La meravigliosa storia di Thor Heyerdahl

Esattamente cento anni fa, il 6 ottobre 1914, nasceva in Norvegia uno dei più grandi esploratori della storia contemporanea: Thor Heyerdahl. E’ conosciuto ai più per la traversata del Kon-Tiki, ma l’intera sua vita racconta una storia pazzesca, meravigliosa. Io mi sono innamorata di quest’uomo: e dire che fino a poco tempo fa non sapevo quasi niente né di lui, né del Kon-Tiki. Stamattina appena ho acceso il computer ho visto che Google gli ha dedicato un doodle, in occasione del suo centenario. Bene, il punto è che da qualche tempo coltivo di nascosto questo orticello di parole dove scrivo e vorrei scrivere dei miei viaggi e di altre cose, ma per un motivo o per l’altro non mi sono mai decisa a renderlo pubblico. Oggi mi è quasi venuto un colpo quando ho aperto Google e mi sono detta: ora o mai più! Primo, perché inaugurare ufficialmente questo blog a cento anni dalla nascita di un personaggio come Thor spero sia di buon auspicio; secondo, perché è da quando ho scoperto la sua storia che vorrei raccontarla e una volta tanto vorrei cogliere l’attimo fuggente così da fargli gli auguri come si deve e non in ritardo.

HEYERDAHL / KONTIKI
Il Kon-Tiki in mare nel 1947. © AP Photo

Sapevo che il centenario della nascita di Thor Heyerdahl cadeva quest’anno perché a maggio sono stata a Oslo e ho visitato il Kon-Tiki Museet, dove i francobolli celebrativi 1914-2014 andavano per la maggiore. Il 1914, putacaso, è anche l’anno in cui è nata mia nonna (anche lei un’avventuriera, a suo modo) e per questo mi è rimasto impresso. Prima, “Kon-Tiki” mi faceva venire in mente solo una maschera tribale tatuata sulla schiena di un amico cileno, uno stabilimento balneare in Liguria (i “Bagni Kon-Tiki” a Spotorno) e la cosiddetta Tiki culture, ovvero i cocktail con gli ombrellini colorati e tutte le cose kitsch che ci stanno intorno. La visita a quel museo in Norvegia mi ha fatto scoprire un mondo fatto di viaggi temerari, spedizioni verso l’ignoto, in barba a chi dice sempre “non si può fare, non è possibile!”. Thor Heyerdahl era uno che aveva preso in parola Ulisse, quando per bocca di Dante dice Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza. Dato che su questa frase cerco di improntare – per quanto posso e riesco – la mia esistenza in questo grande mondo, Thor mi è stato subito simpatico. C’è una galleria, nel museo, che racconta la sua vita per immagini, a partire dall’infanzia: un bel bambino biondo che poi si trasforma in un bel ragazzo biondo, e così via. Ma la luce che ha negli occhi, sin dalla prima fotografia! E la storia del suo amore con Liv… è talmente bella che adesso ve la racconto.

Thor era ancora un ragazzo quando partì per il suo primo viaggio nella Polinesia francese. All’epoca studiava biologia e geografia all’Università di Oslo e il viaggio era stato organizzato in collaborazione con la facoltà di zoologia, che voleva mandarlo lì allo scopo di investigare la flora e la fauna dell’arcipelago. Era partito il 25 dicembre 1936, con la donna che aveva sposato la notte prima, la notte di Natale. Liv aveva 20 anni e Thor 22: insieme presero un treno che li portò a Marsiglia e da lì si imbarcarono su un cargo che attraversò l’Oceano Atlantico fino al canale di Panama e poi l’Oceano Pacifico fino a Tahiti. La coppia si stabilì su una minuscola isoletta vulcanica chiamata Fatu-Hiva, la più meridionale delle Isole Marchesi. Il luogo era selvaggio e incontaminato, loro giovani e innamorati… Una storia alla Laguna Blu insomma. Vissero – o sopravvissero – in modo totalmente autosufficiente per circa un anno, cibandosi di patate dolci e manghi succulenti, lontani dalle corruzioni della società moderna, mentre portavano avanti le loro ricerche scientifiche.

Thor e Liv
La luna di miele di Thor e Liv a Fatu Hiva. © 2014 Kon-Tiki museet.

In realtà, Fatu-Hiva non si rivelò essere quel paradiso terrestre che avevano vagheggiato (Thor ebbe poi a dire che il paradiso in terra non va ricercato in uno luogo geografico, ma dentro noi stessi) e, dopo aver cercato di fronteggiare da soli le febbri dovute a delle punture d’insetto, dovettero fare ritorno alla civiltà per sottoporsi a cure mediche. In ogni caso, il soggiorno a Fatu-Hiva fu decisivo per le successive ricerche di Thor: fu in questo periodo che cominciò a elaborare le sue teorie secondo le quali le prime genti della Polinesia erano arrivate in queste isole non da Ovest, come comunemente si pensava, ma dalle coste sudamericane in epoca precolombiana.  C’erano molti elementi che suffragavano questa tesi: correnti marine favorevoli, ritrovamenti nella giungla di statue antiche e incredibilmente simili alle effigi dei popoli dell’America meridionale, e infine la leggenda, narrata dal capovillaggio, del mitologico Tiki che in tempi immemori aveva guidato per mare dall’Est i suoi antenati, fino a queste terre.

Thor mise da parte le ricerche su fiori e piante e si dedicò anima e corpo a questa idea che condizionò il resto della sua vita: andò in America, studiò le tecniche di navigazione, immaginò come quei folli marinai avessero potuto compiere una tale traversata in mare aperto. Quando però nel 1940 presentò i risultati delle sue ricerche, gli esimi accademici lo presero per matto. Allora che fece Thor, per dimostrare che quel viaggio sarebbe stato possibile? Costruì una zattera di balsa, mangrovia e bambù, così come l’avrebbero potuta costruire 1500 anni prima; raggruppò un equipaggio accuratamente selezionato; e il 28 aprile 1947 salpò dal porto di Callao in Perù, deciso a raggiungere le coste polinesiane. Sulla vela svettava Kon-Tiki, il leggendario re del Sole il cui mito era comune alla civiltà inca e a quella polinesiana.

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La rotta del Kon-Tiki. © 2014 Kon-Tiki museet.

Il viaggio durò 101 giorni, durante i quali la zattera percorse circa 8.000 chilometri attraverso l’oceano Pacifico. Si concluse all’atollo di Raroia nell’arcipelago di Tuamotu in modo un po’ rocambolesco, dato che il Kon-Tiki cozzò contro la barriera corallina e quasi si distrusse. L’equipaggio raggiunse l’isola e trascorse qualche giorno in solitudine finché dei pescatori non videro il relitto e li andarono a recuperare, ma quando arrivarono al villaggio ci furono feste e danze a non finire per festeggiare il buon esito della spedizione. Il viaggio ebbe una risonanza enorme e l’intero mondo accademico dovette ricredersi di fronte all’evidenza: gli scienziati più cocciuti, che continuavano a non credere possibile un’impresa del genere e ne mettevano in dubbio l’autenticità,  tacquero solo quando nel 1952 fu presentato al pubblico il film montato con il materiale girato durante la traversata – che vinse anche l’Oscar come miglior documentario.

La cosa bella è che Thor aveva uno spiccato senso per la posterità, e non ha mai mancato di fotografare/filmare/documentare i suoi viaggi e le sue spedizioni. Al museo sono esposte tantissime fotografie, appunti, schizzi (io ho trovato terribilmente eccitante perfino il diario in cui sono annotati i menu dell’equipaggio durante il viaggio). Questa era la sua Leica, sono rimasta mezz’ora a fissarla:

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“Ho fotografato cose che voi umani…”

Tornando agli scienziati saccenti, questi allora si misero a dire: ok, prendiamo pure per buona l’ipotesi che i marinai sudamericani siano stati in grado di affrontare l’oceano Pacifico con una zattera di balsa. Allora perché non ci sono tracce di un loro insediamento alle Galapagos, che sono in linea d’aria molto più vicine rispetto alla Polinesia? Thor, che con questi misteri ci andava a nozze, partì per le Galapagos per dimostrare ancora una volta la bontà delle sue intuizioni. Condusse le prime esplorazioni archeologiche in questa zona, le quali confermarono che in epoca precolombiana molti viaggi di questo tipo avevano avuto luogo. La mancanza di riserve d’acqua potabile all’infuori che nella stagione delle piogge, però, impedivano ai navigatori di insediarsi stabilmente alle isole Galapagos: ripiegarono allora, secondo Thor, su quella che noi oggi conosciamo come isola di Pasqua. Heyerdahl passò qui molto tempo in due diversi momenti (1955-1956 e 1986-1988, trent’anni più tardi), coincidenti con due imponenti spedizioni archeologiche che lo convinsero ulteriormente dei contatti tra le culture sudamericane e quelle polinesiane. Chissà quali erano i suoi pensieri di fronte agli immensi Moai, quelle statue dalle lunghe orecchie che si innalzano di fronte all’oceano, nell’isola più isolata di tutte.

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La Ra II, custodita al Kon-Tiki museet di Oslo.

Nel frattempo Thor si era appassionato alla faccenda della navigazione in epoca antica e si mise a pensare ad altre imbarcazioni ed altri mari. Più precisamente, alle navi costruite con giunchi e canne all’epoca dei faraoni, quando le civiltà del Mediterraneo fiorivano e commerciavano su tutte le rotte. Erano possili, con quelle barche, traversate oceaniche? Si poteva arrivare dal Marocco alle Barbados su un trabiccolo del genere? Ancora una volta pensò che non c’era che un modo per scoprirlo… La Ra partì nella primavera del 1969 dall’antico porto fenicio di Safi, in Marocco; navigò per otto settimane e 5.000 chilometri prima di affondare, con grande scorno dell’equipaggio. Dieci mesi dopo ci riprovarono, con la Ra II: questa volta però Thor aveva chiesto la consulenza e l’aiuto di quattro indiani Aymara provenienti da un villaggio sul lago Titicaca, in Sud America, che a 4.000 metri d’altezza sul livello del mare erano soliti navigare sulle acque tempestose del lago con imbarcazioni costruite con gli stessi metodi usate in Egitto e in Mesopotamia. Imbastirono una barca robusta e veloce, flessibile e resistente alle peggiori tempeste. La Ra II, salpata da Safi il 17 maggio 1970, approdò alle Barbados 57 giorni e 6.100 chilometri più tardi.

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Nell’Antico Egitto erano ghiotti di tarallini.

C’è un’altra cosa interessante. Thor Heyerdahl non era solo uno scienziato, un archeologo, un esploratore matto; era anche un umanista, un antropologo, un cittadino del mondo che voleva abbattere i confini del pensiero. Nel concepire la spedizione della Ra aveva immaginato una geografia senza frontiere, incarnata in un equipaggio che rappresentasse l’umanità intera: otto uomini di otto nazionalità diverse che collaborassero tra loro per un obiettivo comune, al di là delle diverse provenienze e credenze religiose e politiche. Magari poi a bordo litigavano in continuazione, ma l’idea è confortante. Veleggiavano sotto il vessillo delle Nazioni Unite.

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L’equipaggio della Ra II. Half way! © 2014 Kon-Tiki museet.

Un’altra spedizione molto importante fu quella del Tigris, attraverso cui Heyerdahl volle dimostrare l’ipotesi di un contatto tra le tre grandi civiltà del Mediterraneo, ovvero Mesopotamia, Egitto e Valle dell’Indo. Nei dipinti rupestri di tutte, comparivano le immagini di imbarcazioni simili per materiali e dimensioni. Il Tigris salpò nel 1977 all’incrocio dei fiumi sacri che formavano la Mesopotamia, il Tigri e l’Eufrate, e che oggi si trova in Iraq. Il  viaggio nell’Oceano indiano però non fu portato a termine, perché nell’aprile 1978, dopo cinque mesi di navigazione, l’equipaggio diede fuoco alla nave per protesta contro i commercianti di armi che alimentavano, per profitto, i conflitti in Medioriente. La guerra era tutto intorno – e aveva in spregio il senso stesso del viaggio di Thor e dei suoi uomini.

Ci furono altri viaggi ed esplorazioni: le Maldive, il Peru, la Russia… Una vita così, come si fa a raccontarla in uno spazio così ristretto? Alla fine sono sempre i confini a fregarci. E allora mi sembra pertinente questa sua bellissima frase, che lo racconta in modo fulmineo ed esatto:

“Borders? I have never seen one. But I have heard they exist in the minds of some people”.

Buon compleanno, Thor 🙂