Epifanie di felicità consapevole

 I felt my lungs inflate with the onrush of scenery—air, mountains, trees, people.
 I thought, “This is what it is to be happy.”

 Sylvia Plath, The Bell Jar 

Questi due versi della sciagurata Sylvia Plath descrivono bene quelle epifanie di felicità consapevole che esplodono di tanto in tanto quando ci fermiamo un attimo a cogliere la bellezza del mondo, quei momenti perfetti che ci riappacificano con tutto e con tutti. 

A me capitano spesso: a volte dal fruttivendolo o sul tram, ma soprattutto quando viaggio. Possono avere a che fare con la maestosità della natura o con lo sciabordio della folla nelle vie di una città, possono fare capolino in una giornata di sole come in una tempesta di neve. 

In tutti i miei viaggi vado alla ricerca di questi momenti, che poi non si cercano ma arrivano da soli, quando meno te li aspetti. La smania del viaggio è una febbre che non si può curare: come le febbri malariche, ritorna puntuale e ti accompagna per tutta la vita.

Più che un blog, una macedonia

green-vegetables

Come Giona che si ritrovò nel ventre della balena (e Astolfo, e il barone di Münchhausen, e il buon Pinocchio) mi ritrovo in un luogo sconosciuto, allo stesso tempo caotico e intrigante, in cui mi muovo a tentoni. Ma non si sta poi così male nelle viscere di questo mostro marino, una volta che ci si abitua alla penombra: mi accuccio in un angolo confortevole e comincio a raccontare.

La parola blog non mi piace, trovo che abbia un suono brutto. Anche senza considerare quella chiusura così aggressiva e tronca in -g- dura, quel -bl- iniziale mi fa pensare ai gorgogli di un uomo che sta per affogare, alle pernacchie, a una reazione un po’ schifata. La prima associazione è con la parola blob: che nel nostro lessico è innanzitutto un programma televisivo, ma che in inglese designa una massa informe, infida, implacabile.

E’ un fluido mortale in un horror fantascientifico del 1958 con Steve McQueen (The Blob, di Irvin Yeaworth), è l’orrida tapioca propinata a Calvin per pranzo che prende vita e lo smangiucchia sputacchiandone le ossa.

La parola blob è entrata nel vocabolario italiano nel 1989: Dall’omonima trasmissione televisiva di Rai 3, pasticcio, cosa strana o persona goffa e ridicola che suscitano ilarità e divertimento (dal Sabatini Coletti). Ecco, pasticcio invece è una parola che mi piace, che mi ispira cose tenere, dolci e ghiotte: pasticcio di piccione, pasticcino, pasticcione. Ho una particolare simpatia per le parole alterate, per i suffissi accrescitivi e diminutivi, e non per niente il nome di questo blob/blog è un diminutivo esso stesso, per i motivi che spiegherò da qualche altra parte. Ampliando ulteriormente il discorso ho una passione smisurata per le parole, il che è anche probabilmente la ragione per cui sto scrivendo queste righe. Mi piacciono le parole perché sono segni che stanno a significare le cose del mondo, concrete o astratte che siano, e attraverso esse lo raccontiamo.

Torniamo alla parola da cui siamo partiti, blog. Cacofonia del fonema -bl- a parte, nasconde altro dentro di sé: è una parola composta, costruita a partire da altre due parole che si sono contratte e fuse insieme per definire qualcosa di nuovo (una parola Frankenstein, insomma). Il suo cuore e la sua ragion d’essere stanno nelle ultime tre lettere, log: una parola antica e bella che significa diario di bordo, resoconto, registro. I naviganti vi annotavano gli avvenimenti della giornata, la forza del vento e delle onde, le miglia percorse, le avversità incontrate e superate, l’avvistamento di una balena (che magari nascondeva al suo interno Giona, o Astolfo, o il barone di Münchhausen, o il buon Pinocchio). Poi la parola log si è scontrata con la modernità del web e ne è nato un figlio illegittimo, orfano delle prime due lettere, che a sua volta ha dato vita ad altre parole (ancor più brutte) come blogger, bloggare, e così via. Web + log = blog. Non fosse altro che per l’assonanza, è la stessa identica storia della parola smog, che unisce in sé le parole smoke e fog, fumo e nebbia: venne creata negli anni della rivoluzione industriale per definire qualcosa che prima non esisteva, l’inquinamento atmosferico provocato dalle ciminiere delle fabbriche che bruciavano carbone, i cui fumi e miasmi si mescolavano alla proverbiale nebbiolina londinese creando una cappa puzzolente e molto poco salutare. In linguistica si chiamano neologismi sincratici o, con una definizione più poetica, parole portmanteau (che era una grande valigia da viaggio a due scompartimenti; il conio si deve a Lewis Carroll). L’italiano usa invece l’estivo concetto di parola macedonia, dovuto alla fantasia frutticola del grande Bruno Migliorini. Tra parentesi, ho conosciuto un ragazzo macedone qualche tempo fa. Era molto divertito dal fatto che ogni italiano che incontrava gli facesse notare che il nome del suo Paese designasse in Italia un’insalata di frutta. Non voglio immaginare il dramma di un inglese che si ritrova a festeggiare in Turchia il Giorno del Ringraziamento.

Per concludere, questo è sì, tecnicamente, un blog; ma data la mia antipatia filologica per questa parola, la userò il meno possibile. Non è neanche un diario (altra parola che spalanca un universo di immagini, dalla romanza adolescenziale ai mémoires). Non che le definizioni mi stiano strette, anzi, trovo che spesso aiutino a fare ordine e spesso ho sofferto confrontandomi con la loro inapplicabilità. Però nella metafora della macedonia mi ci ritrovo e la tengo per buona, per il momento.

P.s. L’etimologia non è una scienza esatta, ma offre spesso spiegazioni affascinanti e, spesso, storicamente attendibili: ovvero, c’è un motivo per cui nella lingua inglese il tacchino ha lo stesso nome della Turchia (turkey). La storia risale ai tempo in cui Istanbul si chiamava ancora Costantinopoli e la perla del Bosforo era il porto da cui i commercianti partivano per portare in Europa le esotiche mercanzie dell’Africa e dell’Estremo Oriente. Tra esse c’era una pollastra nordafricana, molto pregiata e prelibata: quella che noi che noi chiamiamo faraona e che in inglese sarebbe Guinea fowl, ma che prese il nome di Turkey cock appunto perché arrivava tramite i mercanti turchi. Quando i coloni del Nuovo Mondo scoprirono che quelle terre inesplorate brulicavano di volatili che assomigliavano molto a quelli con cui banchettavano in Inghilterra, presero a chiamare questi animali con lo stesso nome, Turkey cocks, poi abbreviato in turkey. La confusione aumentò quando i mercanti portoghesi nel Cinquecento cominciarono a importare in Europa spezie dall’India, faraone dall’Africa e tacchini dalle Americhe: l’equivoco geografico-linguistico si propagò in lungo e in largo e il tacchino giramondo diventò indiano per i turchi e i francesi (dove è chiamato rispettivamente hindi e dinde, ovvero d’India). Ah, e peruviano per i portoghesi (peru).

Per una spiegazione storicamente ineccepibile, potete leggere la versione completa della storia alla voce Turkey di The Language of Food.