Il mio Portogallo

Lisboa

Mio, aggettivo possessivo, sta spudoratamente a indicare una sensazione di proprietà, possedimento, per la serie “è mio e guai a chi me lo tocca”. Alcune volte non è un bel sentimento: se riferito a un oggetto, può indicare un attaccamento spesso malsano alle cose materiali; se riferito a una persona, può indicare gelosia e sospetto. Altre volte, indica semplicemente un’adesione affettuosa, candida, una vicinanza e una comunanza. Messo accanto a un Paese intero, che vuol dire quell’aggettivo? Vuol dire un richiamo che non so spiegare, un sorriso scemo quando sento qualcuno parlare in portoghese sull’autobus a Milano, l’immagine di cieli pazzescamente azzurri. Il fastidio quando qualcuno lo critica, un altro sorriso scemo alla vista di un umile lupino, ore passate a decifrare le metafore nascoste nelle canzoni di Rui Veloso. Fatto sta che io di questo Paese vado pazza. Sono stata la prima volta in Portogallo nel febbraio del 2008, per un weekend lungo a Lisbona e dintorni: non ha fatto altro che piovere, ininterrottamente, per quattro giorni. Nubi nere, sanpietrini bagnati e scivolosi, alto rischio di finire sotto al tram 28 in una di quelle vie dell’Alfama talmente strette che o passi tu, o passa lui. Eppure io di quella città mi sono innamorata, nonostante il vento freddo e le calze sempre fradicie.

Poi due anni dopo sono finita in Estonia e, strano ma vero, in Estonia c’erano un sacco di portoghesi, con alcuni dei quali ho stretto delle amicizie destinate a durare. Quando parlavano fitto fitto tra di loro in portoghese però non capivo una parola, e la cosa mi indispettiva assai. Mi affascinava moltissimo quella loro lingua piena di shh e di suoni nasali (cão, pão, mão!), allora mi sono impuntata e ho deciso che l’avrei imparata. Sono partita con i numeri da uno a dieci, le parolacce e le drinking songs (i grandi classici dell’erasmus), poi piano piano ho iniziato a formulare le prime frasi, anche se i miei amici mi prendevano in giro per l’accento brasiliano. Tornata in Italia ho continuato a studiare con l’Assimil, che è un metodo fantastico per imparare le lingue, se si ha la costanza di arrivare fino alla fine del libro, ovvero fino al centesimo dialogo surreale.

Sono iniziati i miei pellegrinaggi portoghesi e ho scoperto le strade di Porto, le tradizioni studentesche di Coimbra, le colline del Ribatejo e le onde dell’Algarve. Ogni volta che tornavo mi trovavo talmente bene che sono finita a passare tre mesi nella piovosa Viseu, a bere i vini del Dão e del Douro, a mangiare zuppe e tostas mistas; in quel periodo ho visto le processioni pasquali di Braga e i canali di Aveiro, bevuto la puzzolente e a quanto pare molto salutare acqua termale di Chaves, salito gli innumerevoli scalini del Bom Jesus do Monte. Questa estate sono tornata per l’ennesima volta, per un road trip da Porto in giù, passando per Batalha, Tomar, Nazaré, Abrantes, Obidos, Zambujeira do Mar, il Parque do Sudoeste Alentejano e Costa Vicentina, Sagres e Cabo São Vicente, le acque blu dell’Algarve, infine risalendo per l’Alentejo interior (Alcoutim, Mértola, Serpa, Monsaraz, Evora e i siti megalitici…) fino a Lisbona e Cascais. Oggi parlo portoghese, mais ou menos, ma i suoi suoni continuano a affascinarmi come la prima volta che l’ho ascoltato. Vorrei raccontarlo tutto questo mio Portogallo, un po’ per averlo sempre con me, un po’ come riconoscimento per avermi fatto quel regalo impegnativo e bellissimo che è la saudade.

Lisbona

Post scriptum. I biografi dicono che Antonio Tabucchi si imbattè per la prima volta nella lingua portoghese a Parigi negli anni Sessanta, quando scoprì su una bancarella nei pressi della Gare de Lyon un libriccino che conteneva la traduzione francese della poesia Tabacaria firmata con il nome di Alvaro de Campos, uno degli eteronimi di Fernando Pessoa. Inizia così:

Não sou nada / Nunca serei nada / Não posso querer ser nada / À parte isso, tenho em mim todos os sonhos do mundo. [Non sono niente / Non sarò mai niente / Non posso voler essere niente / A parte questo, ho dentro me tutti i sogni del mondo]

Magari si era fermato per caso a quella bancarella, perché era arrivato alla stazione con troppo anticipo. Come che sia, fu leggendo quelle righe che si appassionò alla lingua e alla letteratura portoghese e, soprattutto, a Fernando Pessoa, di cui è stato il massimo conoscitore in Italia nonché traduttore dell’opera omnia. Menomale che a quella bancarella ci si è fermato: io devo molto a Tabucchi, perché penso che la lettura dei suoi libri abbia contribuito a formare l’idea che dentro di me ho del Portogallo e la sostanza letteraria di questa saudade che ha anche il profumo dell’omelette alle erbe aromatiche  di cui è ghiotto Pereira.

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