Jakarta, the big durian

Sunda Kelapa old port

Tutti conoscono The Big Apple, la grande mela, ovvero il nomignolo col quale è soprannominata New York. Forse però non tutti sanno che in Oriente c’è un’altra città-frutto sicuramente meno famosa e bella, ma a suo modo interessante. Si tratta di Jakarta, amichevolmente chiamata The Big Durian, come il frutto asiatico più controverso di sempre. Controverso perché non ci si riesce a mettere d’accordo sul suo gusto, alcuni sostengono sia rivoltante, altri prelibato. Si dice che abbia l’odore dell’inferno (è vietato portarlo in aereo, sui mezzi pubblici e nelle camere d’albergo) e il sapore del paradiso… personalmente lo trovo piuttosto disgustoso, ma in Asia stravedono per lui. Un’altra teoria sostiene che Jakarta, come il durian, vada provata tre volte prima di apprezzarla. Fuor di metafora, Jakarta è allo stesso tempo respingente e seduttiva, è the place to be per ogni ragazzo indonesiano che vuole far fortuna – vengono qua da ogni parte del paese e la città cresce, si espande dissennatamente, in verticale con i grattacieli e in orizzontale con gli slums.

La povera Jakarta soffre del complesso della città brutta ed è finita, suo malgrado, in un circolo vizioso: i turisti non la visitano perché ha fama di essere brutta ed è effettivamente brutta perché, essendoci pochi visitatori, l’amministrazione non ritiene prioritario investire sulle strutture turistiche. Ci sono poi dei problemi che vanno al di là del turismo e che creano disagio in primo luogo a chi a Jakarta vive: ad esempio il fatto che non ci sia una rete metropolitana rende davvero complicati gli spostamenti, in una città da oltre 10 milioni di abitanti! Una delle questioni scottanti di Jakarta è per l’appunto il traffico, perennemente congestionato; le automobili rimangono imbottigliate mentre sciami di motorini ronzano loro attorno, i temerari pedoni soccombono tra i fumi dei gas di scarico. Nei giorni in cui l’abbiamo visitata noi probabilmente c’era addirittura più traffico del solito perché quest’anno la città ospitava la XVIII edizione degli Asian Games, le Olimpiadi d’Oriente. Sarebbe stato bello vedere qualche gara ma purtroppo non ci siamo organizzati per tempo. Spoiler: la Cina ha sbancato il medagliere.

Effettivamente la città non abbonda di luoghi convenzionalmente belli, e molti turisti si limitano a visitarne i centri commerciali. Fatto sta che a noi i posti con una pessima fama incuriosiscono e abbiamo deciso di passare un paio di giorni a Jakarta per darle un’occhiata. Come da tradizione abbiamo cercato un free walking tour e ci siamo imbattuti in Huans di Jakarta Good Guide, che ci ha portati in giro per la città vecchia, cioè quel che resta dell’antica Batavia, capitale delle Indie Orientali. Jakarta ha infatti un passato coloniale: Batavia è il nome che le avevano dato gli olandesi, che spadroneggiarono sull’Indonesia per tre secoli e mezzo prima attraverso la Compagnia Olandese delle Indie Orientali (VOC) e poi direttamente tramite il governo coloniale. Anche il nome “Indonesia” è di derivazione coloniale – il nome originario del Paese è Nusantara, ovvero “arcipelago” in antico giavanese. Un nome che svela la varietà e la complessità di una nazione composita, formata da oltre tredicimila isole, ognuna con una fortissima identità culturale (il significativo motto nazionale è “uniti nella diversità”).

Huans e il suo gruppo offrono anche degli altri tour della città: uno esplora il vero e proprio city center, ovvero la zona che si sviluppa intorno al National Monument in Merdeka square, fatta principalmente di grattacieli e business center. Dice la Lonely Planet che il monumento è confidenzialmente chiamato dagli abitanti di J-town “l’ultima erezione di Sokarno”, il primo presidente dell’Indonesia indipendente. Un altro tour è dedicato a Glodok, la Chinatown della capitale indonesiana, che pare sia anche zona di ottimo street food. La comunità cinese non ha avuto vita facile a Jakarta: durante le rivolte del 1998 i cinesi indonesiani hanno subito violenze terribili e fino all’anno 2000 era addirittura proibito loro dare nomi cinesi ai figli e festeggiare il capodanno cinese, la loro festa più importante. A oggi tutte le religioni praticate nel Paese godono di eguali diritti. La legge stabilisce che bisogna credere in un Dio, non importa qualche, basta che in qualcuno/qualcosa si creda. L’ateismo, d’altro canto, è bandito.

Ci siamo incontrati con Huans alla stazione di Kota, la più antica stazione ferroviaria della città. Adesso serve principalmente le destinazioni poco distanti ed è usata dai pendolari che si recano ogni mattina a Jakarta per lavorare. È stata costruita alla fine del XIX secolo da un architetto olandese combinando art déco ed elementi architettonici locali; ha ariosi soffitti a volta, dettagli in ceramica e in legno di teak. Da qui, attraverso un sottopassaggio, siamo sbucati di fronte al National Bank Museum – se avete tempo di visitare un solo museo a Jakarta, scegliete questo. Il tema (la storia monetaria del Paese) è particolare, ma molto interessante. Siamo poi saliti a bordo di un angkot, ovvero un pulmino da una dozzina di posti circa che va fermato lanciandosi in mezzo alla strada e che ti porta più o meno dove devi andare; e ci siamo diretti al vecchio porto di Sunda Kelapa, che adesso è un po’ malandato ma una volta era il cuore del traffico marittimo di Batavia. Un marinaio ci ha portato in giro attraverso il porto sulla sua barchetta – è stato molto emozionante aggirarsi tra le navi vuote nel silenzio di un giorno di festa. Abbiamo anche fatto una incursione su una grossa nave da carico turchese, chissà se il capitano sarebbe stato d’accordo… Rientrati sulla barchetta abbiamo fiancheggiato giganteschi casermoni fantasma, baracche, ragazzini che ci sbracciavano per salutarci. Intorno al porto si sviluppa purtroppo una grande povertà e i cumuli di spazzatura e plastica si fanno più grandi giorno dopo giorno. Versano in uno stato di semi abbandono anche il museo marittimo, ospitato negli antichi edifici coloniali, e la “torre pendente” di Jakarta, l’antica vedetta. Passiamo accanto a tre luoghi emblematici: un albergo di lusso caduto in rovina, un caffè ristorante (bellissimo, negli spazi di una antico magazzino della VOC) fallito e l’antico ponte levatoio olandese, anch’esso male in arnese. C’è da anni in programma la riqualificazione della zona: speriamo che prima o poi avvenga davvero.

La grande sorpresa è stata Taman Fatahillah: una piazza strapiena di gente, ragazzi e ragazze seduti in circolo a chiacchierare, che manco alle colonne di San Lorenzo un sabato sera d’inizio estate (con la differenza che qua non ci sono le birre e le ragazze sono quasi tutte velate). Era il centro dell’antica Batavia e ai suoi lati ci sono tanti bei palazzi come le Poste Centrali e il vecchio Municipio (oggi un museo storico). Un buon posto per osservare il via vai è il Cafè Batavia, con i suoi tavolini che danno sulla piazza.

Per cena, su suggerimento di Huans, ci siamo fermati al Restaurant Merdeka (il nome non è particolarmente invitante, ma significa “indipendenza” in bahasa indonesia, e anche in malay – moltissime piazze in Indonesia e Malesia portano questo nome). È un ristorante che propone cucina Padang, dell’isola di Sumatra: funziona che ti siedi a tavola e il cameriere comincia a portare un’infinità di ciotole e ciotoline, addirittura impilandole le une sulle altre quando finisce lo spazio. I commensali scelgono cosa mangiare, rigorosamente senza posate; vengono poi addebitati sul conto solo i piattini effettivamente toccati. Il piatto più buono è probabilmente il rendang, una specie di stracotto dal sugo scurissimo e speziato. Mi è piaciuto anche il tempè fritto (sono fagioli di soia fermentati, in pratica un panetto di penicillina).

Per tornare verso il centro abbiamo preso l’autobus della TransJakarta che taglia verticalmente la città fino al Blok M. È curioso perché le fermate sono delle specie di gabbiotti sopraelevati nel mezzo delle strade. Alcuni autobus sono ladies only.

L’ultima tappa della serata è stato un elegante sky bar all’ultimo piano di un grattacielo bello alto: un posto davvero figo (si chiama Skye). La vista pazzesca, i cocktail molto buoni. La fauna eterogenea e a tratti inquietante: turisti con Birkenstock e braghe corte (noi), qualche esponente della Jakarta bene, businessmen cinesi sbronzi, giovani fanciulle asiatiche accompagnate a panzoni occidentali. Meglio rivolgere lo sguardo verso le ipnotiche mille luci della città verticale e ubriacarsi di vertigine.

Scendendo a velocità supersonica dal cinquantaseiesimo piano della BCA Tower abbiamo scambiato in ascensore due chiacchiere con un gruppo di alticci expat australiani e americani: dopo averci dimostrato la loro conoscenza dell’italiano a suon di bestemmie, ci hanno giurato che la vita a Jakarta, soprattutto quella notturna, è tutta da scoprire. Sempre la Lonely descrive Jakarta come città di movida sfrenata e club underground – non sappiamo quanto ciò corrisponda al vero, ma ci fidiamo (sicuramente non si beve molto, dato che è pur sempre la capitale di un Paese islamico).

Concludendo, confermo che il gusto di questo grande durian non è così male, dopo tutto. Jakarta non è bella, anzi è sporca, trafficata e confusionaria, ma nasconde angoli di grande dolcezza. Visitandola, anche di sfuggita come abbiamo fatto noi, si ha modo di squarciare il velo della società indonesiana e forse capire un pochino meglio questo popolo.

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