Il primo segnale è l’assenza degli applausi caciaroni all’atterraggio: un senso di calma e pacatezza aleggia tra i passeggeri del volo Milano-Oslo Rygge, mentre scendono dall’aereo e respirano a pieni polmoni l’aria pulita e frizzante del cielo blu di Norvegia. Benvenuti nella terra dei fiordi e dei salmoni, nel grande Paese dello stato sociale e delle aurore boreali!
Oggi è la festa nazionale norvegese: si festeggia la Costituzione, firmata il 17 maggio 1814, che dichiarò la Norvegia nazione indipendente. In modo totalmente casuale, l’anno scorso ci siamo trovati a sfilare per le strade di Oslo in occasione del bicentenario.
Premetto che più persone mi avevano detto che Oslo era una città bruttina e troppo cara per godersela. Effettivamente i prezzi sono molto alti (una birra 8-10 euro), ma grazie a una serie di fortunati eventi siamo riusciti a contenere i costi.
(Primo fortunato evento: appena arrivati siamo incappati in un baracchino dell’Esercito della salvezza o qualcosa del genere che regalava hot dog e succhini in cambio della promessa di leggere il loro opuscolo: il primo pasto l’abbiamo risolto così… Secondo fortunato evento: il 18 maggio è l’International Museum Day e si entra gratis dappertutto! Ovviamente non lo sapevamo ed è stata una bella sorpresa).
Comunque, forse complici le due splendide giornate di sole che abbiamo trovato e l’aria di festa, ho trovato Oslo tutt’altro che bruttina, ma effervescente, purissima e azzurra.
La cosa pazzesca di questa città è l’aria di agio e benessere economico che si respira: grazie agli immensi giacimenti petroliferi scoperti alla fine degli anni Sessanta nel Mare del Nord, infatti, i norvegesi hanno di che stare tranquilli. I proventi delle estrazioni sono stati incanalati nel Fondo Pensione Governativo (ex Fondo Petrolifero Norvegese), inizialmente destinato all’istituzione del welfare state e all’estinzione del debito pubblico – obiettivo raggiunto nel 1995 – e, da quel momento in poi, a provvedere al sistema previdenziale e sanitario dei norvegesi di oggi e di domani. A settembre 2014, il suo valore si aggirava sugli 850 miliardi di dollari.
Il 17 maggio, a Oslo, si vedono miriadi di bandierine e si incontrano giovani, vecchi e bambini vestiti a festa. Molti indossano i costumi tradizionali, tutti sono allegroni, alcuni ragazzi sono terribilmente sbronzi: oggi infatti è anche il giorno in cui si conclude il russfeiring, la festa di primavera degli studenti che frequentano l’ultimo anno delle superiori. Si riconoscono dalle salopette rosse e blu e dall’elevato tasso alcolico 🙂
#cosavedereaOslo
Karl Johans Gate. La strada principale di Oslo corre attraverso la città. Lungo di essa si incontrano alcune tra le principali attrazioni turistiche come la cattedrale, il Parlamento e il Palazzo Reale – che noi abbiamo raggiunto al seguito di una parata musicale di bambini in divisa marinara 🙂
Aker Brygge. L’ex zona portuale di Oslo è stata riqualificata alla fine degli anni Ottanta e da allora è the place to be: qui ci sono i locali più fighetti e i ristoranti più costosi. Il giorno della festa è un tripudio di denti perfetti e vestiti eleganti. Sono tutti impeccabili mentre innalzano calici colmi di champagne sui pontili degli yacht attraccati.
Le opere di Edvard Munch. Munch è uno dei pittori più conosciuti e citati della storia dell’arte moderna: forse non tutti sanno che era norvegese e alcuni tra i suoi dipinti principali, tra cui l’Urlo, sono conservati alla Galleria Nazionale di Oslo. In città c’è anche un museo interamente dedicato a lui, che raccoglie circa 1100 dipinti e oltre 20000 disegni e opere grafiche.
La penisola di Bygdøy. La cosiddetta “penisola dei musei” si raggiunge col traghetto o con il bus numero 30. Qui si trovano alcuni tra i maggiori musei di Oslo: il più bello è il museo Kontiki, dove si narrano le gesta di Thor Heyerdahl, l’esploratore più fico dei tempi moderni. Ne ho parlato qui. L’altro museo molto bello è quello delle navi vichinghe, dove sono state ricostruite tre navi risalenti al IX secolo e ritrovate durante degli scavi nel fiordo di Oslo tra fine Ottocento e inizio Novecento. La più affascinante è la nave di Oseberg, una ricchissima nave-tomba che accompagnò nell’ultimo viaggio due misteriose donne di alto rango – forse due principesse, forse sacerdotesse di Odino. O forse una era la moglie di un capo clan e l’altra una serva che le fu sacrificata. Lo studio dei loro resti ha svelato alcune cose, ma molte altre domande rimangono insolute.
Grønland. La Norvegia, da decenni in testa alle classifiche per qualità della vita, ha una percentuale di immigrazione (tenendo in conto immigranti e figli di immigranti) che si aggira sul 15% (per dare un’idea, l’Italia si attesta sull’8% circa). Il volto multietnico di Oslo si rivela nel quartiere di Grønland: anche qui oggi si festeggia, ma i profumi che si alzano dalle bancarelle di cibo sono speziati e rotondi. Questo quartiere svela un lato meno conosciuto della città, variopinto e brioso. Qua si trovano tra l’altro tanti buoni ristorantini dove mangiare a un prezzo decente, come ad esempio il Punjab Tandoori.
E ancora la fortezza e il castello di Akershus, per fare un pisolino sul prato; il Centro Nobel per la pace, per scoprire la storia del premio più famoso al mondo; la bianchissima Opera House in marmo di Carrara che scivola nel mare, per godere di una bella vista della città.
L’università di Coimbra è la più antica del Portogallo e una delle più antiche d’Europa. In questa città tutto gira intorno al mondo studentesco; il suo calendario è quello accademico.
Coimbra è bellissima: soprattutto di notte, vista dall’alto, quando le sue luci si specchiano nel fiume Mondego, o quando la sua cattedrale medievale al tramonto si infiamma. Coimbra è i suoi studenti: che vanno e vengono per le sue strade avvolti in mantelli neri e lunghi fino ai piedi. Studiare a Coimbra è un’investitura, una storia d’amore che dura tutta la vita: uma vez Coimbra, para sempre saudade…
Il primo venerdì di maggio di ogni anno si apre una settimana di festeggiamenti in onore di chi sta per laurearsi. Si chiama Queima das Fitas, che vuoi dire rogo dei nastri e deriva dalla tradizione degli studenti di bruciare a conclusione del proprio ciclo di studi i nastri colorati che simboleggiano la propria facoltà. Continua a leggere “La Queima das Fitas di Coimbra”
Il proverbio dice: Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi. Io questa Pasqua la passo in casa, con la mamma che tira col mattarello le sfoglie della torta pasqualina, l’agnello in forno, le uova di cioccolato fondente e, fuori, la pioggerellina di aprile (come da tradizione milanese).
Oggi racconto invece di una Pasqua passata in Portogallo, tra i luoghi e le usanze di un popolo ancora molto legato al senso originario dei giorni pasquali. Il cattolicesimo portoghese è forte e vigoroso e si esprime attraverso feste popolari, pellegrinaggi solenni e sontuose processioni. La capitale spirituale del Paese è Braga, nel Minho. Fu per secoli la sede arcivescovile più importante di tutta la penisola iberica e la sua straordinaria Sé (la cattedrale) è la più antica di tutto il Portogallo.“Braga reza, o Porto trabalha, Coimbra estuda e Lisboa diverte-se” (Braga prega, Porto lavora, Coimbra studia e Lisbona si diverte): questa battuta, che riassume un Paese intero in poche parole, rende bene la forte caratterizzazione e connotazione che ognuna delle grandi città portoghesi porta con sé. Braga, appunto, è la città che prega, la città delle chiese e delle campane che risuonano in continuazione, la città della Semana Santa più spettacolare e suggestiva di tutte.
La Semana Santa di Braga
Siamo arrivate a Braga la mattina del Venerdì Santo, accolte da un cielo grigio e carico di pioggia. E’ affollata di turisti, giunti da vicino e lontano per assistere alle celebrazioni della Settimana Santa. Gli altari delle innumerevoli chiese, decorati con fiori e candele, evocano ognuno un episodio della Passione di Cristo; drappi viola ornano le vie e le piazze. La settimana è scandita dalle processioni che attraversano la città, in cui centinaia di figuranti rappresentano con scenografie maestose gli ultimi giorni della vita di Gesù. La tensione religiosa accumulata durante la settimana culmina nei riti del Venerdì Santo, il giorno in cui i fedeli ricordano la morte di Gesù sulla croce. Dopo esserci trovate per caso nella Sé ad assistere alla Procissão Teofórica do Enterro do Senhor, che si svolge nel pomeriggio lungo le navate della cattedrale con canti in latino, ci siamo unite alla fiumana di gente che si raccoglieva lungo la via principale in attesa dell’ultimo grande e solenne corteo notturno, anch’esso intitolato all’Enterro do Senhor. La pioggia che era caduta leggera tutto il giorno si è improvvisamente interrotta alla comparsa dei farricocos, i penitenti incappucciati, che aprono la processione in lugubre silenzio trascinando i piedi nudi sul selciato bagnato. Seguono le confraternite, gli ordini capitolari, i Cavalieri di Malta e del Santo Sepolcro di Gerusalemme, figure allegoriche col volto coperto in segno di lutto, bambini e bambine dalle vesti colorate e preziose, autorità varie, la banda che fa risuonare i tamburi con rintocchi angosciosi e martellanti; al passaggio della cassa da morto le signore pie si fanno il segno della croce e quasi piangono. Il corteo si conclude e gli spettatori si riversano in strada per diventarne la coda, la pioggia riprende d’un tratto per andare avanti tutta la notte.
Il Bom Jesus do Monte
La mattina dopo il cielo s’è schiarito e noi andiamo in gita al santuario del Bom Jesus do Monte (da Braga ci si arriva in quindici minuti con l’autobus numero 2), una bella chiesa neoclassica che sorge sulla sommità di una collina da cui si gode una vista pazzesca di tutta Braga con la sua valle. L’attrazione principale però non è la chiesa in sé, ma la straordinaria scalinata barocca (lo Escadório do Bom Jesus) che porta fino in cima lungo un percorso simbolico che ripercorre le stazioni della Via Crucis, attraversa le tentazioni dei cinque sensi (Escadório dos Cinco Sentidos) e si conclude – per la felicità del pellegrino – con l’Escadório das Três Virtudes e le cappelle delle tre Virtù (fede, speranza e carità). La camminata è faticosa, ma impreziosita da giardini segreti, fontane allegoriche, piccole grotte. I pellegrini più tenaci se la fanno tutta sulle ginocchia. Al ritorno si può scendere con la rapidissima e ripidissima funicolare che dal 1882 sale e scende su e giù dalla collina del Bom Jesus: è la più antica della penisola iberica e la più antica del mondo tra le sette funicolari esistenti che utilizzano questo sistema di contrappesi ad acqua.
Le Aldeias do xisto
C’è un segreto ben custodito tra i boschi e le montagne del centro del Portogallo, nell’area che si estende suppergiù da Coimbra alla serra da Estrela: sono i villaggi di scisto, luoghi magici dove il tempo scorre lento. A prima vista sembrano disabitati, ma dietro le porte delle case scolpite nella pietra fanno capolino la vita rurale, le tradizioni antiche, un’ospitalità calda. Attualmente sono 27 i villaggi che compongono la Rede das Aldeias do xisto, i cui obiettivi sono la preservazione e la promozione turistica del paesaggio culturale del territorio, la valorizzazione del patrimonio architettonico e lo sviluppo sostenibile del suo tessuto sociale ed economico. Passeggiando lungo queste strade acciottolate mi sono sentita sospesa nello spazio e nel tempo; nella nebbia ho respirato le storie di chi ha abbandonato questi posti, di chi non se n’è mai andato e di chi vi sta facendo ritorno per salvarli dall’oblio del mondo moderno.
Pitture rupestri…?
Una Pasqua a Casal Novo
E poi la domenica di Pasqua a Casal Novo, con Quico e la mia famiglia adottiva portoghese: accolte ancora una volta con tutto il calore possibile immaginabile da mamma Licinia e papà Jegundo al grande tavolo con nonni e nipoti, un pranzo di festa che si apre con un caldoverde insaporito da gran tocchi di chouriço e si chiude con un morbidissimo pão de ló. E io sono grata e felice per questi momenti, per questo sentirmi a casa lontano da casa, per gli affetti e le amicizie, per la Primavera che sta arrivando. Per l’imbarazzo divertito mio e di Ginevra quando bussa alla porta il prete con mezzo paese dietro per il rito del beijo da cruz, il bacio alla croce, cui fanno seguito auguri, abbracci e brindisi. Per il senso di comunità di questo piccolo accrocco di case che conta poco più di cento abitanti, ma che quel giorno è stato l’ombelico del mio mondo.
Dovunque voi siate, con chiunque voi siate: Feliz Páscoa!
Per me Londra è una città mosaico, perché ogni volta che ci torno aggiungo un pezzettino, che a volte si sovrappone e a volte si incastra agli altri. Tutti questi pezzettini insieme vanno a formare una mappa dei ricordi complessa e contraddittoria, fatta di esperienze vissute a età diverse e con occhi ogni volta nuovi. Poi tanti amici e amiche hanno cominciato a trasferirsi a Londra, chi per studio chi per lavoro. Molti sono tornati, alcuni sono rimasti, alcuni sono andati, tornati e ripartiti. Io nel frattempo leggevo i romanzi di Zadie Smith e l’immaginario della sua Londra meticcia andava a intrecciarsi ai racconti dei miei amici.
La mia prima Londra è stata in gita di classe in quarta ginnasio, segnata da una sciagurata sistemazione in famiglia in un quartiere periferico e malfamato con automobili in fiamme ai bordi delle strade e babygang allo sbaraglio (Catford, dalle parti di Greenwich, tuttora immune alla gentrification della Greater London). E tuttavia, oltre ai lavandini con i rubinetti separati per l’acqua calda e l’acqua fredda e il packed lunch coi panini spalmati di burro, ricordo un grande senso di libertà ed esaltazione, eccitato dalle creste colorate dei punk che si radunavano la sera a Piccadilly – molto più fighi di quelli che ero abituata a vedere alla fiera di Senigallia il sabato pomeriggio a Milano.
La seconda Londra è stata veloce: una gita in giornata l’estate dello stesso anno, in occasione di una vacanza studio in Galles. La terza Londra è stata uno degli ultimi anni di liceo con la Cecilia – stavamo in un ostello tamarro a Russel Square che sembrava un incrocio tra una discoteca e un ospedale. Mi ricordo la coda lunghissima al Madame Tussaud e di aver fotografato praticamente ogni singola statua di cera. Mi ricordo la scultura di una donna incinta senza braccia al centro di Trafalgar Square (l’ho cercata su google: si chiamava Alison Lapper Pregnant di Marc Quinn, membro degli Young British Artists).
La mia quarta Londra è Everybody loves the Cha-Cha-Cha di Sam Cooke ballata sulla moquette della casa di Sean a Grove End Road, è Hyde Park in boccio, è fermare il traffico per mettersi in posa in Abbey Road, sono i pancakes alla frutta al Breakfast Club di Hoxton, sono le pinte bevute in riva al fiume e i cocktail bar spaziali dove mi ha portato la Berri: il Nightjar a Shoreditch, il Connaught a Mayfair, il Lab a Soho.
La mia quinta e ultima Londra, quella dello scorso weekend, è un viaggio con le mie amiche in modalità teenager. Siamo partite in cinque dalla Malpensa il giorno dell’eclisse, dell’equinozio di primavera e dello sciopero degli aeroportuali (tre ore di ritardo sulla partenza del volo). Il taxi che ci ha portato da Victoria a East London ci ha probabilmente fregato facendo un giro più lungo del necessario, ma almeno ho fatto un ripassino delle attrazioni turistiche della città. Sarà che Londra è immensa, sarà che spesso ho girato con la metropolitana (mi fa l’effetto teletrasporto e perdo coscienza delle distanze), sarà che il mio senso dell’orientamento è disastroso, ma a me questa città crea una confusione pazzesca e continuo a non riuscire a collocare i suoi luoghi al posto giusto. È buffo perché i cosiddetti punti di riferimento vecchi e nuovi come il Big Ben, il London Eye, il Gherkin e lo Shard – per gli amici “il cetriolo” e “la scheggia” – a me sembrano spuntare sempre in punti diversi…
È stato bello ritrovarsi e condividere per un paio di giorni la vita londinese delle nostre amiche felicemente emigrate, non avere la fretta della prima volta e potersi godere le piccole cose di questa città grande: le bolle di sapone, le bancarelle di libri usati, la musica gipsy che sale a sorpresa dalle sponde del Tamigi e i dj-set improvvisati sotto un ponte. Abbiamo fatto colazione con fagioli bacon uova e salsicce; ci siamo rifatte gli occhi e il naso al Borough market (uno dei mercati alimentari più antichi del mondo); abbiamo fatto scorta di ballerine primaverili da Primark, quelle che fanno puzzare i piedi ma costano solo tre sterline; ci siamo sdraiate sul pavimento della Turbine hall alla Tate Modern; abbiamo scelto i bulbi più belli al Flower Market di Columbia Road grazie ai consigli di una super giardiniera e comprato collanine a Brick Lane. Abbiamo fatto la Oyster senza prendere la tube neanche una volta, ma ci siamo fatte i selfie sulla 94. Abbiamo incontrato il sosia di Conchita Wurst (la cantante barbuta che ha vinto l’Eurovision) al Dalston Superstore, un locale gay molto divertente dove ho avuto l’ennesima conferma che il mondo è bello perché è vario e variopinto. Abbiamo mangiato Tom yam goong bevendo Beerlao da Busaba Eathai a Soho e abbiamo placato con litri di tap water le vampate provocate dai meravigliosi e piccantissimi piatti punjabi di Tayyab a Whitechapel. Abbiamo bevuto (un sacco di) birra al Waxy O’Connors a Piccadilly cantando a squarciagola cori da stadio e canzoni della nostra adolescenza (l’unico maschio al tavolo probabilmente ne è uscito sconvolto); abbiamo ballato fino a tardi in un locale trovato a caso e ci siamo svegliate col mal di testa la mattina dopo; la domenica abbiamo guardato El Clásico tifando per “il Bologna” al mitico Blind Beggar, il pub dove lavorava la Sibilla.
“Le sette sorelle” è una locuzione che indica varie cose: le Pleiadi, un gruppo di sette grattacieli del classicismo socialista a Mosca, il cartello delle compagnie petrolifere che controllarono il mercato dell’oro nero fino agli anni Settanta. Per me siamo io e le mie amiche, sette sorelle in giro per Londra, di nuovo tutte insieme per la prima volta dopo tanto tempo. Un brindisi dopo l’altro: al ritrovarsi, ai ricordi, ma anche al diventare grandi, ai progetti, all’incertezza, al futuro. Celebrando le strade diverse che ognuna di noi sta percorrendo, ognuna con i suoi ostacoli e dubbi, ma anche con tante piccole e grandi soddisfazioni e speranze. Londra è stata lo scenario perfetto per questo riunione perché la sua vitalità ci ha riempito e ci ha fatto ridere, cantare e ballare senza sosta. Londra è come le ragazze: colorata, casinista, rumorosa, meravigliosamente sfaccettata.
Abdel ci ha accompagnate fino all’ingresso dell’hammam, abbiamo portato con noi solo un sacchetto di plastica con dentro un asciugamano e 100 dirham in mano. Ci ha salutate dicendo di aspettare “les filles“, che si sarebbero prese cura di noi. “Les filles” sono poi arrivate: due vecchie signore serissime, una grassa e piena, l’altra magra e rinsecchita – entrambe nude e sciabattanti. Ci siamo spogliate anche noi e siamo rimaste ad aspettare che tornassero. Non sapevamo bene cosa fare e come muoverci, allora ci siamo fatte prendere docilmente per mano e accompagnare nella prima stanza, la più calda, dove ci siamo sedute per terra a sudare in attesa della mossa successiva.
Le donne marocchine, spesso coperte da capo a piedi nelle strade e nelle piazze, si spogliano nell’hammam di ogni velo e remora. Arrivano da sole o con le amiche, per lavarsi a vicenda. I pigri e gli imbranati, invece, possono delegare tutto il lavoro e farsi lavare dalle energiche tebbaya. È un po’ imbarazzante all’inizio, ma poi ti rendi conto che l’unico modo possibile per godersi l’esperienza è chiudere gli occhi e abbandonarsi alle mani esperte delle filles. La mia signora era la grassa, con due seni lunghi ed enormi che venivano sballottati a destra e a sinistra mentre spostava i pesanti secchi di acqua calda facendoli scivolare sul pavimento bagnato da una stanza all’altra. Mi ha preso e mi ha ricoperto tutta di sapone nero untuoso, mi ha rigirato come una cotoletta, mi ha mollato di nuovo da sola. Quando ho riaperto gli occhi ho visto la Cecilia in mutande che veniva a sua volta spupazzata dalla signora rinsecchita e mi è venuto da ridere 🙂 Poi la mia signora è tornata e ha cominciato a strofinarmi con una spugna finché ogni centimetro del mio corpo si è purificato della pelle morta, della sabbia del deserto, di tutti i peccati del mondo. Ogni tanto mi gettava a tradimento un secchio d’acqua calda in testa o in faccia. Le altre ragazze nella stanza non ci filavano di striscio.
Ormai alla mercé della signora grassa e della signora magra ci siamo spostate in un’altra stanza, dove ci hanno fatto stendere sul pavimento bagnato prima a pancia in giù e poi a pancia in su. Con un massaggio vigoroso hanno sciolto le tensioni delle nostre ormai morbidissime membra fin sotto le piante dei piedi; con fare dittatoriale ci hanno fatto accoccolare nel loro grembo, alzare e aprire le gambe, allungare le braccia, rigirare sopra e sotto, appoggiare la testa sui loro cosciotti. Delle bambole di pezza, praticamente. Il massaggio si conclude con un altro paio di secchiate d’acqua alla Buster Keaton e les filles si apprestano a lasciarci. Sussurro choukran, grazie. La signora grassa abbozza per la prima volta un vago sorriso e si dilegua.
Usciamo alla luce del sole coi nostri sacchetti di plastica, gli occhi bruciano ancora un po’ a causa del sapone. Ci sentiamo bene, pulite e leggere. Ridiamo del nostro essere state maltrattate e sballottate, del modo spiccio in cui la nostra pudicizia è andata a farsi benedire, dell’intimità inaspettata. Il riso liberatorio di due bambine dalla pelle di pesca, sperdute e felici.
Treno di notte per Lisbona racconta la storia di Gregorius, un noioso professore svizzero di greco e latino che una mattina fredda e piovosa, mentre si reca a scuola, si imbatte in una donna misteriosa che sta per buttarsi da un ponte. Si lancia verso di lei, la agguanta e la salva. L’incontro lo porta a scoprire un ancor più misterioso libro portoghese e d’un tratto decide di mettersi sulle tracce dell’autore, Amadeu de Prado. Salta giustappunto su un treno di notte per Lisbona e, una volta arrivato in Portogallo, scopre che Amadeu era un medico vissuto al tempo della dittatura di Salazar. Il racconto si sviluppa intorno agli scritti lasciati da Amadeu e ai tentativi di Gregorius di ricostruire la sua vita e il suo pensiero.
Cosa mi è piaciuto.
Le descrizioni della luce che brilla a Lisbona: “Se l’indomani Lisbona non fosse stata immersa in quella luce d’incanto, pensò in seguito Gregorius, le cose forse avrebbero preso tutta un’altra piega. Forse sarebbe andato all’aeroporto e si sarebbe imbarcato sul primo volo per Berna. Ma la luce impediva ogni tentativo di tornare sui propri passi. La sua radianza aveva il potere di rendere il passato qualcosa di remoto, pressoché irreale, e davanti a quello splendore la volontà perdeva ogni ombra gettata dal passato e non restava che procedere verso il futuro, quale che fosse”.
Una frase molto bella, che Amadeu ripeteva sempre: “l’immaginazione, il nostro ultimo santuario”. Al di là della politica, della religione e di tutte le sovrastrutture, la capacità di creare nuovi mondi col pensiero resta lo strumento più potente che abbiamo per sfuggire alle miserie del quotidiano.
Cosa non mi è piaciuto.
Diciamocelo, è un libro un po’ palloso. Le annotazioni di Amadeu a volte sono di una pesantezza estrema e più che a Montaigne e al desassossego di Pessoa fanno pensare al diario di un adolescente irrequieto lì lì per tagliarsi le vene. In generale, lo stile è talmente libresco che i dialoghi arrancano, sono poco naturali e molto artificiosi. L’innaturalezza è un po’ la cifra di questo romanzo, sia nella rievocazione del passato, sia nel racconto del presente. I personaggi sono ingessati nei loro gesti e nei loro pensieri e ogni gesto e ogni pensiero assume una portata esagerata.
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Più che altro, al di là del suo valore letterario sicuramente non eccelso, il romanzo è interessante per le questioni che pone, su cui poi ognuno può fare le sue riflessioni: la vita come un viaggio e noi passeggeri di un treno che non sappiamo che direzione prenderà. E ancora: come il nostro agire sia visto e interpretato da chi ci sta intorno e l’illusione dell’intimità, come e in che termini possiamo vivere con lealtà e onestà nei confronti di noi stessi e degli altri, la felicità della compiutezza e l’angoscia dell’incompiutezza dell’esistenza.
Il tempo che scorre: “Da cosa dipende che si sperimenti un mese come un tempo pienamente vissuto, un tempo nostro invece che un tempo da cui siamo stati solo sfiorati, che abbiamo solo patito, che ci è scivolato tra le dita tanto da apparirci un tempo perduto, un appuntamento mancato di cui ci rattristiamo non perché è passato, ma perché non siamo riusciti a trarne nulla?”. La crisi di mezza età e pensieri di questo tipo portano Gregorius ad abbandonare di punto in bianco la sua cattedra e la monotona routine bernese per i cieli azzurri di Lisbona, sulle tracce di un uomo a cui tutto questo pensare ha fatto scoppiare il cervello. Un cercare l’altro che diventa un cercare se stesso: perché alla fine il senso sta tutto qua. Passiamo la vita a cercarci e chissà se poi ci troviamo. Il finale rimane aperto.
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Solo poco prima di finire il libro ho scoperto che nel 2013 il regista danese Bille August ha fatto di Treno di notte per Lisbona un film con grandi attori (Jeremy Irons, Charlotte Rampling, Mélanie Laurent, Bruno Ganz, Christopher Lee), di produzione tedesca/svizzera/portoghese. Mi sono incuriosita e l’ho visto la sera stessa in cui ho finito il libro. E’ abbastanza fedele al libro, anche se molti episodi e alcuni personaggi (Maria Joao, Mélodie, Silveira) sono tagliati. Inoltre le date non coincidono: Amadeu è di vent’anni più giovane e muore il giorno della rivoluzione dei garofani, invece che nel 1973. Sarei portata a dire che la versione cinematografica è una boiata pazzesca ma sarei ingiusta, alla fine si fa vedere. Però:
1) di un libro complesso rimane solo un esile filo narrativo che si riduce al cliché del più banale triangolo amoroso;
2) il grande tema politico e morale scompare praticamente del tutto, al punto che, come suggerito beffardamente dalla recensione di Variety, “il film fa apparire la resistenza portoghese pericolosa quanto mangiare un pastel de nata“;
3) il film è stato girato tutto in inglese e questo manda alla malora uno dei discorsi portanti del libro e cioè il tema della comunicabilità, delle lingue e delle parole (che è l’aspetto del libro che mi ha affascinato di più). Rimango sempre perplessa guardando quei film in cui la questione linguistica – sopratutto quando gioca un ruolo così importante – viene risolta alla carlona con la soluzione “ma si, facciamo parlare tutti la stessa lingua!”.
Insomma, concordo con la Aspesi che l’ha definito un “polpettonissimo”: buono per una serata di pioggia, da guardare magari con una bottiglia di Porto a fianco.
Pascal Mercier, Treno di notte per Lisbona, prima ed. italiana Mondadori 2006. Titolo originale Nachtzug nach Lissabon, traduzione dal tedesco Elena Broseghini. Vincitore nel 2007 del Premio Grinzane-Cavour. // Treno di notte per Lisbona (Night Train to Lisbon) di Bille August, 2013. Prod. Germania/Svizzera/Portogallo.
Continua il viaggio gastronomico per le vie di Parigi, alla ricerca dei suoi colori&sapori meno scontati. L’area metropolitana di Parigi è una delle più multiculturali d’Europa: secondo l’Istituto nazionale francese di statistica, il 20% delle persone che vivono nella città di Parigi sono immigrati e il 41,3% delle persone fino a 20 anni ha almeno un genitore immigrato. Dal 1820 circa in poi, anno dell’arrivo in massa dei contadini tedeschi in fuga dalla crisi agricola del loro Paese, le ondate migratorie hanno seguito il corso della storia: italiani ed ebrei dall’Europa centrale lungo il XIX secolo, russi dopo la rivoluzione del 1917, armeni scampati al genocidio, abitanti delle colonie durante la prima guerra mondiale, polacchi tra le due guerre, spagnoli, italiani, portoghesi e nordafricani dagli anni ’50 e gli anni ’70 del Novecento, ebrei sefarditi, africani e asiatici negli ultimi decenni. Basta prendere la metropolitana in qualsiasi giorno a qualsiasi orario, per rendersi conto della varietà di volti e tratti che caratterizza la popolazione urbana.
Ogni popolo e cultura porta con sé le proprie usanze e tradizioni, i propri saperi e sapori. La grande bellezza di Parigi per me sta anche in questo: e quale modo migliore di assaggiare questa caleidoscopica ricchezza, se non… a tavola? Ho scelto qualche indirizzo tra i miei preferiti, l’elenco ovviamente non è esaustivo, ma non escludo una prossima puntata…
Les Pâtes Vivantes de Paris Les Halles, 3 rue de Turbigo
Les Pâtes Vivantes, 3 rue de Turbigo – Paris 1er
Effettivamente il nome di questo ristorante cinese, “le paste viventi”, è un po’ inquietante – potrebbe essere benissimo il titolo di uno di quegli horror fantascientifici di serie Z che piacciono tanto a mio padre. Credo che il nome sia dovuto al fatto che qui i noodles sono talmente freschi da sembrare vivi: vengono infatti preparati in vetrina dai concentratissimi e abili cuochi che li impastano, maneggiano, allungano fino all’inverosimile, tagliano e lanciano per aria, il tutto a una velocità supersonica. Uno spettacolo! La traiettoria dei noodles lanciati per aria prosegue nei ribollenti pentoloni e da lì nelle ciotole sotto forma di zuppe piccantine al punto giusto e piattoni saporiti con carne, pesce, verdure. I germogli di soia sono croccanti, i funghi succulenti. Non fatevi intimorire dall’ambiente un po’ kitsch, con gigantografie alle pareti di mastri impastatori raffigurati come cowboy intenti a roteare lazos di noodles…
Café de la Mosquée de Paris, 39 rue Geoffroy Saint-Hilaire
Café de la Mosquée de Paris, 39 rue Geoffroy Saint-Hilaire – Paris 5eme
La Grande Moschea di Parigi fu costruita dopo la prima guerra mondiale, per rendere omaggio ai 70.000 musulmani morti combattendo per la Francia contro le truppe tedesche. Inaugurata nel 1926 nel 5° arrondissement, costituisce il più importante luogo di culto islamico della città e un fondamentale punto di riferimento per la vita culturale e sociale della comunità franco-musulmana. Il complesso, oltre alla moschea vera e propria, comprende una madrassa (la scuola islamica), una biblioteca, dei bellissimi giardini, un ristorante tradizionale di cucina dei Paesi del Maghreb, un café / salon de thé, un hammam riservato alle donne e una bottega di artigianato arabo. Non ho mai pranzato al ristorante (per una buona tajine posso consigliare il Traiteur Marocain del Marché des Enfants Rouge, di cui ho parlato nel post precedente), ma, se passate da queste parti, dovete assolutamente fermarvi per il tempo di un tè.
Il caffè della moschea è, secondo me, uno dei luoghi più belli e sereni di tutta Parigi. Soprattutto se vi ci indulgerete in una domenica primaverile, soleggiata e caldina, magari dopo una pigra camminata attraverso i fiori in boccio del Jardin des Plants, che sbuca proprio qui dietro. Si trova in un meraviglioso patio alberato, decorato da mosaici geometrici, dove gli unici rumori sono quello dell’acqua che scroscia nelle fontane e i pigolii degli invadenti passerotti a caccia di briciole tra le sedie e i tavolini blu. Un tè alla menta bollente e dolcissimo, ed è la pace dei sensi.
Chez Marianne, rue des Hospitalières Saint-Gervais 2
Chez Marianne, rue des Hospitalières Saint-Gervais 2 (all’angolo con Rue de Rosiers) – Paris 4eme
I falafel sono delle polpette fritte di ceci o fave con cipolla, aglio, prezzemolo e cumino, diffusi in tutto il Medioriente e in particolare in Palestina, Siria, Giordania, Egitto e Israele. I migliori di Parigi si trovano nel 4° arrondissement intorno a rue de Rosiers, cuore pulsante della comunità ebraica.
La sfida per il falafel più buono del Marais è in corso da tempo immemore ed è destinata a non giungere mai a termine: del resto de gustibus… non si discute! Anche se a giudicare dalla fila chilometrica che si forma intorno all’ora di pranzo davanti alle sue porte L’As du Fallafel pare condurre la classifica, il mio preferito è Chez Marianne, che si trova un po’ defilato all’angolo tra rue de Rosiers e rue des Hospitalières Saint-Gervais. Si può mangiare seduti all’interno oppure ordinare una pita direttamente alla finestrella che si affaccia sulla strada (a due passi c’è un giardinetto con le panchine, se non volete affrontare i vostri falafel camminando). Ogni morso è un’esplosione di sapori: il pane soffice, i falafel croccanti e profumati, le melanzane unte quanto basta, la salsa allo yogurt delicata e rinfrescante, l’equilibrio impeccabile di hummus, pomodori, cipolle, cavolo rosso e peperoncini verdi. Aggiungete un cetriolone in salamoia pescato dall’enorme barattolo poggiato sulla vetrinetta e qualche goccia di salsa piccante: libidine pura, rigorosamente kosher!
Tang Frères , 48 Avenue d’Ivry
Tang Frères , 48 Avenue d’Ivry – Paris 13eme
Nel 13° arrondissement, intorno ad Avenue d’Ivry, si sviluppa la più importante Chinatown d’Europa. Proprio al 48 di questa via sorge il primo e più grande negozio Tang Frères, una catena di supermercati asiatici fondata nel 1981 dai fratelli Bou e Bounmy Rattanavan, arrivati a Parigi dal Laos solo qualche anno prima. Oggi è il più grosso importatore di prodotti alimentari asiatici in Francia, ha un giro d’affari di centinaia di migliaia di euro e rifornisce la maggior parte dei ristoranti asiatici della capitale.
In tutto il quartiere si respira aria di Cina, ma varcando le porte del gigantesco Tang Frères di Avenue d’Ivry si viene catapultati in un’altra dimensione. La maggior parte dei prodotti in vendita reca sulla confezione scritte incomprensibili in cinese e in tutte le lingue d’Asia. Tang Frères è un universo colorato e sorprendente, dove ci si aggira tra barattoli dalle etichette misteriose, con immagini e disegnini che non si capisce cosa raffigurino, vivande varie in salamoia, sottovuoto, in lattina. Il reparto spezie & condimenti dà le vertigini! Mi aggiro tra i corridoi con la bocca aperta, osservando rapita le sciure cinesi che riempiono i carrelli della spesa e decidono cosa preparare per cena studiando i prodotti in offerta e le promozioni. I banchi di frutta e verdura fresca a prima vista sembrano più familiari, ma a guardare meglio mi accorgo che anche qui si trovano ortaggi inconsueti e frutti esotici. Su un banchetto abbiamo intravisto anche l’orrido durian 🙂
Pensavate che la soia fosse solo Kikkoman? Qua c’è una parete intera con decine e decine di marche diverse. Pensavate che all’Esselunga si potesse scegliere tra una gran varietà di pasta & riso? Pfui! Solo di noodles liofilizzati ce ne saranno più di trecento tipi: oltretutto non costano niente e sono velocissimi da preparare – per questo motivo io e Angelo ne avevamo fatto incetta prima di partire per l’interrail (avevamo accuratamente scelto i nostri gusti preferiti, ma alla ventesima busta mi sono convinta che hanno tutti lo stesso sapore… La prossima volta faccio come mio fratello e mi compro un cuoci riso elettrico).
Chez Heang – Barbecues de Seul, rue de la Roquette 5
Chez Heang, rue de la Roquette 5 – Paris 11eme
Le viette intorno alla Bastiglia sono tutto un brulicare di bar, gastronomie e localini per tutti i gusti. Noi facciamo sempre tappa da Heang, un minuscolo ristorante coreano in rue de la Roquette, la cui specialità sono le grigliate di carne e pesce. Su ogni tavolino è incorporata una griglia, dove ognuno prepara il proprio cibo scegliendo come e quanto cuocerlo. La formula più economica costa circa 15 euro e prevede un’insalatina di mare, un piattone di fettine di manzo da grigliare e l’immancabile riso Bibimbap con verdure bollite, germogli di soia, uova e peperoncino. Altrimenti si possono scegliere combinazioni più ricche con petto d’anatra, capesante, gamberi e gamberoni – sempre da grigliare a piacere – oppure noodles e zuppe. Ordinate anche una ciotolina di Kimchi, la specialità coreana per eccellenza: si tratta di cavolo fermentato, speziato con zenzero candito e peperoncino. Ha un gusto strano, piccante e acidulo: non a tutti piace, ma almeno una volta nella vita bisogna provarlo…
A me questo posto piace molto perché, a parte il cibo ottimo e i prezzi contenuti, è conviviale e divertente partecipare attivamente alla preparazione della propria cena 🙂 Immancabilmente qualche fettina scivola giù dalla griglia e allora parte la missione di recupero con le bacchette – menomale che da piccola ero un asso a giocare a Shangai!
Il mio ultimo viaggio a Paris è stato decisamente cibo-centrico e come volevasi dimostrare, a furia di baguettes imburrate a colazione, sono tornata a casa con un paio di chili in più. Non poteva essere altrimenti e tuttavia sono molto felice di aver ceduto alle lusinghe del colesterolo. La scena mangereccia parigina è da sballo, perché davvero si può trovare tutto quello che si desidera – dai panetti di foie gras al lok lak cambogiano – grazie alla varietà di cucine che prosperano in questa grande città multietnica e multiculturale. Et voilà il primo di due itinerari gastronomici parigini scrupolosamente selezionati, l’uno prettamente français e l’altro più esotico, per godere da mattina a sera del maestoso piacere del mangiare e bere bene. NB: sono una fille du Marais, quindi la maggior parte degli indirizzi gravita intorno al 3° arrondissement.
Boulangerie Le Moulin de Rosa, 32 rue de Turenne
Bonjour! Qual modo migliore di iniziare la giornata se non con un pain au chocolat fragrante? Ce ne sono a bizzeffe di panetterie a Parigi, a me piace molto questa boulangerie a due passi da Places des Vosges. L’inebriante profumo del pane appena sfornato vi stordirà con tutta la sua forza e vi costringerà a strafogarvi di croissants burrosi e viennoiserie varie.
Le Marché des Enfants Rouges e il Marché de la Bastille, rue de Bretagne e boulevard Richard Lenoir
Marché des Enfants Rouge, 39 Rue de Bretagne – Paris 3eme
Da Rue de Turenne proseguiamo fino a girare a sinistra in Rue de Bretagne, dove si trova l’entrata principale al Marché des Enfants Rouges (l’altra è su rue Charlot). Questo è il mercato coperto più antico di Parigi – pare che sia stato costruito nel 1615 per volere di Luigi XIII – e deve il suo nome alle casacche rosse dei bambini ospitati nell’orfanatrofio che si trovava nei pressi. Il Marché des Enfants Rouges è il cuore vibrante del quartiere, la place du village. Dal martedì alla domenica, qui si ritrovano le elegantissime sciure del Marais per riempire le sporte della spesa di frutta e verdura, carne, pesce, salumi e formaggi (se volete imitarle, occhio ai prezzi! data la zona, è tutto molto caro). E’ piccolo ma molto animato, soprattutto verso mezzogiorno, quando i tavolini tutt’intorno al mercato si riempiono: molti dei banchetti infatti offrono la possibilità di mangiare sul posto e la scelta è ampia, tra specialità francesi, marocchine, italiane, libanesi, giapponesi. Il mio preferito è il Traiteur Marocain, che prepara delle tajine eccezionali e relativamente a buon prezzo. L’altro indirizzo imperdibile è l’Estaminet des Enfants Rouges, a mio parere uno dei bistrot migliori del quartiere. Come in ogni bistrot che si rispetti, la lavagna all’entrata illustra i tre o quattro piatti del giorno – sempre particolari e preparati con ingredienti freschissimi del territorio. La formule expresse midi (plat du jour+caffè+mini dessert) costa 14 euro, altrimenti con una assiette di salumi e meravigliosi formaggi puzzosi accompagnata da un bicchiere di vino si va sempre sul sicuro.
Un altro mercato molto bello da queste parti è il marché de la Bastille, che si anima lungo Boulevard Richard Lenoir il giovedì e la domenica mattina. Con più di cento banchetti, è tra i mercati più grandi di Parigi. Ci troverete frutta e verdura, macellerie, salumieri e formaggiai da ogni angolo di Francia. Quando passavamo a Parigi le vacanze di Natale, mio padre veniva qui alla mattina presto a scegliere le ostriche migliori, che arrivavano nella notte da Bretagna e Normandia. Lo sapevate che le ostriche è bene mangiarle solo nei mesi che non contengono la lettera R (in francese)? Cioè tutti, a parte maggio, giugno, luglio e agosto. Il detto deriva dal fatto che nei mesi estivi il caldo ne ostacolava il trasporto e la conservazione, tanto che nel 1752 un’ordinanza della polizia di Parigi vietò il commercio delle ostriche in estate.
A la Française, 50 rue Léon Frot
A la Française, 50 Rue Léon Frot – Paris 11eme
Questo bar me l’ha consigliato mia cugina, che vive a Paris da qualche anno, come il posto branché – cioè fico – del momento: fino a qualche tempo fa era Stephen Martin in persona, premiato nel 2009 come miglior miscelatore di Francia, a preparare i cocktail – anzi i coquetels o, ancora meglio, le boissons mélangées – dietro al bancone. La bottigliera è meravigliosa e particolarissima, dato che usano solo ed esclusivamente alcolici di produzione francese, rivisitando i classici con ingredienti spesso dimenticati e rari, come ad esempio il Suze, un amaro di colore dorato a base di genziane gialle, oppure il Byrrh, un aperitivo a base di vino rosso, mistella e chinino. Col primo abbiamo provato L’Eau Fraîche, a base di Suze, sciroppo alla pesca, gin della Borgogna, acqua tonica e liquore al rosmarino; col secondo la Caïpi Byrrh, una caipirinha con Byrrh e succo di lamponi.
Se si arriva presto si può chiacchierare con i gentilissimi baristi, chiedere delucidazioni sulla lista o fare una piccola degustazione. I prezzi sono onesti perché ha aperto da poco: i cocktail costano dai 6 agli 8 euro e ancora meno durante l’aperitivo. Si mangia anche – mi hanno detto che la tartare è ottima. Buoni vini e birre, rigorosamente francesi.
Robert et Louise, 64 rue Vieille du Temple
Robert et Louise, 64 Rue Vieille du Temple – Paris 3eme
Carnivori, questo è il vostro paradiso. Aperto nel 1937, Robert et Louise è un’istituzione nel Marais. Non appena varcata la porta con le tendine a scacchi rossi e bianchi del ristorante si viene catapultati nello spazio e nel tempo, in un angolo di Francia dove la carne viene cotta alla brace nel camino e ci si accomoda a grandi tavoli di legno accanto ad altri commensali. L’atmosfera è conviviale e calda (fin troppo, per chi si siede nei pressi camino: meglio optare per la sala al piano di sotto) e il cibo è eccellente. Noi abbiamo iniziato con le escargots al burro aglio e prezzemolo, continuato con una sontuosa entrecote al sangue e concluso con una crème brûlée perfetta. La carta dei vini è ampia, con rossi da Sud-Ouest, Bourgogne, Languedoc-Roussillon, Bordeaux, valle del Rodano e della Loira.
Una cena goduriosa – ma quello che è successo dopo, quando soddisfatti e con la pancia piena abbiamo risalito le scale pronti ad andarcene, proprio non ce lo aspettavamo. Avevo già mangiato qua, ma solo dopo l’ultima cena ho scoperto che a mezzanotte, una volta sparecchiati i tavoli, la porta viene chiusa a chiave dall’interno e il ristorante si trasforma in una fumosa e allegra confraternita, dove i bicchieri dei pochi eletti che hanno tirato abbastanza tardi da ritrovarsi casualmente o consapevolmente qua dentro continuano a essere riempiti, una bottiglia dopo l’altra, mentre i posacenere si riempiono. Sembra un ritrovo carbonaro, ma con la musica. Nessuno può entrare da fuori e una volta usciti non si rientra più. La coppia di attempati signori che gestisce il locale tiene banco e intrattiene la composita compagnia. Mentre il marito dirigeva una specie di Sarabanda, la moglie ancora col grembiule addosso danzava il twist con un americano altissimo e ammiccava come una diciottenne. Un delirio divertentissimo. Ma non ditelo a nessuno… è un segreto!
Qua si conclude la prima parte del viaggio anti-stereotipi alla scoperta dei sapori di Parigi. Nella prossima puntata, i sapori dal mondo della Parigi multietnica 🙂
Brad ha quarant’anni ed è nato e cresciuto in Alaska. Ha imparato a nuotare e pescare in quelle acque gelide, la sua pelle è ruvida e rubizza. I suoi occhi sono piccoli e si muovono rapidi dietro le lenti degli occhiali dalla montatura d’oro. L’abbiamo incontrato in ostello a Vientiane, la capitale del Laos; era lì all’insaputa della moglie che lo credeva a Bangkok. Con quella faccia da furbetto pensavamo che a spingerlo fino in Laos fosse qualche stato qualche amorazzo o qualche voglia proibita, ma il segreto che custodiva era d’altra natura, di un romanticismo scomparso: era sulle tracce di un anello antico di secoli, che portasse iscritte, in quella lingua Lao che davvero sembra la lingua degli elfi, le parole d’amore per chiedere in sposa sua moglie ancora una volta. Stavano per trasferirsi a Tokyo con le due figlie adolescenti, perché lei aveva trovato un buon lavoro come insegnante di inglese. Brad fa un lavoro molto più particolare, è saldatore subacqueo. Non penso ce ne siano tanti al mondo. Di lì a un mese sarebbe partito con la sua squadra per l’isola del Giglio, a lavorare al recupero del relitto della Costa Concordia. Ha riso quando gli abbiamo raccontato di Capitan Schettino. Da contratto, non avrebbe potuto allontanarsi dalla base e scendere a terra – pare che alcuni suoi amici siano stati licenziati per aver ceduto al richiamo delle belle italiane e del limoncello al bar. Il suo è un lavoro molto duro, perché dopo aver indossato lo scafandro ed essersi immerso deve rimanere per molte ore nelle acque nere come la notte, senza poter mangiare né bere. I mesi in cui è in mezzo al mare vive con i suoi compagni in regime cameratesco, parlano di donne, trasudano virilità repressa e giocano con le prese della corrente. Ma Brad ama il suo lavoro e parla di quello che fa con un misto di arroganza e orgoglio. Chissà se ha trovato l’anello che cercava, chissà se è riuscito a fare una capatina al bar del Giglio ogni tanto.
Questa è la storia di una sorpresa: un biglietto aereo con destinazione segreta, che tale è rimasta finché non siamo atterrati. Ho fatto l’imbarco e tutto il volo con la musica a palla nelle orecchie e lo sguardo basso per evitare annunci e cartelli, con Angelo che mi rigirava come una trottola per farmi perdere l’orientamento e i passeggeri che probabilmente mi guardavano ridacchiando. Un diabolico e meraviglioso regalo di compleanno..!
Budapest è una città elegante e bellissima, appoggiata com’è sulle rive del Danubio. Sulle sponde occidentali si posano le colline tranquille di Buda e Obuda, dominate da una statua simboleggiante la libertà che regge tra le mani la palma della vittoria (o, secondo alcuni, un gigantesco apribottiglie). Su quelle orientali si accoccola Pest la vivace. Otto lunghi ponti di colori diversi collegano una riva all’altra, mentre sotto il grande fiume scorre poderoso.
#unpo’distoria
La storia di Budapest comincia con l’insediamento romano di Aquincum, capitale della Bassa Pannonia, i cui pressi erano stati in precedenza abitati dai Celti. Poi nel Medioevo arrivarono le tribù delle steppe e tra esse i Magiari, guidati dal potente Arpad, capostipite della prima dinastia d’Ungheria. Nei successivi cinque secoli il Regno si ampliò e si rafforzò, giungendo al culmine della potenza con la dinastia Hunyadi e in particolare con Mattia Corvino, il principe rinascimentale per eccellenza. Mattia il Giusto è un eroe nazionale protagonista di tante leggende, di sicuro teneva in grande considerazione le arti e le lettere ed era affascinato dall’idea di re-filosofo teorizzata da Platone. La sua biblioteca era seconda solo a quella del Vaticano. Eppure il nemico era alle porte, e alla morte di Mattia Corvino nessuno poté opporsi all’avanzata dei turchi: con la battaglia di Mohacs del 1526 Solimano il magnifico ebbe il sopravvento e iniziarono così 150 anni di dominazione ottomana (ecco spiegate le terme e i cevapcici!). Furono gli Asburgo d’Austria a intraprendere la “reconquista” d’Ungheria e a cacciare i turchi – si combatté di nuovo a Mohacs e questa volta furono gli ottomani ad avere la peggio.
Passarono altri 150 anni tra rivolte, riforme e casini vari (sempre sotto l’occhio vigile degli Asburgo) finché nel 1867 fu ufficialmente ratificata la nascita dell’Austria-Ungheria, o meglio della Duplice Monarchia Imperiale e Regia. In pratica Cecco Beppe e la principessa Sissi erano allo stesso tempo imperator e imperatrice d’Austria e re e regina d’Ungheria (agli ungheresi Sissi/Elisabetta/Erszebet è sempre stata simpatica, non fosse altro che per l’aver imparato la loro lingua, notoriamente difficilissima. L’ungherese infatti è una lingua agglutinante appartenente al ceppo ugro-finnico, come il finlandese e l’estone), anche se i due Paesi mantenevano due Parlamenti e due Capitali. L’impero si sgretolò alla fine della prima guerra mondiale e l’Ungheria smise di profumare di valzer e baffi impomatati.
Provata dalle perdite umane e territoriali, l’Ungheria attraversa nei decenni successivi un periodo agitato di rivolte e brevi governi rivoluzionari e controrivoluzionari: sono gli anni della guerra civile, del Terrore Rosso e del Terrore Bianco. Negli anni Quaranta si allinea sempre più alla Germania di Hitler, accanto alla quale si schiera allo scoppio della guerra. Gli anni peggiori sono il 1944 e il 1945, quando sale al potere il partito filo-nazista delle Croci Frecciate. Rapidamente la situazione degenera e nel giro di pochi mesi centinaia di migliaia di ebrei ungheresi vengono deportati nei campi di concentramento. Fu l’Armata rossa a liberare Budapest dai nazisti, alla fine di un sanguinoso assedio durate oltre due mesi. Peccato che poi i russi si dimenticarono di andarsene! Da un giorno con l’altro l’Ungheria entrò in un altro incubo, quello della dittatura comunista. In Andrassy utca 60 si può visitare la Terror Haza (House of Terror), che fu prima quartier generale del partito delle Croci Frecciate e poi sede della polizia politica comunista. Nei suoi sotterranei furono rinchiuse, torturate e uccise centinaia di persone. Ora è un museo molto ben allestito che commemora le vittime del nazismo e del comunismo, attraverso un percorso che illustra le atrocità perpetrate in quegli anni bui. A me ha colpito molto la stanzetta spoglia in cui sono esposte due divise, a simboleggiare il repentino “cambio di casacca” e la continuità della dittatura sotto spoglie diverse.
Il punto di svolta si ebbe con la rivoluzione del 1956, scoppiata dall’esasperazione di un movimento costituito prevalentemente da studenti e operai e raccolto intorno a Imre Nagy. La rivolta fu repressa nel sangue dalle truppe sovietiche; Nagy fu arrestato e giustiziato. Dopo i fatti del 1956 la situazione rimase molto tesa, ma gradualmente l’influenza dell’URSS si allentò e l’Ungheria cominciò un progressivo avvicinamento all’Europa occidentale. Il 23 ottobre 1989 fu proclamata la Repubblica d’Ungheria.
Insomma, la storia dell’Ungheria è complessa e io, nel ridurla in pochi paragrafi, spero di non aver fatto errori grossolani. Quello che mi interessa dire è che approfondire la storia di un popolo ci permette di comprendere meglio tante cose. Gli ungheresi, ad esempio, hanno fama di essere gente triste: a guardar meglio ci si accorge che spesso non è tristezza quella negli occhi di molti anziani, ma una diffidenza e riservatezza congenita, retaggio di quegli anni in cui l’esprimere un’opinione poteva farti arrestare e torturare, quando il Grande Fratello non era un programma televisivo, ma un occhio puntato su ogni aspetto della vita quotidiana fin nei suoi risvolti più privati. Anni di sussurri, paura e libertà calpestate.
#colnasoperaria
Budapest è la città delle mille architetture, stratificate nel corso della storia. Sui quattro lati della stessa piazza si possono vedere edifici di stile diverso, anche se la maggior parte è relativamente recente. Art Nouveau, liberty, eclettismo, neoclassicismo, gotico, neogotico, neobarocco, neorinascimentale, Bauhaus, classicismo socialista, casermoni grigi soviet style, condomini anonimi (il cosiddetto neobrutto…). Non ci si annoia mai a camminare col naso per aria. Due degli edifici più importanti di Budapest sono il lunghissimo Parlamento, costruito sul modello del corrispettivo inglese, Westminster, e la Basilica di Santo Stefano. La cosa curiosa è che sono entrambi alti 96 metri, a simboleggiare l’uguale importanza nello Stato di politica e religione: durante il comunismo hanno barato mettendo una bella stella rossa in cima alla guglia più alta del Parlamento – come i bambini che si mettono sulle punte nelle foto di classe. Tra l’altro gli Ungheresi erano tutti orgogliosi del loro Parlamento perché per molti anni è stato il Parlamento più grande d’Europa, battendo di due metri Westminster (266 versus 268 metri). Poi negli anni Ottanta Ceausescu ha deciso di costruire quella “torta nuziale stalinista” che è il Palazzo del Parlamento romeno e oggi Bucarest stacca Budapest di due lunghezze, grazie a un’estensione di 270 metri! Soliti giochi a chi ce l’ha più lungo… stesso complesso di Mr Hilton, che voleva comprare il Castello di Buda per farci un albergo. Non gliel’hanno dato e per ripicca lui s’è comprato un palazzo poco più in là e ci ha costruito intorno, arrivando a inglobare una chiesa del XIII secolo.
Da queste parte vive anche Erno Rubik, l’inventore dell’omonimo cubo, il giocattolo – se vogliamo chiamarlo così – più venduto della storia. Altri Ungheresi famosi random: Bela Lugosi, l’unico e vero Dracula; Zsa Zsa Gabor, la prima diva; György Lukács, filosofo e critico letterario; László Bíró, il signore che ha inventato le biro, altrimenti dette penne a sfera; Cicciolina, pornostar ed ex parlamentare italiana (ahimé).
Stili diversi a confronto. Il nostro appartamento si trovava proprio in quel palazzo, a fianco della Basilica di S. Stefano!
#Budapestbynight
Nel mio immaginario Budapest era una di quelle città che di notte diventano dei postacci poco raccomandabili: gente sbronza, turisti (italiani) molesti, musica tamarra. Forse non era stagione, ma non abbiamo trovato niente di tutto questo: anzi, di notte Budapest si fa bella. E’ piena – piena – di locali, soprattutto all’interno del perimetro di strade dell’antico quartiere ebraico, in cui una volta si trovava il ghetto. Quel tipo di locali in cui sbirci dal vetro verso l’interno e ti viene voglia di entrare! Abbiamo poi scoperto che molti di questi locali hanno in comune alcuni aspetti che hanno portato a coniare un termine tutto per loro: romkocsmak, cioè pub in rovina o, in inglese, ruin pubs. Sono addirittura diventati una delle attrazioni turistiche più famose di Budapest (shame on me che non li avevo neanche mai sentiti nominare). In pratica, si tratta di squat nati all’interno di immobili d’epoca che durante il comunismo erano stati espropriati e lasciati cadere in rovina, poi affittati per due lire a gruppi di studenti lungimiranti che ne hanno fatti luoghi di incontro tra arte, cultura underground, musica e birrette. Immaginate un palazzo che cade a pezzi, una casa di ringhiera, cortili, corrimani a ricciolo, salette nascoste e scale e porte che portano ad altre salette nascoste, palchi e concerti live, dj set con buona musica, installazioni video, performance art, mercatini delle pulci, mercatini dei contadini, ciclofficine e biciclette che penzolano dal soffitto, muri scrostati, colorati, disegnati, firmati, poesie, arredamento totalmente casuale e tuttavia studiatissimo, il paradiso dei rigattieri, giardini segreti, piante, fiori, luci e lucine che neanche un albero di natale, sale da ballo, poltrone, vasche da bagno trasformate in poltrone, un bancone a ogni angolo… e soprattutto un’atmosfera rilassata, un luogo dove tutti sembrano presi bene e dove locali, studenti erasmus e turisti convivono in pace amore e armonia 🙂 Ce ne sono moltissimi, i più famosi sono l’Instant, il Fogas e il Szimpla. Il Szimpla è stato il primo ad aprire, nel 2000, ed è veramente figo: al punto che la Lonely Planet l’ha piazzato al terzo posto nella lista dei bar più belli del mondo!
#economiaepoliticaoggi
Il nostro ultimo giorno a Budapest è stato un po’ anomalo, per colpa di… Angela Merkel! La signora si trovava in città per una visita diplomatica al primo ministro Viktor Orban e tutti erano in fibrillazione, tanto che la circolazione di autobus e macchine in centro è stata soppressa per alcune ore. Uno spiegamento di forze notevole – gruppetti di poliziotti col colbacco a ogni angolo – e strade deserte, uno scenario piuttosto inquietante. Dato che per caso ci siamo trovati in mezzo abbiamo deciso di mangiare un kurtoskalacs con gocce di cioccolato e di aspettare il corteo, che si è poi rivelato poco eccitante, elicotteri a parte: berline nere a profusione, di cui una con le bandierine tedesche, e nulla più. Ho letto che c’erano anche delle manifestazioni in giro, ma non le abbiamo incrociate. Come se non bastasse, non abbiamo potuto visitare la sinagoga – la più grande d’Europa – chiusa al pubblico causa cancelliera. Per inciso: l’Ungheria fa parte dell’Unione Europea dal 2004, conserva però la moneta nazionale, il fiorino ungherese, dato che la sua economia non è abbastanza forte per sostenere il passaggio all’euro. In ogni caso le relazioni commerciali con i Paesi dell’Unione sono floride, soprattutto con la Germania (che da sola rappresenta circa il 25% del commercio estero), mentre fuori dalla UE il principale partner commerciale dell’Ungheria è la Russia. Solo qualche giorno dopo la visita di Angelona Merkel, infatti, Orban ha accolto a Budapest Vladimir Putin con baci e abbracci, in occasione di un importante summit dedicato tra le altre cose alla negoziazione del rinnovo dei contratti per la fornitura di gas russo, che oggi copre circa l’85% del fabbisogno nazionale, e al finanziamento da parte di Mosca della centrale nucleare di Paks. L’Unione Europea non vede di buon occhio questa amicizia, poiché teme l’influenza della Russia sui paesi dell’Est Europa. In due parole, l’Ungheria postcomunista è tirata per una manica verso Est e dall’altra verso Ovest; mentre pericolose frange nazionaliste e xenofobe ribollono in Parlamento, il Paese cerca il suo equilibrio.
#vivaleterme!
Quando ancora non sapevo che saremmo andati a Budapest e Angelo mi ha detto di mettere nello zaino un costume da bagno, ho pensato fosse un depistaggio… poi appena scesi dall’aereo ho visto dei mucchietti di neve e ho avuto conferma che il bikini non mi sarebbe servito per andare in spiaggia 😉 Effettivamente non si può visitare Budapest e non passare almeno un pomeriggio spaparanzati alle terme: la cultura del bagno pubblico è una delle eredità più importanti lasciate dai romani e poi dai turchi, e ancora oggi rappresenta un momento importantissimo di socialità nella vita quotidiana ungherese. Le calde acque che sgorgano dalle sorgenti sotterranee della città sono famose in tutto il mondo e ritemprano da tempo immemore gli stanchi viandanti… Noi siamo stati alle terme Szecheny, uno dei complessi termali più grandi d’Europa, costruite tra il 1909 e il 1913 in stile neorinascimentale. Il complesso è davvero gigante, con una dozzina di vasche coperte, tre grandi piscine all’esterno e diverse stanzette dove fare la sauna. La temperatura dell’acqua varia da 18° a 40° e il consiglio è quello di alternare caldo-freddo-caldo-freddo fino a che i vostri polpastrelli raggrinziti non reclameranno pietà… Pucciarsi nell’acqua caldissima e turchese della piscina all’aperto è un vero sballo, sopratutto quando la temperatura fuori si aggira intorno allo zero e i vapori si innalzano voluttuosi nel cielo nero della sera per poi ripiombare verso il basso. Il posto più ambito è quello sotto le fontane, con i getti d’acqua che sparano dritti sulla schiena sciogliendo ogni tensione possibile immaginabile. Ovviamente, più lunga è la permanenza in acqua, più traumatica sarà l’uscita – considerato che l’asciugamano che avrete diligentemente appoggiato sulla panchina a bordo vasca si sarà nel frattempo riempito di brina diventando completamente rigido, gelato e inutile. Non resta che correre più veloce della luce fino alla sauna più vicina!
E poi, che altro? Se la giornata alle terme vi ha fatto venire fame… qui trovate un riassunto ragionato, corredato da qualche curiosità, delle principali specialità culinarie della capitale ungherese.