Impressioni d’Asia

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Pronuncio la parola Asia, scandendo bene ogni lettera. La bocca si scioglie al pensiero di frutti colorati e succosi, nel naso litigano odori pungenti, nelle orecchie lo strombazzare dei motorini e il rumore del mare in una conchiglia. Negli occhi, immagini di piante verdissime e strade sciacquate dalla pioggia monsonica. Ha ancora un senso l’esotismo oggi, nel mondo globale, o è diventato un concetto vuoto buono soltanto per i depliant delle agenzie di viaggio, pieni di promesse e desideri più o meno facili da soddisfare? Sono curiosa di scoprirlo, di vedere se quest’Oriente tanto fantasticato è come me lo immagino, quanto è lontano da ciò a cui sono abituata. Il mio mondo è quello della buona vecchia Europa, delle sue città sonnacchiose e piene di storia, di chiese e di modi tanto diversi dal Baltico al Mediterraneo, ma spesso così simili. Cosa c’è oltre?

Non avevo mai preso un volo intercontinentale. Mi piace prendere l’aereo, l’idea di essere così veloce, così in alto. Mi piace il momento del decollo, guardare le persone e le case e le macchine farsi sempre più minuscole finché non si distinguono più e non rimangono che le geometrie dei campi gialli e verdi, le autostrade sottilissime, i confini fluidi delle città. Siamo partiti dalla Malpensa in un caldo giorno di luglio, con una di quelle compagnie aeree arabe famose per le bellissime hostess con la veletta che passa sotto il mento.

Abbiamo fatto un lungo scalo a Muscat, la capitale dell’Oman. Abbiamo passato la notte in aeroporto, Angelo per terra in un angolo e io rannicchiata sul divanetto di un fast-food halal, dove abbiamo visto donne coperte da capo a piedi mangiare hamburger da sotto il velo. All’alba abbiamo preso il secondo volo: mi hanno fatto impressione i deserti iracheni, le distese di sabbia, l’urbanistica lineare delle città antiche. Poco dopo mi sono addormentata, svegliandomi solo per fare merenda con datteri e yogurt; poi mi sono riappisolata e, quasi senza accorgermene, mi sono ritrovata lontana da casa, novantuno meridiani più avanti, in un paese il cui alfabeto è un ghirigoro, nella città che dell’esotismo è l’emblema stesso: Bangkok.

Pioveva a dirotto, quando siamo arrivati, era buio e faceva caldissimo; siamo saliti su un taxi freddo, che dopo quasi un’ora ci ha lasciati al margine di una via piena di luci colorate e fumi che salivano dalle bancarelle ai due lati della strada. Questa via si chiama Khaosan road, ed è qui e nelle vie limitrofe che migliaia di viaggiatori con lo zaino sulle spalle si riversano ogni giorno e ogni notte, catapultati da ogni dove nel cuore pulsante dell’Asia. Qui si può comprare una patente nuova o un tesserino da giornalista, bere fruitshake al mango, mangiare un insetto fritto (in realtà tutti si fermano a guardare, ma nessuno osa l’assaggio, e le venditrici hanno capito che il vero affare è chiedere un dollaro a fotografia), ti vengono offerte droghe e donne. I bar pompano musica commerciale, le bancarelle vendono tutte le stesse canottiere con stampate sopra le marche di birra locale e gli stessi pantaloni larghi di tela con gli elefanti, e nelle strade pare di vedere solo branchi di ragazzi e ragazze che indossano quelle magliette e quei pantaloni. Qualche vecchio hippie coi capelli grigi e i tatuaggi sbiaditi osserva la vita che scorre da una seggiolina viola di plastica, forse rimpiangendo il tempo in cui in questo posto ancora non erano arrivati McDonald e le luci al neon.

Tanti parlano di Khaosan road come di un ghetto per turisti, di un luogo troppo poco autentico, ma Bangkok è anche questo, è il suo immaginario, è la lusinga dei sensi. Lo vedi che è finta, con tutte quelle lucine colorate che danno idea di festività pagana, con i guidatori di tuk tuk che promettono di scarrozzarti in giro per la città con pochi spiccioli e poi ti fanno perdere ore tra un negozio e l’altro perché ricevono dai commercianti un buono per la benzina per ogni turista che portano. Ma è vero: il ghetto protegge dalla città vera. Ti avventuri fuori e scopri che c’è un mondo nuovo, sporco, caldo da impazzire – un caldo umido che si appiccica alla pelle, che non fa guarire le piccole ferite e che bagna la maglietta. Caldo e sporco e polveroso, polveri sottili che bruciano il naso, mezzi motorizzati di ogni tipo che non vogliono a nessun costo lasciarti il passo nelle strade, architetture dorate che si intravedono dietro gli accrocchi di cavi elettrici che sfidano ogni legge dell’elettrotecnica e del buon senso. Cieli immobili e lattiginosi che d’un tratto s’anneriscono e si squarciano in piogge che diventano torrenti lungo le vie e che sembrano pulire e punire i peccati di questa città, colpevole di contenere troppa vita dentro di lei.