La Queima das Fitas di Coimbra

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L’università di Coimbra è la più antica del Portogallo e una delle più antiche d’Europa. In questa città tutto gira intorno al mondo studentesco; il suo calendario è quello accademico.

Coimbra è bellissima: soprattutto di notte, vista dall’alto, quando le sue luci si specchiano nel fiume Mondego, o quando la sua cattedrale medievale al tramonto si infiamma. Coimbra è i suoi studenti: che vanno e vengono per le sue strade avvolti in mantelli neri e lunghi fino ai piedi. Studiare a Coimbra è un’investitura, una storia d’amore che dura tutta la vita: uma vez Coimbra, para sempre saudade

Il primo venerdì di maggio di ogni anno si apre una settimana di festeggiamenti in onore di chi sta per laurearsi. Si chiama Queima das Fitas, che vuoi dire rogo dei nastri e deriva dalla tradizione degli studenti di bruciare a conclusione del proprio ciclo di studi i nastri colorati che simboleggiano la propria facoltà. Continua a leggere “La Queima das Fitas di Coimbra”

Una Pasqua Portoghese

Il proverbio dice: Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi. Io questa Pasqua la passo in casa, con la mamma che tira col mattarello le sfoglie della torta pasqualina, l’agnello in forno, le uova di cioccolato fondente e, fuori, la pioggerellina di aprile (come da tradizione milanese).

Oggi racconto invece di una Pasqua passata in Portogallo, tra i luoghi e le usanze di un popolo ancora molto legato al senso originario dei giorni pasquali. Il cattolicesimo portoghese è forte e vigoroso e si esprime attraverso feste popolari, pellegrinaggi solenni e sontuose processioni. La capitale spirituale del Paese è Braga, nel Minho. Fu per secoli la sede arcivescovile più importante di tutta la penisola iberica e la sua straordinaria Sé (la cattedrale) è la più antica di tutto il Portogallo.“Braga reza, o Porto trabalha, Coimbra estuda e Lisboa diverte-se” (Braga prega, Porto lavora, Coimbra studia e Lisbona si diverte): questa battuta, che riassume un Paese intero in poche parole, rende bene la forte caratterizzazione e connotazione che ognuna delle grandi città portoghesi porta con sé. Braga, appunto, è la città che prega, la città delle chiese e delle campane che risuonano in continuazione, la città della Semana Santa più spettacolare e suggestiva di tutte.

Semana Santa, Braga
Semana Santa de Braga
Procissao do Enterro do Senhor, Semana Santa de Braga

La Semana Santa di Braga

Siamo arrivate a Braga la mattina del Venerdì Santo, accolte da un cielo grigio e carico di pioggia. E’ affollata di turisti, giunti da vicino e lontano per assistere alle celebrazioni della Settimana Santa. Gli altari delle innumerevoli chiese, decorati con fiori e candele, evocano ognuno un episodio della Passione di Cristo; drappi viola ornano le vie e le piazze. La settimana è scandita dalle processioni che attraversano la città, in cui centinaia di figuranti rappresentano con scenografie maestose gli ultimi giorni della vita di Gesù. La tensione religiosa accumulata durante la settimana culmina nei riti del Venerdì Santo, il giorno in cui i fedeli ricordano la morte di Gesù sulla croce. Dopo esserci trovate per caso nella Sé ad assistere alla Procissão Teofórica do Enterro do Senhor, che si svolge nel pomeriggio lungo le navate della cattedrale con canti in latino, ci siamo unite alla fiumana di gente che si raccoglieva lungo la via principale in attesa dell’ultimo grande e solenne corteo notturno, anch’esso intitolato all’Enterro do Senhor. La pioggia che era caduta leggera tutto il giorno si è improvvisamente interrotta alla comparsa dei farricocos, i penitenti incappucciati, che aprono la processione in lugubre silenzio trascinando i piedi nudi sul selciato bagnato. Seguono le confraternite, gli ordini capitolari, i Cavalieri di Malta e del Santo Sepolcro di Gerusalemme, figure allegoriche col volto coperto in segno di lutto, bambini e bambine dalle vesti colorate e preziose, autorità varie, la banda che fa risuonare i tamburi con rintocchi angosciosi e martellanti; al passaggio della cassa da morto le signore pie si fanno il segno della croce e quasi piangono. Il corteo si conclude e gli spettatori si riversano in strada per diventarne la coda, la pioggia riprende d’un tratto per andare avanti tutta la notte.

Il Bom Jesus do Monte

Bom Jesus do Monte

La mattina dopo il cielo s’è schiarito e noi andiamo in gita al santuario del Bom Jesus do Monte (da Braga ci si arriva in quindici minuti con l’autobus numero 2), una bella chiesa neoclassica che  sorge sulla sommità di una collina da cui si gode una vista pazzesca di tutta Braga con la sua valle. L’attrazione principale però non è la chiesa in sé, ma la straordinaria scalinata barocca (lo Escadório do Bom Jesus) che porta fino in cima lungo un percorso simbolico che ripercorre le stazioni della Via Crucis, attraversa le tentazioni dei cinque sensi (Escadório dos Cinco Sentidos) e si conclude – per la felicità del pellegrino – con l’Escadório das Três Virtudes e le cappelle delle tre Virtù (fede, speranza e carità). La camminata è faticosa, ma impreziosita da giardini segreti, fontane allegoriche, piccole grotte. I pellegrini più tenaci se la fanno tutta sulle ginocchia. Al ritorno si può scendere con la rapidissima e ripidissima funicolare che dal 1882 sale e scende su e giù dalla collina del Bom Jesus: è la più antica della penisola iberica e la più antica del mondo tra le sette funicolari esistenti che utilizzano questo sistema di contrappesi ad acqua. 


Bom Jesus do Monte 2
Bom Jesus do Monte 3

Le Aldeias do xisto

C’è un segreto ben custodito tra i boschi e le montagne del centro del Portogallo, nell’area che si estende suppergiù da Coimbra alla serra da Estrela: sono i villaggi di scisto,  luoghi magici dove il tempo scorre lento. A prima vista sembrano disabitati, ma dietro le porte delle case scolpite nella pietra fanno capolino la vita rurale, le tradizioni antiche, un’ospitalità calda. Attualmente sono 27 i villaggi che compongono la Rede das Aldeias do xisto, i cui obiettivi sono la preservazione e la promozione turistica del paesaggio culturale del territorio, la valorizzazione del patrimonio architettonico e lo sviluppo sostenibile del suo tessuto sociale ed economico. Passeggiando lungo queste strade acciottolate mi sono sentita sospesa nello spazio e nel tempo; nella nebbia ho respirato le storie di chi ha abbandonato questi posti, di chi non se n’è mai andato e di chi vi sta facendo ritorno per salvarli dall’oblio del mondo moderno.

Aldeias de xisto 2
Aldeias de xisto
Pitture rupestri…?

Una Pasqua a Casal Novo

E poi la domenica di Pasqua a Casal Novo, con Quico e la mia famiglia adottiva portoghese: accolte ancora una volta con tutto il calore possibile immaginabile da mamma Licinia e papà Jegundo al grande tavolo con nonni e nipoti, un pranzo di festa che si apre con un caldoverde insaporito da gran tocchi di chouriço e si chiude con un morbidissimo pão de ló. E io sono grata e felice per questi momenti, per questo sentirmi a casa lontano da casa, per gli affetti e le amicizie, per la Primavera che sta arrivando. Per l’imbarazzo divertito mio e di Ginevra quando bussa alla porta il prete con mezzo paese dietro per il rito del beijo da cruz, il bacio alla croce, cui fanno seguito auguri, abbracci e brindisi. Per il senso di comunità di questo piccolo accrocco di case che conta poco più di cento abitanti, ma che quel giorno è stato l’ombelico del mio mondo.

Dovunque voi siate, con chiunque voi siate: Feliz Páscoa!

Dolci pasquali
Buona Pasqua!

Tre luoghi macabri a Milano, Evora e Napoli

Particolare della Capela dos Ossos, Evora (Portogallo)
Particolare della Capela dos Ossos, Evora (Portogallo)

Memento mori! Queste sono le storie di tre luoghi macabri che io ho trovato molto suggestivi per la loro atmosfera spettrale ma soprattutto per la mole di esistenza che vi si respira. Voglio dire, per chi ha sempre provato una forte attrazione per le vite degli altri e in particolare gli sconosciuti, per le loro vite possibili e parallele, trovarsi al cospetto delle spoglie mortali di chi ha concluso la sua vicenda mondana secoli fa mette in soggezione e allo stesso tempo dà il tormento di voler sapere chi erano quelle persone, che mestiere facevano, come sono morte. Ah, il soffio dell’eternità! 

Chiesa di San Bernardino alle Ossa, Milano

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Di Milano si dice spesso che i suoi gioielli più preziosi sono anche i più nascosti. Penso che San Bernardino rientri nella categoria, perché che io sappia non è tanto famosa e si mantiene tutto sommato fuori dai circuiti turistici classici. Forse perché da fuori non sembra neanche una chiesa, ma più un palazzo signorile. Si trova tra il Verziere e via Brolo, accanto alla più maestosa basilica di Santo Stefano Protomartire, a due passi dall’Università Statale. Sapevo della sua esistenza ma non ci avevo mai messo piede fino all’altra mattina: sono passata intorno alle otto e mezza, prima di andare in ufficio. Stavano celebrando la messa e nessuno ha fatto caso a me. Mi sono infilata nel corridoio a destra, seguendo le indicazioni per l’ossario, e mi sono ritrovata in questa cappella a pianta quadrata dalla volta affrescata con un barocchissimo Trionfo di anime in un volo di angeli. Su tutti e quattro i lati, fregi rococò e nicchie piene zeppe di ossa e teschi, disposti in modo tale da formare motivi decorativi e croci. Croci fatte di teschi su mura di teschi. L’impatto è stato forte, perché ero sola in questo luogo elegante e triste, con le note dell’organo che arrivavano da lontano.

L’ossario originario risale al 1210 e fu costruito per raccogliere i resti dei lebbrosi morti nell’ospedale del Brolo, nei cui pressi vennero poste nel 1269 le fondamenta della chiesa primitiva. Nel 1642 crollò il campanile di Santo Stefano e distrusse chiesa e ossario, che vennero ricostruiti nello stile dell’epoca; l’ossario fu completato nel 1695. A lungo si è pensato che gli scheletri conservati qui appartenessero ai martiri cristiani uccisi dagli eretici ariani all’epoca di Sant’Ambrogio; in realtà, le ossa provengono dalle spoglie dei pazienti dell’antico ospedale del Brolo, dalle salme traslate qui alla chiusura dei cimiteri cittadini, da condannati a morte e carcerati, da qualche nobile milanese e dagli appartenenti alla confraternita dei Disciplini che sin dal XIII secolo aveva in questo sito la loro sede (e il cui patrono era appunto San Bernardino. L’altra confraternita della chiesa era quella dei furmagiàtt, i produttori di formaggio, che qui pregavano con la protezione di San Lucio..!)

Narra una leggenda che tra i resti conservati nell’ossario ci siano anche quelli di una ragazzina, che la notte dei morti, il due novembre, si risveglia per trascinare con sé i suoi compagni d’eternità in una danza macabra festosa e rumorosa: dicono che gli scheletri danzanti si facciano sentire fin fuori dalla chiesa.

Pare anche che di qui sia passato, nel 1738, Giovanni V re del Portogallo: fu talmente colpito dall’ossario di San Bernardino che volle costruirne uno uguale a Evora, nel suo Paese (così ho letto da qualche parte, ma la datazione è discordante: all’epoca della visita di Giovanni la Capela dos Ossos di Evora atterriva i visitatori già da un paio di secoli. E’ verosimile però che in seguito al viaggio milanese ne abbia ordinato la ristrutturazione, in modo da renderla ancora più spaventosa).

Capela dos Ossos, Evora (Portogallo)

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Evora, capitale dell’Alentejo e città-museo patrimonio dell’Unesco, custodisce molti tesori. La Capela dos Ossos è uno di essi, e si trova all’interno nell’Igreja di San Francisco, una maestosa cattedrale in stile gotico manuelino. L’idea di costruire una cappella le cui mura fossero letteralmente ricoperte da ossa umane venne a tre monaci francescani in tempo di Controriforma, con l’intento palesemente didascalico di indurre chi vi si trovasse alla contemplazione e alla riflessione sulla caducità e transitorietà della vita in terra. Con un certo umorismo nero, dato che all’entrata della cappella troneggia la frase “Nós ossos que aqui estamos pelos vossos esperamos”, ovvero, “Noi ossa che qua stiamo le vostre aspettiamo”. Si contano all’incirca 5.000 tra teschi e ossa varie, provenienti da vari cimiteri monastici e chiese della zona. Quando l’ho visitata io, lo scorso agosto, c’erano due ragazzi appollaiati su delle scale che restauravano una delle pareti, pulendo amorevolmente con dei pennellini le orbite dei poveri resti.

Su una delle pareti sono appesi due scheletri essiccati, uno di un uomo e uno di un bambino. Dice la leggenda che gli scheletri appartengano al figlio e al marito di una donna che fu a tal punto maltrattata in vita da lanciar loro una maledizione: mai avrebbero potuto trovare pace nel regno dei morti. Secondo una versione, al momento del funerale, la terra si indurì tanto da non permettere di scavare una fossa nel cimitero; secondo un’altra, i becchini si rifiutarono di seppellire l’uomo e il bambino per paura che il terreno tutto intorno marcisse. Allora li appesero lì, in bella vista, dove tuttora spaventano gli avventori della cappella.

Cimitero delle Fontanelle, Napoli

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Alle Fontanelle sono andata proprio nel giorno dei morti, l’anno scorso. È uno dei luoghi che più in assoluto ha colpito il mio immaginario: per l’estensione in altezza e in lunghezza, per il suono dei miei passi che risuonavano nel silenzio di tomba, per la geometrica e tuttavia caotica precisione della disposizione degli innumerevoli teschi. Si estende per circa tremila metri quadrati, lungo gallerie scavate nella roccia e alte 10-15 metri che proseguono a perdita d’occhio, incrociandosi l’una con l’altra. Vengono stimati circa quarantamila resti, disposti lungo le pareti in modo più o meno regolare. E’ un luogo buio, illuminato da qualche lumicino, umido, incredibile.

Il cimitero delle Fontanelle si trova nel rione Sanità, in un’antica cava di tufo che cominciò a essere utilizzata come deposito di cadaveri ai tempi della terribile peste del 1656 che uccise a Napoli più di trecentomila persone. Qui venivano ammucchiati i corpi di chi non poteva permettersi una degna sepoltura: i poveri, i negletti, i senza famiglia (in realtà, pare che qui finissero anche le persone abbienti, che i becchini fingevano di tumulare nei cimiteri e trasportavano poi alle Fontanelle di notte in un sacco). Agli appestati si aggiunsero le salme traslate dalle chiese cittadini dopo la bonifica voluta da Gioacchino Murat e coloro che furono colpiti dall’epidemia di colera del 1836. Nel frattempo, intorno ai resti del camposanto si era venuto a creare un culto pagano di dimensioni preoccupanti, al punto che nel 1969 l’allora Cardinale di Napoli Corrado Ursi ne decretò la chiusura, sperando così di porre fine alla macabra devozione del popolo alle anime pezzentelle. In pratica, chi non aveva morti né santi a cui votarsi adottava nel vero e proprio senso della parola un teschietto, lo andava a trovare, lo lucidava, gli portava fiori e omaggi: in cambio delle preghiere, l’anima sarebbe apparsa in sogno al devoto, e gli avrebbe esaudito la grazia o svelato – perché no – quali numeri giocare al lotto. Se i numeri uscivano o la grazia arrivava il teschio veniva posto al riparo in una teca; se invece la cappuzzella non faceva il suo dovere tornava nel mucchio e il devoto ne sceglieva un’altra. Uno dei segni della grazia ricevuta era il sudore delle testoline, che altro non era che condensa da umidità: se poggiando la mano essa non si bagnava, veniva interpretato  come un cattivo presagio.

Una delle cappuzzelle più famose è quella del Capitano, a cui leggenda vuole fosse devotissima una fanciulla che in lui aveva riposto la preghiera di trovare marito. Quando poi la ragazza andò in sposa, il giorno del matrimonio apparve in chiesa un invitato misterioso vestito da soldato spagnolo che le fece l’occhiolino. Il marito ingelosito gli diede un pugno sul grugno: l’indomani, il teschio del Capitano aveva un’orbita completamente nera. Secondo un’altra versione, il promesso sposo dileggiava la sposa per le morbose attenzioni che dedicava a quelle vecchie ossa e osò addirittura per sfregio infilare un bastone nella cavità dell’occhio del teschio, mentre scherzosamente lo invitava alle sue nozze. Quel giorno apparve effettivamente un uomo sconosciuto: invitato a dire chi era, tolse il mantello e si rivelò in tutta la sua mortifera apparenza. Gli sposini morirono sul colpo.

Le anime delle Fontanelle hanno riposato nell’oblio fino al 2010, quando il cimitero è stato riaperto. Ogni teschio, ogni osso racconta una storia, la propria; la vicenda umana che si cela dietro ognuno di questi resti rappresenta per noi un mistero affascinante, destinato a rimanere tale.

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Il mio Portogallo

Lisboa

Mio, aggettivo possessivo, sta spudoratamente a indicare una sensazione di proprietà, possedimento, per la serie “è mio e guai a chi me lo tocca”. Alcune volte non è un bel sentimento: se riferito a un oggetto, può indicare un attaccamento spesso malsano alle cose materiali; se riferito a una persona, può indicare gelosia e sospetto. Altre volte, indica semplicemente un’adesione affettuosa, candida, una vicinanza e una comunanza. Messo accanto a un Paese intero, che vuol dire quell’aggettivo? Vuol dire un richiamo che non so spiegare, un sorriso scemo quando sento qualcuno parlare in portoghese sull’autobus a Milano, l’immagine di cieli pazzescamente azzurri. Il fastidio quando qualcuno lo critica, un altro sorriso scemo alla vista di un umile lupino, ore passate a decifrare le metafore nascoste nelle canzoni di Rui Veloso. Fatto sta che io di questo Paese vado pazza. Sono stata la prima volta in Portogallo nel febbraio del 2008, per un weekend lungo a Lisbona e dintorni: non ha fatto altro che piovere, ininterrottamente, per quattro giorni. Nubi nere, sanpietrini bagnati e scivolosi, alto rischio di finire sotto al tram 28 in una di quelle vie dell’Alfama talmente strette che o passi tu, o passa lui. Eppure io di quella città mi sono innamorata, nonostante il vento freddo e le calze sempre fradicie.

Poi due anni dopo sono finita in Estonia e, strano ma vero, in Estonia c’erano un sacco di portoghesi, con alcuni dei quali ho stretto delle amicizie destinate a durare. Quando parlavano fitto fitto tra di loro in portoghese però non capivo una parola, e la cosa mi indispettiva assai. Mi affascinava moltissimo quella loro lingua piena di shh e di suoni nasali (cão, pão, mão!), allora mi sono impuntata e ho deciso che l’avrei imparata. Sono partita con i numeri da uno a dieci, le parolacce e le drinking songs (i grandi classici dell’erasmus), poi piano piano ho iniziato a formulare le prime frasi, anche se i miei amici mi prendevano in giro per l’accento brasiliano. Tornata in Italia ho continuato a studiare con l’Assimil, che è un metodo fantastico per imparare le lingue, se si ha la costanza di arrivare fino alla fine del libro, ovvero fino al centesimo dialogo surreale.

Sono iniziati i miei pellegrinaggi portoghesi e ho scoperto le strade di Porto, le tradizioni studentesche di Coimbra, le colline del Ribatejo e le onde dell’Algarve. Ogni volta che tornavo mi trovavo talmente bene che sono finita a passare tre mesi nella piovosa Viseu, a bere i vini del Dão e del Douro, a mangiare zuppe e tostas mistas; in quel periodo ho visto le processioni pasquali di Braga e i canali di Aveiro, bevuto la puzzolente e a quanto pare molto salutare acqua termale di Chaves, salito gli innumerevoli scalini del Bom Jesus do Monte. Questa estate sono tornata per l’ennesima volta, per un road trip da Porto in giù, passando per Batalha, Tomar, Nazaré, Abrantes, Obidos, Zambujeira do Mar, il Parque do Sudoeste Alentejano e Costa Vicentina, Sagres e Cabo São Vicente, le acque blu dell’Algarve, infine risalendo per l’Alentejo interior (Alcoutim, Mértola, Serpa, Monsaraz, Evora e i siti megalitici…) fino a Lisbona e Cascais. Oggi parlo portoghese, mais ou menos, ma i suoi suoni continuano a affascinarmi come la prima volta che l’ho ascoltato. Vorrei raccontarlo tutto questo mio Portogallo, un po’ per averlo sempre con me, un po’ come riconoscimento per avermi fatto quel regalo impegnativo e bellissimo che è la saudade.

Lisbona

Post scriptum. I biografi dicono che Antonio Tabucchi si imbattè per la prima volta nella lingua portoghese a Parigi negli anni Sessanta, quando scoprì su una bancarella nei pressi della Gare de Lyon un libriccino che conteneva la traduzione francese della poesia Tabacaria firmata con il nome di Alvaro de Campos, uno degli eteronimi di Fernando Pessoa. Inizia così:

Não sou nada / Nunca serei nada / Não posso querer ser nada / À parte isso, tenho em mim todos os sonhos do mundo. [Non sono niente / Non sarò mai niente / Non posso voler essere niente / A parte questo, ho dentro me tutti i sogni del mondo]

Magari si era fermato per caso a quella bancarella, perché era arrivato alla stazione con troppo anticipo. Come che sia, fu leggendo quelle righe che si appassionò alla lingua e alla letteratura portoghese e, soprattutto, a Fernando Pessoa, di cui è stato il massimo conoscitore in Italia nonché traduttore dell’opera omnia. Menomale che a quella bancarella ci si è fermato: io devo molto a Tabucchi, perché penso che la lettura dei suoi libri abbia contribuito a formare l’idea che dentro di me ho del Portogallo e la sostanza letteraria di questa saudade che ha anche il profumo dell’omelette alle erbe aromatiche  di cui è ghiotto Pereira.

Miragaia e Ribeira, Porto, Portogallo

A chegada é apenas mais um ponto de partida. Ovvero, l’arrivo non è che un altro punto di partenza: per me Porto è questo, un luogo di arrivi e partenze verso altre destinazioni dove qualcuno o qualcosa mi aspettava. Ho preso tanti voli per e da questa città, conosco bene la strada che porta dall’aeroporto alla stazione dei treni e a quella dei pullmann. Al Francisco Sá Carneiro ho passato ore e ore (una volta ci ho pure mangiato una francesinha per disperazione). Poi è successo che Ginevra, linda menina, ci è andata a studiare e lavorare come archeologa. Mi ha ospitato nella sua splendida casetta piena di luce a Miragaia e mi ha portato in giro a scoprire la sua nuova città, tra un copinho di Porto branco e l’altro.