi si possono contare circa 163.000 piante appartenenti a 200 specie diverse; ogni super albero rappresenta e custodisce un ecosistema autosufficiente e sostenibile. Di notte i super alberi si illuminano sfruttando l’energia del sole che hanno accumulato durante il giorno; tra i loro rami si svolgono giochi ipnotici di luce e colore. Sembra uno di quei documentari sugli abissi marini, dove tutto è nero e le meduse illuminano il buio a intermittenza con luci bianche, viola, blu e verdi. Penso che è bellissimo, futuristico, esagerato; mi sdraio come per vedere le stelle cadenti a San Lorenzo e lo sguardo si perde, le loro chiome esercitano su di me un’attrazione potente e ambigua. Saranno così gli alberi del futuro, quando le foreste vere saranno state tutte disboscate, quando gli alberi di legno e foglie non esisteranno più?

Singapore è multiculturale e multilingue, contiene tanti microcosmi: Chinatown, l’operosa comunità cinese e il culto fetish del dente del Buddha; Little India, le curry house e le donne in sari; Arab Street e i cupoloni della sua moschea; le shop house restaurate e un po’ posticce di Clarke Quay. Il distretto coloniale e il leggendario Raffles Hotel, intitolato a Sir Stamford Raffles, il fondatore di Singapore. Dal suo bar – dove fu inventato il Singapore Sling – passarono  Ernest Hemingway, Somerset Maugham, Herman Hesse e Rudyard Kipling. Sempre qui, pare, fu uccisa nel 1902 l’ultima tigre di Singapore.

Anche se la Singapore di oggi non è più la Singapore britannica di Sir Raffles, gli influssi e l’eredità di quell’Occidente spregiudicato si ritrovano oggi tra i corridoi delle esclusive università  di economia e management, negli uffici delle multinazionali, delle banche, delle società finanziarie; e nei centri commerciali, templi del consumismo globale. Alcuni sono sfacciati e sfarzosi – lusso italiano e francese, diamanti e gioielli, marmi e riflessi dorati. Altri sono più caciaroni e divertenti: come Mustafa, l’enorme mall di Little India perennemente brulicante di avventori, aperto ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette. Vende di tutto, ma la parte migliore  è il suo labirintico supermercato, traboccante di prelibatezze e orrori alimentari provenienti da ogni angolo d’Asia.

Singapore, isola e città-stato, ricorda vagamente la forma di un diamante. In una delle sue punte si trova quello che in pochi anni ne è diventato il simbolo, soppiantando il povero Merlion, una creatura mitologica dalla testa di leone e il corpo di pesce, la cui statua è posta alla foce del fiume Singapore. Peccato perché Merlion era una mascotte simpatica: fu disegnata nel 1964 da un membro del Comitato Souvenir del Singapore Tourism Board (che tuttora ne regola l’utilizzo a fini commerciali) che voleva rappresentare allo stesso tempo le origini marinare della città, quando ancora era un villaggio di pescatori e si chiamava Temasek, città del mare, e il leggendario leone che avrebbe accolto il principe Sang Nila Utama dell’impero Sri Vijaya al suo arrivo nell’undicesimo secolo in quella che avrebbe poi da questo episodio preso il nome di Singapura, ovvero città del leone.

La sua mitografia assume una sfumatura epica in “Ulysses by the Merlion”, ode scritta nel 1979 dall’esimio poeta Edwin Thumboo, il quale innalza la strana bestia a icona nazionale e personificazione di Singapore. Dato che tutti i poeti venuti dopo di lui hanno dovuto fare i conti con questa ingombrante elegia, pare che la letteratura singaporiana contemporanea sia piena di Merlion e anti-Merlion; si ironizza sul fatto che Singapore abbia come simbolo e icona un artificioso souvenir. Leggo inoltre che oggi nello slang locale e addirittura in gergo ospedaliero il termine Merlion viene usato al posto del verbo vomitare, con riferimento alla fontana d’acqua che sgorga costantemente dalla bocca della statua. Povero Merlion!

Come che sia, Merlion ormai non se lo fila più nessuno, dato che è stato messo in ombra dal più appariscente Marina Bay Sands, l’enorme hotel casinò che dal 2010 domina la baia. Forse ce l’avete presente: è un enorme complesso formato da tre grattacieli uniti tra loro da una specie di tavola da surf lunga 340 metri, famosa per la sua infinity pool, una piscina a sfioro con vista sui grattacieli (a uso esclusivo degli ospiti). A meno che non vogliate spendere svariate centinaia di euro per pernottare nell’albergo, un modo alternativo per salire in cima è bere qualcosa in uno dei bar dello Skypark – noi abbiamo preso due Asahi al bar della torre di mezzo. A ripensarci quei dieci dollari li potevamo anche risparmiare: sì, la vista è bella, ma tra noi al bar e il panorama c’era di mezzo questa benedetta piscina, invasa da qualche decina di cinesi a mollo che si contendevano l’angolo migliore armati di bastoni da selfie e qualche altra decina che andava su e giù in accappatoio e ciabatte. Secondo me, la vista più bella è quella sul retro, che dà sul porto; vedi le barche e i portacontainer addormentati nell’acqua nera, qualche gru in controluce, la foresta brillante dei super alberi, le strade ad alto scorrimento. C’era la luna piena quella sera, sembrava un faro.

Postilla mangereccia • Cose buone che abbiamo mangiato a Singapore.

  • L’offerta culinaria di Singapore rispecchia il suo carattere multietnico: si trova davvero di tutto, dal cibo locale alla cucina asiatica e internazionale. I ristoranti veri e propri sono generalmente cari, ma nei numerosissimi food court e hawker centre è possibile mangiare molto bene e a buon prezzo. Quasi ogni centro commerciale ha il proprio food court – ce n’è uno anche all’interno del Marina Bay Sands, molto fornito e relativamente economico. Scegli un banchetto, ordini, paghi, e poi con il tuo vassoio raggiungi un tavolino cercando di non far strabordare dalla ciotola la tua zuppa ustionante.
  • Non tutte le food court sono uguali e alcune sono davvero hardcore, come quella del Chinatown complex. A Little India c’è invece il favoloso Tekka Food Centre, dove abbiamo mangiato un succulento pollo tandoori e una notevole quantità di roti prata inzuppati in curry di lenticchie e salse agliose. Segnalo infine il bel mercato di Lau Pa Sat, nascosto in mezzo ai grattacieli del Financial District e caratterizzato da una pianta ottagonale e un’elegante architettura vittoriana; lungo l’adiacente Boon Tat Street si trovano decine di banchetti che grigliano senza sosta ottimi spiedini satay di carne e di pesce.
  • Sempre a Little India c’è un ristorante buonissimo che si chiama Sakunthala’s: qui abbiamo mangiato uno spettacolare granchio piccante al curry, servito su foglie di banano con salsine varie in cui pucciare il soffice naan e i croccanti pappadums.
  • Voglia di gelato? A Singapore si mangia nel panino! I venditori ambulanti tirano fuori dal loro carretto la panetta di gelato, ne tagliano una fetta quadrata con il coltello e la infilano tra due cialde di wafer o nel pane bianco. Per i coraggiosi, c’è anche il gusto durian 🙂

Un incontro a Vientiane, Laos

In Vientiane, Laos

Brad ha quarant’anni ed è nato e cresciuto in Alaska. Ha imparato a nuotare e pescare in quelle acque gelide, la sua pelle è ruvida e rubizza. I suoi occhi sono piccoli e si muovono rapidi dietro le lenti degli occhiali dalla montatura d’oro. L’abbiamo incontrato in ostello a Vientiane, la capitale del Laos; era lì all’insaputa della moglie che lo credeva a Bangkok. Con quella faccia da furbetto pensavamo che a spingerlo fino in Laos fosse qualche stato qualche amorazzo o qualche voglia proibita, ma il segreto che custodiva era d’altra natura, di un romanticismo scomparso: era sulle tracce di un anello antico di secoli, che portasse iscritte, in quella lingua Lao che davvero sembra la lingua degli elfi, le parole d’amore per chiedere in sposa sua moglie ancora una volta. Stavano per trasferirsi a Tokyo con le due figlie adolescenti, perché lei aveva trovato un buon lavoro come insegnante di inglese. Brad fa un lavoro molto più particolare, è saldatore subacqueo. Non penso ce ne siano tanti al mondo. Di lì a un mese sarebbe partito con la sua squadra per l’isola del Giglio, a lavorare al recupero del relitto della Costa Concordia. Ha riso quando gli abbiamo raccontato di Capitan Schettino. Da contratto, non avrebbe potuto allontanarsi dalla base e scendere a terra – pare che alcuni suoi amici siano stati licenziati per aver ceduto al richiamo delle belle italiane e del limoncello al bar. Il suo è un lavoro molto duro, perché dopo aver indossato lo scafandro ed essersi immerso deve rimanere per molte ore nelle acque nere come la notte, senza poter mangiare né bere. I mesi in cui è in mezzo al mare vive con i suoi compagni in regime cameratesco, parlano di donne, trasudano virilità repressa e giocano con le prese della corrente. Ma Brad ama il suo lavoro e parla di quello che fa con un misto di arroganza e orgoglio. Chissà se ha trovato l’anello che cercava, chissà se è riuscito a fare una capatina al bar del Giglio ogni tanto.

Impressioni d’Asia

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Pronuncio la parola Asia, scandendo bene ogni lettera. La bocca si scioglie al pensiero di frutti colorati e succosi, nel naso litigano odori pungenti, nelle orecchie lo strombazzare dei motorini e il rumore del mare in una conchiglia. Negli occhi, immagini di piante verdissime e strade sciacquate dalla pioggia monsonica. Ha ancora un senso l’esotismo oggi, nel mondo globale, o è diventato un concetto vuoto buono soltanto per i depliant delle agenzie di viaggio, pieni di promesse e desideri più o meno facili da soddisfare? Sono curiosa di scoprirlo, di vedere se quest’Oriente tanto fantasticato è come me lo immagino, quanto è lontano da ciò a cui sono abituata. Il mio mondo è quello della buona vecchia Europa, delle sue città sonnacchiose e piene di storia, di chiese e di modi tanto diversi dal Baltico al Mediterraneo, ma spesso così simili. Cosa c’è oltre?

Non avevo mai preso un volo intercontinentale. Mi piace prendere l’aereo, l’idea di essere così veloce, così in alto. Mi piace il momento del decollo, guardare le persone e le case e le macchine farsi sempre più minuscole finché non si distinguono più e non rimangono che le geometrie dei campi gialli e verdi, le autostrade sottilissime, i confini fluidi delle città. Siamo partiti dalla Malpensa in un caldo giorno di luglio, con una di quelle compagnie aeree arabe famose per le bellissime hostess con la veletta che passa sotto il mento.

Abbiamo fatto un lungo scalo a Muscat, la capitale dell’Oman. Abbiamo passato la notte in aeroporto, Angelo per terra in un angolo e io rannicchiata sul divanetto di un fast-food halal, dove abbiamo visto donne coperte da capo a piedi mangiare hamburger da sotto il velo. All’alba abbiamo preso il secondo volo: mi hanno fatto impressione i deserti iracheni, le distese di sabbia, l’urbanistica lineare delle città antiche. Poco dopo mi sono addormentata, svegliandomi solo per fare merenda con datteri e yogurt; poi mi sono riappisolata e, quasi senza accorgermene, mi sono ritrovata lontana da casa, novantuno meridiani più avanti, in un paese il cui alfabeto è un ghirigoro, nella città che dell’esotismo è l’emblema stesso: Bangkok.

Pioveva a dirotto, quando siamo arrivati, era buio e faceva caldissimo; siamo saliti su un taxi freddo, che dopo quasi un’ora ci ha lasciati al margine di una via piena di luci colorate e fumi che salivano dalle bancarelle ai due lati della strada. Questa via si chiama Khaosan road, ed è qui e nelle vie limitrofe che migliaia di viaggiatori con lo zaino sulle spalle si riversano ogni giorno e ogni notte, catapultati da ogni dove nel cuore pulsante dell’Asia. Qui si può comprare una patente nuova o un tesserino da giornalista, bere fruitshake al mango, mangiare un insetto fritto (in realtà tutti si fermano a guardare, ma nessuno osa l’assaggio, e le venditrici hanno capito che il vero affare è chiedere un dollaro a fotografia), ti vengono offerte droghe e donne. I bar pompano musica commerciale, le bancarelle vendono tutte le stesse canottiere con stampate sopra le marche di birra locale e gli stessi pantaloni larghi di tela con gli elefanti, e nelle strade pare di vedere solo branchi di ragazzi e ragazze che indossano quelle magliette e quei pantaloni. Qualche vecchio hippie coi capelli grigi e i tatuaggi sbiaditi osserva la vita che scorre da una seggiolina viola di plastica, forse rimpiangendo il tempo in cui in questo posto ancora non erano arrivati McDonald e le luci al neon.

Tanti parlano di Khaosan road come di un ghetto per turisti, di un luogo troppo poco autentico, ma Bangkok è anche questo, è il suo immaginario, è la lusinga dei sensi. Lo vedi che è finta, con tutte quelle lucine colorate che danno idea di festività pagana, con i guidatori di tuk tuk che promettono di scarrozzarti in giro per la città con pochi spiccioli e poi ti fanno perdere ore tra un negozio e l’altro perché ricevono dai commercianti un buono per la benzina per ogni turista che portano. Ma è vero: il ghetto protegge dalla città vera. Ti avventuri fuori e scopri che c’è un mondo nuovo, sporco, caldo da impazzire – un caldo umido che si appiccica alla pelle, che non fa guarire le piccole ferite e che bagna la maglietta. Caldo e sporco e polveroso, polveri sottili che bruciano il naso, mezzi motorizzati di ogni tipo che non vogliono a nessun costo lasciarti il passo nelle strade, architetture dorate che si intravedono dietro gli accrocchi di cavi elettrici che sfidano ogni legge dell’elettrotecnica e del buon senso. Cieli immobili e lattiginosi che d’un tratto s’anneriscono e si squarciano in piogge che diventano torrenti lungo le vie e che sembrano pulire e punire i peccati di questa città, colpevole di contenere troppa vita dentro di lei.