La piccola saudade

Uno degli aspetti che più mi affascina della lingua portoghese è l’uso dei suffissi, molto più marcato che nella lingua italiana. Ogni parola può cambiare di dimensione e significato grazie a qualche lettera che ne modifica la terminazione; i suffissi arricchiscono l’oggetto o concetto cui si riferiscono delle più varie sfumature.

Ma il grande tesoro della lingua portoghese è la parola saudade: una parola-mondo, che non esiste in nessuna altra lingua, che non ha sinonimi né corrispondenze. Tutta la cultura portoghese, a partire dal fado, è impregnata di questo sentimento, che Antonio Tabucchi ha cercato di spiegare così:

Un grande linguista ha detto che è impossibile spiegare il senso della parola formaggio a una persona che non ha mai assaggiato un formaggio. Per capire cos’è la saudade, dunque, niente di meglio che provarla direttamente. Il momento migliore è ovviamente il tramonto, che è l’ora canonica della saudade, ma si prestano bene anche certe sere di nebbia atlantica, quando sulla città scende un velo  e si accendono i lampioni. Li, da soli, guardando questo panorama davanti a voi, forse vi prenderà una sorta di struggimento. La vostra immaginazione, facendo uno sgambetto al tempo, vi farà pensare che una volta tornati a casa e alle vostre abitudini vi prenderà la nostalgia di un momento privilegiato della vostra vita in cui eravate in una bellissima e solitaria viuzza di Lisbona a guardare un panorama struggente. Ecco, il gioco è fatto: state avendo nostalgia del momento che state vivendo in questo momento. E’ una nostalgia al futuro. Avete sperimentato di persona la saudade.

[Antonio Tabucchi, Viaggi e altri viaggi, Feltrinelli coll. I Narratori pag. 168]

Ci sono usi più quotidiani, seppur poeticissimi, della saudade: ad esempio, se sentiamo la mancanza di un amico lontano, possiamo dirgli tenho saudades tuas. Mi manchi, ma in un senso profondo, contradditorio, ti penso e il tuo pensiero mi rallegra e allo stesso tempo mi intristisce, perché non so quando ci rivedremo, perché so che i momenti passati insieme non torneranno, perché quei momenti spensierati li rivivo ogni volta che ti penso. 

La saudade è un bel casino. È sfiancante, è immensa. È un sentimento che mi perseguita: saudade degli amici che ho incontrato, delle strade che ho percorso, delle canzoni che ho ascoltato. Questo spazio nasce principalmente per questo, per matar a saudade, per trovare un posto ai miei pensieri.

Nella sua accezione classica, la saudade è melanconica e struggente. Per questo ho scelto di usare un suffisso e trasformarla in una piccola saudadinha degli affetti e dei luoghi, per chi ne vorrà seguire le storie.

Letteratura senza senso

Humpty Dumpty sat on a wall / Humpty Dumpty fell on the floor / and all the king’s horses and all the king’s men / Couldn’t put Humpty Dumpty on the wall again.

Dove sta scritto che Humpty Dumpty è un uovo? Da nessuna parte: per questo la filastrocca di cui è protagonista può essere letta come un indovinello la cui soluzione è, appunto, un uovo.

L’indovinello è un gioco antico, presente già nei testi vedici, nel mito greco, nella Bibbia. Ha avuto funzioni magiche e sacrali, ha incarnato sfide sapienziali con rischio di morte, è poi diventato forma di intrattenimento profano (nell’antica Grecia già con Simonide, 556 ca.-467 ca. a.C.), popolare, talvolta sboccato. Quello di Humpty Dumpty è, più propriamente, un riddle, un “indovinello la cui soluzione è data da cosa o azione comune”. La lingua inglese lo distingue dal conundrum che è, invece, the riddle the answer to which involves a pun “indovinello la cui soluzione è data da un gioco di parole”. In altre culture l’indovinello è altro ancora: lo zen, disciplina profondamente antiermeneutica e diffidente nei confronti di ogni spiegazione o interpretazione (e nei confronti delle parole, soprattutto scritte), controbatte alla tradizione occidentale dell’indovinello che richiede una soluzione con il kōan, enigma paradossale e insolubile con i metodi della logica. Ad esempio: Una ragazza cammina per la strada. È la sorella maggiore o la minore? Mah! L’allievo deve tentare di risolvere il quesito postogli dal maestro zen ricorrendo al nonsenso, così che il kōan possa rivelare la natura ultima della realtà.

Dato che ci siamo messi a parlare di nonsenso, torniamo a quell’uovo da cui siamo partiti, quell’uovo tanto famoso che Alice incontra nel sesto capitolo di Attraverso lo specchio di Lewis Carroll  e con cui la bambina curiosa intrattiene un dialogo molto poco logico sul linguaggio e sul (non)senso delle parole. Insieme a The Book of Nonsense di Edward Lear (1846-1877), i libri di Alice (1865-1872) sono considerati i testi sacri del nonsense inglese come forma di umorismo paradossale e sono cari a semiologi e linguisti per i mille spunti che offrono, in particolare Humpty Dumpty è uno che con le parole ci sa fare: «Quando uso una parola», disse Humpty Dumpty in tono piuttosto sdegnoso, significa solo ciò che io voglio che significhi – né più né meno». «Il punto è», disse Alice, «se una parola possa avere tanti significati». «Il punto è», disse Humpty Dumpty, «chi è che comanda – punto e basta» (…) «Hanno un certo temperamento, alcune di loro – in particolare i verbi, loro sono orgogliosissimi – con gli aggettivi puoi farci quello che vuoi, ma coi verbi no. Comunque, io ci faccio quello che mi pare! Impenetrabilità! Ecco cos’è!».

Humpty Dumpty è il padrone delle parole: ma non trascura di pagar loro gli straordinari. È talmente bravo a maneggiarle, che Alice gli domanda di aiutarla a interpretare la misteriosa Jabberwocky, capolavoro della letteratura nonsensica che appare nel primo capitolo di Attraverso lo specchio. Il Jabberwocky è un poemetto in sette quartine a rime alternate, strutturalmente e metricamente impeccabile, che racconta di un giovanotto che sconfigge un orribile mostro. Ciò che mina la comprensibilità del Jabberwocky è che le parole dei suoi versi sono quasi tutte inventate: verba inaudita, segni che sembrano tali e che sono invece privi di senso. O forse un senso ce l’hanno? Così, nel Jabberwocky, «Brillig means four o’clock in the afternoon, the time when you begin broiling things for dinner» (nella traduzione italiana di Guido Almansi e Giuliana Pozzo “Twas brillig” diventa “Era la brilla” e «Brilla significa le nove del mattino, quando è stata appena fatta la pulizia e tutto è brillante»).

Altre sono parole-macedonia, che mettono insieme due parole per formarne una terza. È un procedimento linguistico comune: elicottero più aeroporto: eliporto. Carroll le chiama portmanteau words: “portmanteau” era un particolare tipo di baule che conteneva due parti staccate, di cui una entrava nell’altra. Nell’enigmistica, queste parole-valigia sono a volte chiamate “doppio scarto centrale” e stanno a metà tra la sciarada e lo scarto/aggiunta, l’esempio classico è topo/sazio/topazio.

Ma i libri di Alice sono, a guardarli bene, un unico continuo gioco linguistico; contengono calembours e à-peu-près (horse/hoarse, flower/flour, tale/tail, knot/not, eels/heels, porpoise/purpose), scarti e aggiunte (glass/lass, exactually/exactly), etimologie sbagliate (vengono messe in relazione parole che non hanno niente a che fare tra loro, come tortoise e taught us), omonimie eterogenee (parole che si scrivono e pronunciano allo stesso modo, ma hanno diverso etimo e diverso significato: miss signorina e imperativo di to miss) e ancora acrostici, calligrammi, tautogrammi… Non stupisce che Lewis Carroll si sia occupato anche, tra una fotografia e un trattato di logica, di giochi da prestigiatore, origami, scacchi, biliardo, backgammon e rompicapo logico-matematici (matematica è, tra l’altro, una delle chiavi di lettura del Jabberwocky).

Una nota a margine sulle problematiche che una scrittura ludica e intessuta di giochi di parole, come quella di Carroll, pone. Tradurre è sempre un po’ tradire, ma in casi come questi? Un traduttore che si accosti a un testo del genere sa di non poter ricorrere alla comoda formula gioco di parole intraducibile: allora, tanto varrebbe non iniziare neanche a giocare. Deve sottostare alle regole e giocare lo stesso gioco, nella sua lingua. I risultati variano a seconda della bravura e della sensibilità del traduttore, ma alle volte lo scontro è violento, come nella versione francese di Humpty Dumpty svolta da Artonin Artaud nel 1943. La scrisse tra un elettroshock e l’altro durante la degenza nell’ospedale psichiatrico di Rodez, su suggerimento del suo medico, il dottor Ferdière. Diceva del resto Tzvetan Todorov che «il gioco di parole confina con l’anormale: è la follia delle parole».

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta nel numero #00 di Lucha Libre Magazine, rivista di narrativa critica illustrata.

Requiem, Antonio Tabucchi

Può cogliere impreparati, quel momento in cui ci si ritrova a fare i conti con la propria storia e il proprio passato, con i personaggi che vivono nella nostra memoria e le questioni rimaste in sospeso. È un attimo che si dilata, magari dopo che ci si è appisolati su una sdraio di tela, sotto un gelso, nella caldissima estate alentejana.  Aprire gli occhi e ritrovarsi sul molo di Alcântara a Lisbona, senza ombra, a mezzogiorno in punto. La città è deserta, passa solo qualche macchina con gli ombrelloni sul portabagagli, via verso le spiagge della Caparica.

Si fanno incontri strani in una giornata così: un Ragazzo Drogato che vuole duecento escudos, magari in due biglietti da cento perché sono carini, con sopra la faccia di Pessoa; uno Zoppo che vende biglietti della lotteria, legge Spinoza e crede nell’anima in un senso vitale e collettivo; un tassista di Sao Tomé che ancora non ha imparato i nomi delle strade della città. Su e giù per le strade strette di Lisbona, una tappa alla Brasileira do Chado per comprare una bottiglia di champagne che diventa subito calda, una zingara che vende magliette e coccodrilli autoadesivi, un incontro al cimitero, come in ogni storia di fantasmi che si rispetti.

Ma nel Requiem di Antonio Tabucchi i fantasmi sono fatti di carne e sudore, bevono vini corposi e mangiano pietanze ricche, feijoada, sarrabulho alla moda del Douro, zuppe, salsicce, trippa e maiale, strutto e sangue cotto. Il cibo si oppone alla morte, la nega, la fa dimenticare per un attimo lungo il tempo di un pranzo all’osteria del signor Casimiro, tra stoviglie di terracotta unta e bicchieri pieni fino all’orlo di vino Reguengos. Poi, con la pancia piena, un pisolino tra le lenzuola pulite di una pensione non troppo perbene, il tempo di chiudere gli occhi, un’apparizione: la faccia onesta e i capelli biondi del Padre Giovane, vestito da marinaio, che parla in portoghese e interroga il figlio sulla propria morte.

L’episodio è autobiografico: un sogno realmente sognato, sopra il quale Tabucchi ha costruito questo romanzo che è un po’ un sogno e un po’ un’allucinazione. Lo racconta in un saggio del 1999 intitolato Un univers dans une sillabe. Promenade autour d’un roman (Un universo in una sillaba. Vagabondaggio intorno a un romanzo), che affronta questioni come il bilinguismo, l’alloglossia, le lingue straniere e le lingue materne, passando per il mito di Orfeo e Euridice, la fonologia, la dimensione dell’oralità in generale e la dimensione onirica da un punto di vista antropologico, psicologico e psicanalitico.

È un saggio di teoria letteraria, ma è anche, e soprattutto, uno scritto molto personale, in cui parla della malattia del padre, costretto al silenzio da un cancro alla laringe, e del tempo passato a comunicare con lui attraverso una lavagnetta, scrivendo e cancellando una parola dopo l’altra. Sette anni dopo la sua morte, in un albergo a Parigi, sogna quel volto e quella voce: il tono e l’inflessione sono quelli del toscano rustico della sua infanzia, ma suo padre si esprime in portoghese, lingua che non conosceva – causando un po’ di sconcerto nel figlio, il quale nella stessa lingua chiede: Porque è que me estás a falar em português, pai? Se da un lato questo dialogo immaginato porta con sé l’incongruità tipica dei sogni, dall’altro è proprio il suono di queste parole a evocare e convocare il padre morto, rendendo la sua presenza concreta e tangibile.

Racconta poi Tabucchi che, la mattina seguente, seduto a un caffè nel Marais, provò a mettere per iscritto quel sogno: e fu in portoghese che si rese possibile il passaggio insidioso dal materiale onirico a quello diegetico. Requiem si sviluppò a partire da queste pagine e fu, infatti, scritto in quella lingua “altra” che era, per l’autore, luogo di affetto e di riflessione. La sillaba che dà il titolo al saggio citato è /pa/, che, nel lessico privato del padre e del figlio, indicava allo stesso tempo l’uno e l’altro, /pa’/ apocope di padre e /pá/ contrazione di rapaz, ragazzo; una parola che apparteneva solo a loro due, una parola minuscola che conteneva, però, un universo intero. Sta forse in questa polifonia dell’affetto il senso di Requiem: un libro fatto di voci, accenti, racconti, attraverso i quali l’io narrante tenta di venire a capo della propria storia.

Congedato il Padre, prosegue il suo cammino sotto un cielo azzurro esagerato e distante, come un’allucinazione, si fa offrire un cocktail dal Barista del Museo di Arte Antica, apprende da un Copista i segreti delle Tentazioni di Sant’Antonio di Bosch, aiuta il Controllore del Treno a risolvere un cruciverba, ripercorre con la Moglie del Guardiano del Faro le stanze in cui è stato felice, gioca a biliardo con il Maître della Casa do Alentejo. Aspetta al bancone Isabel, la donna che ha amato – ma una spietata ellissi narrativa ci impedisce di sapere come si svolge il loro incontro.

Poi il ritorno a Lisbona, altri fantasmi, e infine l’appuntamento più atteso, quello col Convitato, a mezzanotte al molo: una cena elegante che diventa un passaggio di consegne, un omaggio e un commiato a un poeta, un padre, un maestro: Fernando Pessoa. Volge così al termine una lunga giornata di tribolazione e purificazione. Si sta facendo sempre più tardi, è ora di dormire: boa noite, e buoni sogni.

Antonio Tabucchi, Requiem, Feltrinelli, Milano 1992, traduzione di Sergio Vecchio. Titolo originale dell’edizione portoghese: Requiem. Uma alucinação, Quetzal Editores, Lisbona 1991. Il saggio Un univers dans une sillabe. Promenade autour d’un roman, è apparso per la prima volta in “La Nouvelle Revue Française”, 550 (1999), poi in portoghese nella sesta edizione di Requiem (Quetzal Editores, Lisbona 1999) col titolo A Voz, as Lìnguas. Vagabundagem a volta de um romance e infine pubblicato in Italia come Un universo in una sillaba. Vagabondaggio intorno a un romanzo nella raccolta di saggi Autobiografie altrui. Poetiche a posteriori (Feltrinelli 2003).

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta nel numero #01 di Lucha Libre Magazine, rivista di narrativa critica illustrata.

Epifanie di felicità consapevole

 I felt my lungs inflate with the onrush of scenery—air, mountains, trees, people.
 I thought, “This is what it is to be happy.”

 Sylvia Plath, The Bell Jar 

Questi due versi della sciagurata Sylvia Plath descrivono bene quelle epifanie di felicità consapevole che esplodono di tanto in tanto quando ci fermiamo un attimo a cogliere la bellezza del mondo, quei momenti perfetti che ci riappacificano con tutto e con tutti. 

A me capitano spesso: a volte dal fruttivendolo o sul tram, ma soprattutto quando viaggio. Possono avere a che fare con la maestosità della natura o con lo sciabordio della folla nelle vie di una città, possono fare capolino in una giornata di sole come in una tempesta di neve. 

In tutti i miei viaggi vado alla ricerca di questi momenti, che poi non si cercano ma arrivano da soli, quando meno te li aspetti. La smania del viaggio è una febbre che non si può curare: come le febbri malariche, ritorna puntuale e ti accompagna per tutta la vita.

Geografie letterarie

Questo libro, oltre che un’insonnia, è un viaggio. L’insonnia appartiene a chi ha scritto il libro, il viaggio a chi lo fece. Tuttavia, dato che anche a me è capitato di percorrere gli stessi luoghi che il protagonista di questa vicenda ha percorso, mi è parso opportuno fornire di essi un breve indice. Non so bene se a ciò ha contribuito l’illusione che un repertorio topografico, con la forza che il reale possiede, potesse dare luce a questo Notturno in cui si cerca un’ombra; oppure l’irragionevole congettura che un qualche amante di percorsi incongrui potesse un giorno utilizzarlo come guida.

Antonio Tabucchi, Nota a Notturno indiano, prima edizione Sellerio 1984.

Il rapporto tra i luoghi e la loro rappresentazione letteraria mi ha sempre incuriosito molto. Ad esempio, nel Notturno indiano, il narratore viaggia pigramente tra luoghi topograficamente esatti e individuati, soggiorna in un lussuoso hotel di Bombay, fa tappa in un sudicio bordello, intrattiene conversazioni filosofiche su un treno diretto a Madras, cammina sulle spiagge di Goa. 

Eppure sono luoghi trasfigurati, mitici, traboccanti di significato. Più banalmente e senza scomodare la letteratura, ogni luogo, quando viene raccontato, diviene il racconto che di esso offriamo, attraverso il filtro del nostro vissuto o della nostra interpretazione. 

Viaggiare è una questione fortemente personale, che lascia molto poco spazio a giudizi oggettivi: ma anche il racconto più personale e il percorso più incongruo possono servire da traccia  ad altri viaggiatori in cerca di suggestioni.

Jakarta, the big durian

Sunda Kelapa old port

Tutti conoscono The Big Apple, la grande mela, ovvero il nomignolo col quale è soprannominata New York. Forse però non tutti sanno che in Oriente c’è un’altra città-frutto sicuramente meno famosa e bella, ma a suo modo interessante. Si tratta di Jakarta, amichevolmente chiamata The Big Durian, come il frutto asiatico più controverso di sempre. Controverso perché non ci si riesce a mettere d’accordo sul suo gusto, alcuni sostengono sia rivoltante, altri prelibato. Si dice che abbia l’odore dell’inferno (è vietato portarlo in aereo, sui mezzi pubblici e nelle camere d’albergo) e il sapore del paradiso… personalmente lo trovo piuttosto disgustoso, ma in Asia stravedono per lui. Un’altra teoria sostiene che Jakarta, come il durian, vada provata tre volte prima di apprezzarla. Fuor di metafora, Jakarta è allo stesso tempo respingente e seduttiva, è the place to be per ogni ragazzo indonesiano che vuole far fortuna – vengono qua da ogni parte del paese e la città cresce, si espande dissennatamente, in verticale con i grattacieli e in orizzontale con gli slums.

La povera Jakarta soffre del complesso della città brutta ed è finita, suo malgrado, in un circolo vizioso: i turisti non la visitano perché ha fama di essere brutta ed è effettivamente brutta perché, essendoci pochi visitatori, l’amministrazione non ritiene prioritario investire sulle strutture turistiche. Ci sono poi dei problemi che vanno al di là del turismo e che creano disagio in primo luogo a chi a Jakarta vive: ad esempio il fatto che non ci sia una rete metropolitana rende davvero complicati gli spostamenti, in una città da oltre 10 milioni di abitanti! Una delle questioni scottanti di Jakarta è per l’appunto il traffico, perennemente congestionato; le automobili rimangono imbottigliate mentre sciami di motorini ronzano loro attorno, i temerari pedoni soccombono tra i fumi dei gas di scarico. Nei giorni in cui l’abbiamo visitata noi probabilmente c’era addirittura più traffico del solito perché quest’anno la città ospitava la XVIII edizione degli Asian Games, le Olimpiadi d’Oriente. Sarebbe stato bello vedere qualche gara ma purtroppo non ci siamo organizzati per tempo. Spoiler: la Cina ha sbancato il medagliere.

Effettivamente la città non abbonda di luoghi convenzionalmente belli, e molti turisti si limitano a visitarne i centri commerciali. Fatto sta che a noi i posti con una pessima fama incuriosiscono e abbiamo deciso di passare un paio di giorni a Jakarta per darle un’occhiata. Come da tradizione abbiamo cercato un free walking tour e ci siamo imbattuti in Huans di Jakarta Good Guide, che ci ha portati in giro per la città vecchia, cioè quel che resta dell’antica Batavia, capitale delle Indie Orientali. Jakarta ha infatti un passato coloniale: Batavia è il nome che le avevano dato gli olandesi, che spadroneggiarono sull’Indonesia per tre secoli e mezzo prima attraverso la Compagnia Olandese delle Indie Orientali (VOC) e poi direttamente tramite il governo coloniale. Anche il nome “Indonesia” è di derivazione coloniale – il nome originario del Paese è Nusantara, ovvero “arcipelago” in antico giavanese. Un nome che svela la varietà e la complessità di una nazione composita, formata da oltre tredicimila isole, ognuna con una fortissima identità culturale (il significativo motto nazionale è “uniti nella diversità”).

Huans e il suo gruppo offrono anche degli altri tour della città: uno esplora il vero e proprio city center, ovvero la zona che si sviluppa intorno al National Monument in Merdeka square, fatta principalmente di grattacieli e business center. Dice la Lonely Planet che il monumento è confidenzialmente chiamato dagli abitanti di J-town “l’ultima erezione di Sokarno”, il primo presidente dell’Indonesia indipendente. Un altro tour è dedicato a Glodok, la Chinatown della capitale indonesiana, che pare sia anche zona di ottimo street food. La comunità cinese non ha avuto vita facile a Jakarta: durante le rivolte del 1998 i cinesi indonesiani hanno subito violenze terribili e fino all’anno 2000 era addirittura proibito loro dare nomi cinesi ai figli e festeggiare il capodanno cinese, la loro festa più importante. A oggi tutte le religioni praticate nel Paese godono di eguali diritti. La legge stabilisce che bisogna credere in un Dio, non importa qualche, basta che in qualcuno/qualcosa si creda. L’ateismo, d’altro canto, è bandito.

Ci siamo incontrati con Huans alla stazione di Kota, la più antica stazione ferroviaria della città. Adesso serve principalmente le destinazioni poco distanti ed è usata dai pendolari che si recano ogni mattina a Jakarta per lavorare. È stata costruita alla fine del XIX secolo da un architetto olandese combinando art déco ed elementi architettonici locali; ha ariosi soffitti a volta, dettagli in ceramica e in legno di teak. Da qui, attraverso un sottopassaggio, siamo sbucati di fronte al National Bank Museum – se avete tempo di visitare un solo museo a Jakarta, scegliete questo. Il tema (la storia monetaria del Paese) è particolare, ma molto interessante. Siamo poi saliti a bordo di un angkot, ovvero un pulmino da una dozzina di posti circa che va fermato lanciandosi in mezzo alla strada e che ti porta più o meno dove devi andare; e ci siamo diretti al vecchio porto di Sunda Kelapa, che adesso è un po’ malandato ma una volta era il cuore del traffico marittimo di Batavia. Un marinaio ci ha portato in giro attraverso il porto sulla sua barchetta – è stato molto emozionante aggirarsi tra le navi vuote nel silenzio di un giorno di festa. Abbiamo anche fatto una incursione su una grossa nave da carico turchese, chissà se il capitano sarebbe stato d’accordo… Rientrati sulla barchetta abbiamo fiancheggiato giganteschi casermoni fantasma, baracche, ragazzini che ci sbracciavano per salutarci. Intorno al porto si sviluppa purtroppo una grande povertà e i cumuli di spazzatura e plastica si fanno più grandi giorno dopo giorno. Versano in uno stato di semi abbandono anche il museo marittimo, ospitato negli antichi edifici coloniali, e la “torre pendente” di Jakarta, l’antica vedetta. Passiamo accanto a tre luoghi emblematici: un albergo di lusso caduto in rovina, un caffè ristorante (bellissimo, negli spazi di una antico magazzino della VOC) fallito e l’antico ponte levatoio olandese, anch’esso male in arnese. C’è da anni in programma la riqualificazione della zona: speriamo che prima o poi avvenga davvero.

La grande sorpresa è stata Taman Fatahillah: una piazza strapiena di gente, ragazzi e ragazze seduti in circolo a chiacchierare, che manco alle colonne di San Lorenzo un sabato sera d’inizio estate (con la differenza che qua non ci sono le birre e le ragazze sono quasi tutte velate). Era il centro dell’antica Batavia e ai suoi lati ci sono tanti bei palazzi come le Poste Centrali e il vecchio Municipio (oggi un museo storico). Un buon posto per osservare il via vai è il Cafè Batavia, con i suoi tavolini che danno sulla piazza.

Per cena, su suggerimento di Huans, ci siamo fermati al Restaurant Merdeka (il nome non è particolarmente invitante, ma significa “indipendenza” in bahasa indonesia, e anche in malay – moltissime piazze in Indonesia e Malesia portano questo nome). È un ristorante che propone cucina Padang, dell’isola di Sumatra: funziona che ti siedi a tavola e il cameriere comincia a portare un’infinità di ciotole e ciotoline, addirittura impilandole le une sulle altre quando finisce lo spazio. I commensali scelgono cosa mangiare, rigorosamente senza posate; vengono poi addebitati sul conto solo i piattini effettivamente toccati. Il piatto più buono è probabilmente il rendang, una specie di stracotto dal sugo scurissimo e speziato. Mi è piaciuto anche il tempè fritto (sono fagioli di soia fermentati, in pratica un panetto di penicillina).

Per tornare verso il centro abbiamo preso l’autobus della TransJakarta che taglia verticalmente la città fino al Blok M. È curioso perché le fermate sono delle specie di gabbiotti sopraelevati nel mezzo delle strade. Alcuni autobus sono ladies only.

L’ultima tappa della serata è stato un elegante sky bar all’ultimo piano di un grattacielo bello alto: un posto davvero figo (si chiama Skye). La vista pazzesca, i cocktail molto buoni. La fauna eterogenea e a tratti inquietante: turisti con Birkenstock e braghe corte (noi), qualche esponente della Jakarta bene, businessmen cinesi sbronzi, giovani fanciulle asiatiche accompagnate a panzoni occidentali. Meglio rivolgere lo sguardo verso le ipnotiche mille luci della città verticale e ubriacarsi di vertigine.

Scendendo a velocità supersonica dal cinquantaseiesimo piano della BCA Tower abbiamo scambiato in ascensore due chiacchiere con un gruppo di alticci expat australiani e americani: dopo averci dimostrato la loro conoscenza dell’italiano a suon di bestemmie, ci hanno giurato che la vita a Jakarta, soprattutto quella notturna, è tutta da scoprire. Sempre la Lonely descrive Jakarta come città di movida sfrenata e club underground – non sappiamo quanto ciò corrisponda al vero, ma ci fidiamo (sicuramente non si beve molto, dato che è pur sempre la capitale di un Paese islamico).

Concludendo, confermo che il gusto di questo grande durian non è così male, dopo tutto. Jakarta non è bella, anzi è sporca, trafficata e confusionaria, ma nasconde angoli di grande dolcezza. Visitandola, anche di sfuggita come abbiamo fatto noi, si ha modo di squarciare il velo della società indonesiana e forse capire un pochino meglio questo popolo.

Praga, rapsodia boema

Il Ponte Carlo

Buongiorno Praga, finalmente ci conosciamo! Sei tra le poche grandi e famose città che mi mancano, nella buona vecchia Europa. Mi accogli con un clima relativamente mite, per la fine di gennaio, e un cielo grigiazzurro. Mi piaci da subito, città di libri. Ho letto tanto di te, dei tuoi abitanti, del tuo passato tumultuoso. Viene immediato un paragone con la Praga immaginata: forse le onnipresenti folle di turisti hanno succhiato via un po’ della tua anima? Cuore barocco, Apollinaire ti descrisse come una “nave dorata che naviga maestosamente sulla Moldava”. Dolorosamente bella e malinconica, elegante, costante come le acque brune del fiume che ti attraversa, anche se oggi i trenta santi del Ponte Carlo sono tutti anneriti: forse hanno perso un po’ del loro fascino, hanno bisogno di un restauro o quantomeno di una lustratina. Risplendono solo le effigi di San Giovanni Nepomuceno, protettore delle persone in pericolo di annegamento, e del suo cane, accarezzate in continuazione dai passanti per buona sorte. Narra la leggenda che San Giovanni da Nepomuk non volle rivelare i segreti della regina Giovanna di Baviera, di cui era il confessore: per questo gli fu tagliata la lingua e, messo in un sacco, fu lanciato nella Moldava.

Orientarsi a Praga è molto semplice, perfino per me: la città è divisa in due dal fiume e divisa in distretti, ognuno caratterizzato da uno stile molto riconoscibile. Sulla sponda occidentale si trovano Hradčany con il suo castello, che appollaiato in alto come un nido d’aquila sorveglia silenzioso la città, e le pittoresche vie di Malá Strana, il Piccolo Quartiere. La Città Vecchia e quella Nuova (Staré Město e Nové Město) si estendono invece sulla riva destra della Moldava. La Città Vecchia è intrigante e labirintica come una pagina di Franz Kafka, che qui nacque, visse e scrisse. Il suo rapporto con Praga fu ambivalente – la definì come una matrigna dai cui artigli non si può sfuggire – e complicato dalla duplice condizione di isolamento ed estraneità determinata dal suo essere ebreo e, allo stesso tempo, appartenente alla borghesia di lingua tedesca.

Iniziamo il nostro cammino da Staroměstské náměstí, la piazza della Città Vecchia, che profuma di Pražská šunka, il prosciutto affumicato che arrostisce nei banchetti. È molto bella, anche se purtroppo la sua attrazione principale, l’orologio astronomico, è attualmente in restauro. Accanto si trova Palazzo Kinský, edificio in stile rococò dove Franz Kafka frequentò il ginnasio dal 1893 al 1901. Sulla piazza incombono le guglie nere di Santa Maria di Týn, roccaforte hussita; e proprio qui sorge il memoriale a Jan Hus, pensatore e riformatore religioso boemo condannato per eresia e bruciato sul rogo nel 1415, considerato il precursore della Riforma protestante, essendo vissuto circa un secolo prima di Lutero, Calvino e Zwingli. Viene raffigurato circondato dai suoi seguaci, che furono costretti all’esilio. Ho scoperto che a Jan Hus si deve anche la prima riforma ortografica della lingua ceca: fu lui a introdurre punti ed accenti in luogo delle z (ancora in uso nella scrittura polacca) e le doppie vocali.

Le fiamme ricorreranno funestamente nella storia della città a cinque secoli e mezzo di distanza: nel tardo pomeriggio del 16 gennaio 1969 “Jan Hus di nuovo sul rogo bruciava, all’orizzonte del cielo di Praga…”. Jan Palach era uno studente di filosofia, aveva vent’anni: si versò addosso una tanica di benzina e si diede fuoco sulla scalinata del Museo Nazionale in piazza San Venceslao, per protestare contro l’occupazione sovietica del suo Paese e i carri armati che qualche mese prima avevano represso i moti democratici della Primavera di Praga (di cui quest’anno ricorre il cinquantenario). Nel suo tascapane, che tenne a debita distanza dalle fiamme, furono ritrovati i suoi appunti e quello che suona come un testamento politico:  «Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa». Si firmò «la torcia n.1». Morì per le ustioni riportate, tre giorni dopo il rogo; disse ai medici d’aver preso a modello i monaci buddhisti del Vietnam e in particolare Thích Quảng Đức, che nel 1963 si era dato fuoco a Saigon per protesta contro le politiche di intolleranza religiosa nel Vietnam del Sud. Al funerale di Jan Palach, organizzato dall’associazione degli studenti di Boemia e di Moravia, accorsero oltre 600.000 persone da tutta la Cecoslovacchia. Da un articolo del 1999 di Bernardo Valli su Repubblica, ho appreso che sulla facciata di un teatro in città era stata scritta a grandi lettere una frase di Brecht: “Infelice quel popolo che non ha eroi. Ma infelice quel popolo che ha bisogno di eroi”. Nelle settimane successive almeno altri sette studenti, tra cui l’amico Jan Zajíc, si immolarono come torce umane, ma la censura di regime fece in modo che le loro morti passassero sotto silenzio.

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Piazza San Venceslao (Václavské náměstí), che più che una piazza è un ampio viale in pendenza, rappresenta il simbolo dell’identità ceca e praghese. Qui hanno avuto luogo gli eventi più importanti della storia di Praga: qui il 28 ottobre 1918 venne dichiarata l’indipendenza dall’Impero austro-ungarico, qui il 24 novembre 1989 Václav Havel e Alexander Dubček annunciarono la fine della dittatura comunista in Cecoslovacchia.

Il museo di Storia Nazionale al momento è chiuso, tutto ricoperto da teli e circondato da impalcature: lo stanno ristrutturando, credo che i lavori andranno avanti ancora qualche anno. Il monumento che commemora Jan Palach e Jan Zajíc è poco visibile e un po’ trascurato. Hanno trasferito parte delle collezioni e allestito un museo temporaneo nell’edificio accanto, sempre in piazza San Venceslao. Abbiamo fatto un giro: oltre alla collezione di scienze naturali era in esposizione una mostra su Tomáš Garrigue Masaryk, primo presidente della Cecoslovacchia.

“Corre il dolore bruciando ogni strada e lancia grida ogni muro di Praga…”

A proposito di muri, merita una visita il cosiddetto “muro di John Lennon”. Pare che durante il regime comunista John Lennon fosse un mito per i ragazzi cechi – all’epoca non si poteva ascoltare liberamente la musica occidentale. Qualcuno lo ritrasse su un muro di Malá Strana, accanto all’ambasciata francese, che divenne presto il ritrovo dei giovani dissidenti. La polizia segreta lo imbiancava di giorno, e di notte il muro veniva dipinto di nuovo con scritte a sfondo pacifista e disegni inneggianti alla libertà. Anche dopo la Rivoluzione di Velluto il muro ha continuato a essere un punto di ritrovo e oggi chiunque passa lascia la sua firma e il suo messaggio, non necessariamente profondo. Si è ridotto a un muro scarabocchiato – però ha il suo perché.

Meta favorita per gite di classe e addii al celibato, Praga ha una strana vocazione alla trasgressione: i negozi di souvenir sembrano vendere solo oggetti variamente legati alla cannabis (la Repubblica Ceca è tra gli stati europei che ne consuma di più e la legislazione sulle droghe leggere è abbastanza permissiva) e mignon di assenzio. Credo però che la situazione sia migliorata, rispetto a una decina di anni fa, e comitive troppo sconvolte noi non ne abbiamo incontrate; forse quel tipo di turismo da alcol & night club si è spostato in qualche altra capitale dell’Est Europa.

La cucina praghese è sostanziosa e senza fronzoli, nel migliore stile mitteleuropeo. Il nostro primo pranzo è a base di carne di maiale e gnocchi di patate, che pare siano la specialità nazionale (hanno una consistenza un po’ stopagoss, come si dice a casa mia). La combinazione  arrosto di maiale-gnocchi-crauti va per la maggiore, e viene familiarmente chiamata vepřo-knedlo-zelo. La cena è a base di ginocchio di maiale: come uno stinco, ma più grosso e più grasso. Tutti i pasti sono annaffiati da pilsner fresche e beverine, perché in Repubblica Ceca la birra è un affare importante: è uno dei Paesi che ne consuma di più in assoluto, e il dato non stupisce, dato che costa meno dell’acqua. La prima bionda del mondo è stata creata proprio dai mastri birrai boemi nel 1842: si tratta della Plzeňský Prazdroj, oggi conosciuta con il nome tedesco Pilsner Urquell.

Al ristorante del primo pranzo, al tavolo accanto al nostro, c’era un gruppo di persone tutte truccate e vestite in modo buffo con drappi maculati e piume – una specie di assemblea rumorosa di re e regine della giungla. Continuavano a brindare e bere, brindare e bere; sono usciti dal locale tutti barcollanti con le loro trombe e trombette. Pensavamo fossero musicanti o teatranti un po’ matti in turnè, e invece no: erano alcuni degli oltre 1300 partecipanti al Guggemusik Festival, una parata itinerante di bande di carnevale tipica dei paesi di lingua tedesca. Erano davvero tanti, divisi in gruppetti di 10-30 persone l’uno, dal trucco diverso eppure simile; e suonavano con gran passione tutti gli strumenti possibili, dal triangolo alla grancassa. In mezzo al casino mi è venuto in mente Michail Bachtin: il carnevale come festa del tempo e del divenire, sovversione della gerarchia, liberazione e trasgressione temporanea delle regole, dei tabù. Mentre mi sospingevano verso il Ponte Carlo, ho invidiato quei matti danzanti dalle facce dipinte.

Passato il corteo e scesa la calma, percorriamo il lungofiume verso Nové Mesto, la città nuova, alla ricerca di altri due ballerini: Ginger e Fred, come familiarmente vengono chiamati dai praghesi i due edifici che costituiscono la cosiddetta Casa Danzante (Tančící dům). Si tratta di un’audace architettura moderna, progettata dall’architetto croato Vlado Milunić in cooperazione con il canadese Frank Gehry. Il piano originale prevedeva di farne un centro culturale, ma non fu mai realizzato; ospita oggi un albergo, un ristorante all’ultimo piano da cui si gode una bella vista sulla città, e degli uffici. La costruzione iniziò nel 1994 e terminò nel 1996. Quando fu inaugurata, non a tutti piacque e ci furono delle controversie, ma oggi è uno dei simboli di Praga.

Giusto il tempo di una birra al bar della stazione, un panino di Subway in aeroporto, ed è arrivato il momento di partire. Insomma, ti ho vista un po’ troppo in fretta, Praga. Spero di rivederti presto – magari un fine settimana di fine estate, o magari proprio in primavera, la tua stagione più bella.

Barcellona in primavera

La mia prima volta a Barcellona è stata soleggiata e curiosa. Curiosa come me, alla scoperta di una città che non conoscevo, con qualche preconcetto e gli occhi come sempre spalancati. Tutti amano Barcellona, e tutti la odiano; ha tanti detrattori perché è sporca, è pericolosa, è piena di turisti… il che non mi è sembrato granché vero. I turisti c’erano ed erano anche tanti, ma ancora non era alta stagione, la primavera faceva appena capolino. Non è più sporca né più pericolosa di tante altre grandi città; ecco, magari tenete stretta la borsa sulla leggendaria Rambla, il viale più famoso di Spagna. Che poi è pure, secondo me, la zona meno bella di Barcellona.

Proseguite lungo la Rambla fino al monumento a Colombo, strategicamente posizionato dove inizia il mare. L’esploratore indica col dito l’orizzonte, verso una direzione non molto chiara: non l’America, non Palos, da cui salparono le caravelle, non Genova, la sua città natale. A quanto pare indica l’isola di Mallorca – ma non ho capito bene perché.

Avanti e avanti, lungo il mare, che in questa stagione è chiaro e tranquillo. Buttatevi sulla sinistra ed inoltratevi nella Ribera, un bel quartiere di viuzze e polperie. Spiluccate qualche tapas sorseggiando una birra ghiacciata, bevete un caffè, riprendete il cammino. Fate una passeggiata nel Parc de la Ciutadella: la domenica sembra essere fatta per questo. Un girotondo di bambini e adulti, bonghi e bolle di sapone. Una sosta davanti alla bellissima Cascada Monumental e una di fronte alla glorieta dove nel 1991 fu assassinata la transessuale Sonia Rescalvo Zafra. Dormiva al riparo di questo gazebo, ora dedicato a lei, quando una banda di neonazisti le fracassò il cranio a calci e pugni.

Architettonicamente parlando, Barcellona è caratterizzata da due grandi stili: uno è il gotico medievale, che troviamo nella parte antica della città e in particolare nel suo cuore, che si chiama giustappunto Barri Gòtic. Narra storie di chiese maestose, che a differenza di altre chiese gotiche europee si sviluppano in larghezza più che in altezza; pochi pinnacoli, molti grandi rosoni. Le più belle, oltre alla Cattedrale, sono Santa Maria del Mar e Santa Maria del Pi. L’altro è il modernismo, movimento internazionale che si sviluppò in tutta Europa (con nomi diversi: art nouveau, liberty, Jugendstil) tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, volto a proporre un nuovo linguaggio architettonico, anticlassico, trasgressivo, ornamentale, plastico. Se a Barcellona ebbe una personalità tale da parlare nello specifico di modernismo catalano, il merito fu principalmente di quel matto di Antoni Gaudí, che plasmò la sua visione del mondo in una serie di edifici che ora costituiscono dei veri e propri simboli di Barcellona.

Il modernismo fu strettamente legato al clima di prosperità che si respirava in quegli anni e all’ascesa della borghesia come classe sociale dominante; se oggi le strade di Barcellona sono disseminate di fregi liberty è perché le famiglie ricche ci tenevano a sfoggiare il loro benessere economico e ingaggiavano gli architetti e gli scultori più in voga affinché decorassero gli interni e gli esterni delle loro case. Nacquero così, su commissione, le esuberanti Casa Batlló (1904-1907) e Casa Milà, detta La Pedrera (1906-1912). Entrambe sono state dichiarate dall’Unesco Patrimoni dell’Umanità.

Ma il grande capolavoro di Gaudí è la Sagrada Família, probabilmente tra gli edifici religiosi più strambi al mondo. Il devotissimo Gaudí vi lavorò per oltre quarant’anni, di cui gli ultimi quindici a tempo pieno, finché nel 1926 non morì, investito da un tram. La cattedrale rimase incompiuta, e lo è tuttora; i lavori vanno avanti e non dovrebbero terminare prima di altri dieci anni almeno. Rassegnatevi a gru e ponteggi nelle vostre fotografie; del resto a me fanno simpatia, ricordano la perpetua fabbrica del Duomo. L’emozione che si prova vedendola è molto forte, già da lontano; man mano che ci si avvicina e i particolari acquistano nitidezza, ci si sente sempre più piccolini. È immensa, imponente, sacra: l’architetto di Dio volle fondervi una sublime tensione verso il cielo e una componente terragna e sanguigna, organica, che trasforma gli elementi strutturali in ossa, muscoli e nervi tesi.

Barcellona vive la stessa età di cambiamento di tante città europee che stanno cambiando faccia in questi anni. La famigerata gentrification colpisce anche qua. Si è rifatta il trucco e il porto non è più un luogo malfamato e pericoloso. Nel Barri Gòtic c’è una piazzetta dove ci siamo ritrovati per caso, intitolata allo scrittore George Orwell (Orwell combattè contro Franco durante la guerra civile spagnola e rimase in Spagna dal dicembre 1936 al giugno 1937; nel 1938, quando la guerra era ancora in corso, pubblicò Omaggio alla Catalogna, personale resoconto di quei mesi). La piazzetta è però popolarmente conosciuta dai barcelloneti come Plaza del Tripi: la denominazione mi è stata spiegata con la passata vocazione lisergica di questo angolo di città, anche se ho poi letto che “Tripi” sarebbe il nomignolo con cui è familiarmente chiamata la scultura surrealista che sorge in mezzo alla piazza. Questioni etimologiche a parte, la piazza era famosa in passato per essere un vero postaccio, ritrovo di spacciatori e ubriaconi. Qualche anno fa hanno tirato giù un muretto e messo al suo posto qualche aiuola e dei giochi per bambini: ai botellón si sono sostituiti passeggini e biberon.

Il primo giorno, a pranzo, Clod ci ha portati in una di quelle osterie che sembra stiano per scomparire dalla faccia della Terra. Quelle dove il tempo sembra sospeso; dove l’oste è burbero, ma sornione, come a farti capire che sei un ospite in casa sua e ti devi comportare bene. Dove si beve il vino da una strana brocca col beccuccio lungo lungo, ricordo dei tempi in cui non c’erano le lavastoviglie e invece che dotare ogni commensale di un bicchiere era più funzionale un solo recipiente, da cui tutti potessero bere a turno senza toccarlo con le labbra (anche se, a vederlo, mi sembra ci voglia una certa abilità per bere senza sbrodolarsi). Dove si ritrovano in pausa pranzo gli sciuri del quartiere e gli operai che lavorano al cantiere due strade più in là. Dove si assaggiano a un buon prezzo le specialità catalane del giorno: fave e botifarra, guance di maiale che si sciolgono in bocca, caragols (lumachine), mel i matò.

Di Barcellona mi ha affascinato la sua fierezza culturale e linguistica: il catalano ha quello zic che, filologicamente parlando, mi dà brividi di piacere all’ascolto e alla lettura. Il catalano era la lingua della corte d’Aragona: per questo motivo, nei territori d’Italia che hanno vissuto la dominazione aragonese, ha influenzato vari dialetti e lingue regionali (ed è stato a sua volta influenzato dall’italiano). Oggi è parlato da circa nove milioni di persone, in Spagna (non solo in Catalogna, ma anche nella zona di Valencia e nelle isole Baleari), in Francia (Rossiglione) e in Italia (nella provincia di Alghero, dove si parla un’antica variante orientale con forti influssi dall’italiano e dal sardo). È inoltre l’unica lingua ufficiale di Andorra. A Barcellona, il catalano è cultura e identità: quasi tutti gli abitanti della città sono bilingui e lo parlano correntemente, spesso preferendolo al castigliano; lo troverete nei menu, sui cartelli, sulle targhe di vie e piazze. La politica culturale di Franco fu molto rigida nei confronti delle lingue minoritarie di Spagna (non solo il catalano, ma anche il basco e il galiziano): durante gli anni del regime, quindi dalla fine della guerra civile nel 1939 fino alla morte del dittatore nel 1975, solo il castigliano era riconosciuto come lingua ufficiale e tutti i gli usi pubblici del catalano erano interdetti. Fortunatamente rimase come lingua degli affetti, tra le mura domestiche, e come lingua di resistenza. Una volta caduto il regime, la nuova costituzione del 1978 riconobbe la pluralità linguistica del Paese e stabilì che, in base agli statuti di autonomia, le lingue spagnole diverse dal castigliano potessero diventare lingue ufficiali. La Catalogna, di cui Barcellona è capoluogo, riconosce quindi il catalano come lingua ufficiale accanto al castigliano, e ne promuove lo studio nelle scuole e nelle università.

Di Barcellona mi sono piaciuti i mercati colorati della Bouqueria e di Sant Antoni, le piramidi di frutta e i prosciutti  appesi. I bouquet di salumi e formaggi, l’umanità varia, i patii alberati e fioriti, il rumore dell’acqua che sprizza dalle fontane, l’elegante cattedrale e tutta la Ciudat Vella, l’incantevole Plaça del Pi con l’omonima chiesa, i tavolini all’aperto, i mandaranci, le palme, i pini marittimi. L’urbanistica ariosa dell’Eixample, la collina del Montjuïc e la Fundació Joan Miró, la corsa in teleferica, il pesce fresco scelto a vista e grigliato sul momento. Le mattine che iniziano con caffè, spremuta e toast al tavolino di un bar, le hamburgueserías un po’ hipster del Poble Sec, i ragazzini che sfrecciano sui pattini, le vie strette del Raval che brulicano di vita, donne e uomini affaccendati e rumorosi, incontri, incroci, lingue e culture diverse. Mi piacciono le città grandi e incasinate, mi piacciono il mare e l’aria che sa di salsedine. Ho ascoltato il tuo canto e annusato il tuo profumo, Barcellona, mi hanno subito riempito d’amore per te.

Una gita a Neuschwanstein

Sull’ultima propaggine delle Alpi si innalza un castello bianco e turrito, che pare uscito da una favola. Si tratta del castello di Neuschwanstein, costruito tra il 1869 e il 1892 per volere del re Ludovico II di Baviera. Purtroppo per lui, vi visse solo per pochi mesi e non riuscì neanche a vederlo completato, dato che morì in circostanze misteriose nel 1886. L’impatto visivo con il castello è fortissimo, spicca come un cristallo luminoso contro l’ombra nera della montagna. L’abbiamo visto con il sole e la neve, in una di quelle giornate terse e gelide che ghiacciano il fiato. Stava lassù, abbarbicato su una punta rocciosa, elegante e indifferente. Distante eppure familiare, poiché fa parte del nostro immaginario da sempre, dall’epoca dei puzzle complicatissimi che non riuscivamo mai a completare e delle sigle di apertura dei film d’animazione Disney. Le sue forme sono infatti quelle che hanno ispirato i castelli di Biancaneve, Cenerentola, la bella addormentata nel bosco; piccole fortezze à la Neuschwanstein sorgono nelle Disneyland di tutto mondo. Questo è l’originale e tuttavia una riproduzione a sua volta: un cliché di Medioevo ricreato sul cucuzzolo di una montagna da un re matto, il rifugio di un uomo solitario e sognatore.

Ludovico II di Wittelsbach, figlio di Massimiliano II di Baviera e Maria Federica di Prussia, fu re di Baviera dal 1864 al 1886, anno in cui fu dichiarato pazzo e deposto. Aveva solo diciotto anni quando divenne re, e venti quando, con la disfatta austriaca e bavarese contro la Prussia nella guerra tedesca del 1866, vide definitivamente svanire il sogno della monarchia assoluta. Fu probabilmente in seguito a questo episodio che Ludovico iniziò la sua costruzione mentale di un mondo parallelo, fantastico, su cui poter regnare, re incontrastato delle vallate, degli alberi, delle cime innevate, dei laghi splendenti. L’idea di Neuschwanstein si sviluppa proprio in questi anni: il luogo prescelto per innalzare il suo castello fatato è Schwangau, sulle Alpi, a poca distanza dal castello paterno di Hohenschwangau, dove Ludovico aveva trascorso gran parte della sua giovinezza. Lo volle chiamare Neue Burg Hohenschwangau, Nuovo Castello di Hohenschwangau (la denominazione Neuschwanstein è postuma).

Il progetto di Neuschwanstein è maestoso ed eccentrico: prende ispirazione dalla fortezza di Wartburg in Turingia, e più in generale dalle illustrazioni libresche di castelli medievali. I bozzetti, che replicano nel dettaglio i desiderata del re, furono disegnati scenografo teatrale Christian Jank, mentre gli architetti incaricati di concretizzarli furono in successione Eduard Riedel, Georg Dollmann e Julius Hofmann. Il progetto architettonico fu modificato in corso d’opera: in parallelo alla crescente ritrosia del re per ogni contatto umano, vennero meno le stanze degli ospiti e gli spazi di rappresentanza, lo Scrittoio si trasformò in una piccola grotta artificiale con tanto di stalattiti e stalagmiti, che veniva illuminata con luci colorate. Sbirciando il piccolo giardino d’inverno, immagino il re in silenziosa contemplazione delle sue montagne, mentre nella sua testa rimbombano le potenti musiche wagneriane, che evocano storie di anime a lui affini.

Lo stile è eclettico e unisce ad elementi romanici e neogotici le più moderne tecnologie dell’epoca di Ludovico: acqua corrente in ogni piano, un complesso sistema di campanelli elettrici per la servitù, montacarichi per i pasti, apparecchi telefonici, riscaldamento ad aria calda.

Lungo il percorso che si snoda tra il terzo e il quarto piano del castello il visitatore ha modo di inoltrarsi nel mondo ideale a cui aspirava Ludovico: un universo popolato dai personaggi delle saghe cavalleresche medievali, dalle quali aveva attinto Richard Wagner per i suoi drammi musicali. Il re era uno sfrenato ammiratore di Wagner, che sostenne come mecenate per tutta la vita, e proprio a lui dedicò il castello di Neuschwanstein. I cicli pittorici che lo decorano sono infatti ispirati alle sue opere, che tematizzano storie di amore, colpa e redenzione. Spiccano le figure di Tannhäuser il trovatore, il cavaliere del cigno Lohengrin e suo padre Parsifal, il re del Santo Graal; in loro Ludovico si immedesimava e alla purezza dei loro animi tendeva. Il tema della purezza viene ripreso nella figura del cigno, già animale araldico dei conti di Schwangau, e simbolo cristiano. Lo ritroviamo nel castello in diverse forme: come stemma dipinto, intagliato, vaso in ceramica, rubinetto, elegantemente intessuto nei cuscini e nelle tappezzerie in seta blu, e nello stesso nome Neuschwanstein (Schwan significa cigno in tedesco).

Le prime pitture murali che si incontrano nel salone d’ingresso inferiore raffigurano scene della saga di Sigurd, tratta dal ciclo epico nordico Edda, il Sigfrido della Canzone dei Nibelunghi nella letteratura medio-alto tedesca. Si entra poi nella sontuosa Sala del Trono, che ricorda una chiesa bizantina. Le suggestioni sono molteplici: una cupola stellata, Cristo, San Giorgio che combatte col drago, i dodici apostoli e i sei re canonizzati. Un massiccio candelabro, ori, colonne di un blu intenso, un mosaico sul pavimento che raffigura la terra con le sue piante e i suoi animali. La sacralità di questo luogo illustra la concezione del potere secondo Ludovico, che si sentiva re per grazia divina, investito di una missione salvifica. Manca il trono, che alla morte del re non era ancora stato realizzato.

Passata la sala da pranzo si raggiunge la camera da letto, decorata dalle vicende di Tristano e Isotta. È cupa, vagamente lugubre; colpiscono l’elaborato baldacchino del letto, intagliato con perizia da quattordici maestri ebanisti, e gli arredi sontuosi. Soliti cigni qua e là: addirittura nel servizio da toilette in forma di brocca, contenitore per la spugna e portasapone. Qui fu sorpreso e arrestato Ludovico, la notte in cui subì l’interdizione.

Attraverso il guardaroba si giunge al salone, il cui ciclo pittorico rappresenta la saga di Lohengrin, il cavaliere del cigno. Ludovico conosceva già dall’infanzia la sua saga, grazie alle pitture murali presenti nel castello paterno di Hohenschwangau. Quando nel 1861 vide il Lohengrin di Wagner all’Opera di Corte di Monaco, ne rimase folgorato: in lui vedeva se stesso, principe romantico.

Superando l’insolita grotta e il giardino d’inverno si raggiunge lo studio, in cui è rappresentata la saga del trovatore Tannhäuser e la gara dei cantori della Wartburg. Si tratta di una leggendaria tenzone poetica avvenuta intorno al 1205 alla corte di Ermanno di Turingia, tematizzata poi nell’omonima opera di Wagner. L’ultima, grandiosa sala è proprio quella dei cantori, che combina due stanze storiche della fortezza di Wartburg: il salone delle feste e il salone dei cantori – dove, secondo la leggenda, si era esibito Tannhäuser. Qua a Neuschwanstein, però, il tema figurativo è un altro: si narra infatti la saga di Parsifal, che grazie alla purezza e alla fede diventa il re del Santo Graal. In questa grande sala, illuminata da più di seicento candele, non ebbero mai luogo feste o concerti finché il re fu in vita. Voleva essere altro: un monumento alle arti, alla musica, alla letteratura. All’amore cavalleresco medievale e ai suoi eroi tormentati e redenti.

Il sempre maggiore disinteresse per le vicende politiche e le spese pazze che Ludovico aveva sostenuto per costruire i suoi castelli portarono il governo a una decisione estrema: il 10 giugno del 1886 il re fu dichiarato pazzo e incapace di governare. La mattina del 12 andarono a prenderlo a Neuschwanstein e lo trasferirono con la forza al castello di Berg, nei pressi di Monaco. Il pomeriggio seguente il re chiese di poter fare una passeggiata con il dottor Bernhard von Gudden, lo psichiatra che aveva firmato la dichiarazione di follia, senza aver nemmeno visitato il re presunto matto. I due uomini non fecero mai ritorno: i loro corpi annegati furono ritrovati in serata nelle acque nere del lago di Starnberg. La morte prematura di Ludovico rimane a oggi un fatto misterioso, sul quale circolano varie teorie. Fu ufficialmente classificata come annegamento, ma il re era un buon nuotatore; altri parlano di un’aggressione, altri ancora di un malore. Alcune leggende raccontano che sia stato sbranato da un licantropo e che il dottor Gudden fosse in realtà il suo amante. Fantasie a parte, molti storici concordano sul fatto che il re non fosse davvero matto, ma semplicemente vittima di un intrigo politico.

Certo è che la figura enigmatica di re Ludovico sprigiona ancora una forza oscura e magnetica. Scrisse un giorno alla sua precettrice che voleva “rimanere un eterno mistero” per se stesso e per gli altri; Verlaine lo definì l’unico vero re del suo secolo. Fu generalmente benvoluto dai suoi sudditi, dato che per tutta la vita cercò di seguire una politica di riconciliazione tra gli stati tedeschi, evitando conflitti armati e garantendo alla Baviera un lungo periodo di pace, e per il suo mecenatismo. I bavaresi lo ricordano tuttora con grande affetto e il titolo “Unser Kini”, il nostro re.

La sua storia si intreccia anche con quella della Principessa Sissi, sua cugina, che diventò poi Imperatrice d’Austria. Erano entrambi amanti della natura e delle arti, e si scambiavano versi come questo “A te, aquila della montagna/Ospite delle nevi eterne/Un pensiero del gabbiano/Re delle onde frementi“. Lei gabbiano lui aquila, in volo sopra le meschinità e i giochi di corte. Fu anche fidanzato per un certo periodo con la Principessa Sofia, sorella minore di Sissi, ma dopo aver rimandato più volte il matrimonio Ludovico ruppe il fidanzamento; non si sposò mai e non lasciò eredi.

La sua eredità è d’altro tipo: lo strambo sovrano ha lasciato ai posteri luoghi magici, geografia e architettura di un mondo ideale, ispirato a quello romantico e cavalleresco delle saghe medievali. Non solo Neuschwanstein, ma anche il castello di Linderhof, la casa reale sullo Schachen, il castello nuovo Herrenchiemsee (che, nelle intenzioni del re, voleva essere una piccola Versailles bavarese), il convento dei canonici agostiniani Herrenchiemsee.

Il castello di Neuschwanstein fu aperto ai visitatori solo sette settimane dopo la sua morte: un oltraggio impensabile per re Ludovico, che lo aveva concepito come un luogo di solitudine e aveva ordinato al custode di impedire l’accesso ai curiosi nel caso avesse fatto una brutta fine. Ironicamente, questo e gli altri stravaganti e fiabeschi castelli da lui voluti, che gli attirarono critiche per i costi spropositati, costituiscono oggi alcuni tra i monumenti più visitati e redditizi di Baviera e della Germania intera.

Info utili

Neuschwanstein è una delle attrazioni turistiche più visitate di Germania e di tutta Europa, quindi conviene organizzare bene la visita. Il castello si trova nei pressi del paese di Schwangau e a sei chilometri dalla città di Füssen, comodamente raggiungibile in autobus. Punto di partenza per raggiungere il castello è la località di Hohenschwangau, dove si trovano anche dei parcheggi a pagamento.

I biglietti si acquistano presso il Ticket Center ai piedi del castello. A gennaio 2017 il biglietto costava 13 euro a castello (è possibile visitare anche l’altro castello, Schloss Hohenschwangau. Noi non l’abbiamo visitato per mancanza di tempo, quindi purtroppo non posso dare molte indicazioni a riguardo). L’albergo dove soggiornavamo dava la possibilità di acquistare i biglietti con un supplemento di 1.80 euro per la prenotazione: se anche il vostro  offre questo servizio approfittatene, perché le code al Ticket Center sono lunghissime fin dal primo mattino e avere già il biglietto in mano vi farà risparmiare un sacco di tempo. È anche possibile prenotare i biglietti online con sovrapprezzo fino a due giorni prima della visita, ma andranno poi in ogni caso ritirati al Ticket Center.

Il castello si raggiunge con una passeggiata in salita di circa trenta-quaranta minuti. In teoria c’è anche un bus navetta, ma quando siamo andati noi il servizio era soppresso a causa della neve, quindi non fateci troppo affidamento (in generale viene sospeso in caso di condizioni atmosferiche avverse, dato che la strada è sterrata e piuttosto ripida). Un’altra opzione per salire è in carrozza, trainata da bei cavalli neri e massicci; però la fila per accaparrarsene una è sempre lunga. Per chi non ha particolari problemi motori la passeggiata è sicuramente la soluzione migliore.

La gestione dei turisti a Neuschwanstein è un ingranaggio ben oliato: a ogni visitatore è assegnato un orario e un numero e bisogna presentarsi ai tornelli di ingresso all’orario stabilito. Si entra a scaglioni ogni cinque minuti di orologio: siate puntualissimi perché se perdete il turno di entrata il biglietto non sarà più valido! Si può scegliere la visita guidata in inglese o in tedesco, oppure con audioguida. Se optate per quest’ultima, non appena entrati vi sarà consegnata una audioguida nella lingua prescelta e una guida vi accompagnerà di sala in sala segnalandovi il momento in cui l’audioguida riprende il racconto. La visita dura circa 30 minuti e il ritmo è molto serrato: purtroppo è l’unico modo di visitare il maniero e gestire il flusso continuo dei turisti. Non è consentito fare foto o video all’interno del castello. Se volete acquistare dei souvenir, sappiate che ci sono due shop, il primo che si incontra è quello con il merchandising ufficiale ed è più caro.

Chi non vuole o non riesce ad acquistare i biglietti può comunque passeggiare liberamente nei boschi intorno al castello e fare delle belle foto dai vari punti panoramici. Il più famoso è il Marienbrücke (Ponte di Maria: Massimiliano II l’aveva costruito per la consorte Maria, amante delle escursioni in montagna), che però è preso d’assalto dai turisti. È un ponticello dall’aspetto abbastanza instabile situato sopra una gola, sconsigliato a chi soffre di vertigini 🙂 Quando siamo andati noi il sentiero per raggiungerlo (circa venti minuti a piedi dal castello) era sbarrato a causa della molta neve caduta la notte prima, ma tutti (TUTTI, e per una volta mi ha fatto piacere constatare che l’indisciplina non fosse solo italica…) scavalcavano ugualmente la barriera per raggiungere questo angolino, da cui effettivamente si gode di una vista pazzesca sul lato lungo del castello.

Una gita in Liechtenstein

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Il minuscolo Principato del Liechtenstein, incastonato tra Svizzera e Austria, vanta alcuni curiosi primati: ad esempio, è il più grande produttore mondiale di denti finti ed è uno dei due stati al mondo (l’altro è l’Uzbekistan) doppiamente senza sbocchi sul mare; ovvero, è privo di sbocchi sul mare e confina solo con nazioni che ne sono a loro volta prive. Nella classifica della piccolezza, con i suoi 160 chilometri quadrati, si piazza al sesto posto nel mondo e al quarto in Europa. Altri primati sono di natura finanziaria: nel Paese ci sono più società registrate che abitanti e il suo popolo gode di un reddito pro capite tra i più alti al mondo. Questa ricchezza ruota in gran parte intorno a un sistema bancario fondato su tassazioni favorevoli e rigida segretezza, anche se negli ultimi anni è stata introdotta una normativa improntata alla trasparenza in materia finanziaria e fiscale che ha parzialmente scardinato l’immagine del Principato come un luogo di loschi traffici e riciclaggio internazionale.

La formazione moderna del Fürstentum Liechtenstein (Principato di Liechtenstein) risale al 1719, quando Carlo VI d’Asburgo decretò l’unione tra Vaduz e Schellenberg come stato appartenente al Sacro Romano Impero. In realtà i suoi Principi risiedevano a Vienna, e non misero piede nelle loro terre per oltre 120 anni. Con la dissoluzione dell’Impero nel 1806 il Principato divenne parte della Confederazione del Reno: caduti gli obblighi nei confronti dell’Austria, si fa risalire a questo periodo la sovranità indipendente del Liechtenstein, anche se formalmente i Principi non erano altro che dei vassalli di Napoleone; caduto anche Napoleone il Liechtenstein aderì alla Confederazione Tedesca (1815-1866), presieduta dall’Imperatore d’Austria. Fu sempre molto legato all’Impero Austriaco prima e all’Impero Austro-Ungarico poi, fino alla fine della prima guerra mondiale, che lasciò il Principato in condizioni economiche disastrose.

Si legò quindi alla Svizzera, e il primo dopoguerra fu caratterizzato allo stesso tempo da un pesante indebitamento e da un’euforia finanziaria che pose le basi per il riaccumulo delle ricchezze perdute. Durante la seconda guerra mondiale il Liechtenstein si dichiarò neutrale e superò il periodo relativamente indenne, eccetto alcune perdite extraterritoriali: alla fine della guerra la Cecoslovacchia si impossessò di alcuni territori in Boemia, Moravia e Slesia che appartenevano alla famiglia reale del Liechtenstein; la questione non è mai stata veramente chiusa e le relazioni diplomatiche con la Repubblica Ceca e la Repubblica Slovacca sono state ricucite solamente nel 2009.

Il secondo dopoguerra fu segnato da abili mosse economiche e finanziarie, che aprirono il Liechtenstein agli investimenti e ai capitali esteri fino a renderlo negli anni uno dei Paesi più ricchi al mondo. Mantiene oggi strettissimi legami doganali e monetari con la vicina Svizzera, con cui condivide la moneta, il franco svizzero (ma anche l’euro è largamente accettato). La Svizzera rappresenta inoltre il Liechtenstein nei Paesi in cui esso non ha rappresentanza diplomatica e consolare.

Oggi il Liechtenstein è uno dei Paesi col più basso tasso di criminalità al mondo: le sue prigioni hanno pochissimi ospiti e i detenuti che devono scontare una pena superiore ai due anni vengono trasferiti in Austria. È anche uno dei pochi Paesi senza un esercito, il quale fu smantellato poco dopo la guerra austro-prussiana del 1866. In quella occasione il Principato inviò una truppa di 80 uomini, che però non fu coinvolta in nessun combattimento. Si racconta che tornarono in 81, la truppa al gran completo, tutti sani e salvi, insieme a un nuovo amico austriaco che avevano incontrato sulla via del ritorno! Un altro buffo aneddoto militaresco risale al 2007, quando 170 soldati svizzeri in addestramento sconfinarono per sbaglio di un chilometro e mezzo in territorio liechtensteiniano. L’accidentale invasione si concluse non appena il comandante si accorse dell’errore e fece marcia indietro; fu poi lo stesso esercito svizzero a informare il Liechtenstein dell’invasione e a porgere scuse ufficiali – quelli del Principato non si erano neanche accorti dell’accaduto…

Il Liechtenstein è una monarchia costituzionale guidata dal Principe Giovanni Adamo II, anche se la reggenza è affidata de facto dal 2004 al figlio, il Principe Luigi. I monarchi sono molto benvoluti dai sudditi, i quali secondo la costituzione potrebbero in qualsiasi momento, con un referendum, deporre i principi e instaurare la repubblica (le municipalità godono addirittura del diritto di secessione). Pare sia facile incontrare i reali per le stradine di Vaduz o sulle piste da sci, ed è consolidata usanza che, in occasione della festa nazionale, il 15 agosto, invitino i sudditi a bere una birra con loro al castello di Vaduz, dove risiedono.

A proposito di birra. Il Liechtenstein non ha un aeroporto, ma una birra propria sì, anzi due: una è l’acquosa Liechtensteiner, che si beve nei bar di Vaduz alla modica cifra di sette franchi svizzeri, l’altra è prodotta dal microbirrificio PrinzenBräu.

La capitale del Paese, con circa 5.400 abitanti, è Vaduz; mentre la città più popolosa è Schaan, che supera Vaduz di circa cinquecento anime. La popolazione totale ammonta a 37.623 abitanti (dato del dicembre 2015), composta per un terzo da stranieri. Moltissimi tra loro sono giuristi: il Liechtenstein vanta infatti il più alto tasso europeo di avvocati, 6 ogni mille abitanti (l’Italia si classifica al terzo posto dopo la Spagna). La lingua ufficiale è il tedesco, ma quella più parlata è un dialetto alemanno, vicino allo svizzero tedesco e ai dialetti del Voralberg austriaco. La meravigliosa parola per indicare il Paese in questo dialetto è Liachtaschta.

Va da sè che Vaduz stessa è minuscola, e sinceramente non offre grandi attrattive. Anche nei giorni di festa non c’è grande movimento in città e in orario serale, almeno durante la stagione invernale, sarà difficile persino avvistare dei liechtensteinesi a passeggio. L’impressione che ne abbiamo avuto è di una città un po’ tristanzuola, senza un centro storico particolarmente caratteristico (a eccezione della cupa cattedrale neogotica di San Florino). Forse siamo stati un po’ sfortunati, dato che praticamente tutti i musei, i bar e i ristoranti di Vaduz erano chiusi il giorno che l’abbiamo visitata; ma anche la signora con i capelli verdi all’ufficio turistico (che, tra l’altro, si trova nell’esatto centro geografico del Paese) ci ha confermato che due ore sarebbero state sufficienti per visitarla. A dire il vero ha fatto anche uno strano sbuffo, che abbiamo interpretato come un uff! due ore sono fin troppe! Se capitate in un giorno più vivace, pare siano degni di una visita il Kunstmuseum Liechtenstein, il museo di arte moderna e contemporanea, e il Museo Postale, che ripercorre la storia filatelica del Paese.

L’attrazione principale di Vaduz è il suo castello, che purtroppo non si può visitare in quanto residenza della famiglia reale. Dalle vicinanze di questo bel maniero abbarbicato sulla montagna a poca distanza dal centro città si gode però di una notevole vista su Vaduz e la sua valle, mentre alle sue spalle si estendono boschi per i quali è un piacere passeggiare. In effetti le attrattive maggiori del Principato sono quelle naturalistiche, accoccolato com’è in una conca alpina, verdissima d’estate e imbiancata dalla neve in inverno.

Che strano Paese. Piccolo, schivo, benestante, un po’ noioso: tuttavia sono felice di esserci passata, più per curiosità che per altro, e di aver visto un nuovo angolino di Europa e di mondo.